Dati bibliografici
Autore: Enrico Cattaneo
Tratto da: Lectura Dantis 2002-2009. Omaggio a Vincenzo Placella per i suoi settanta anni
Editore: Università degli Studi di Napoli "L'Orientale", Napoli
Anno: 2011
Pagine: 341-359
Nel Canto IX del Paradiso, Dante fa dire a Folco da Marsiglia, poi vescovo di Tolosa, una parola critica contro gli ecclesiastici del suo tempo, e conclude nei seguenti termini (vv. 133-135):
Per questo l'Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, si che pare a’ lor vivagni.
Dunque, secondo Dante, i mali che affliggono la Chiesa sono causati dal fatto che si è abbandonato lo studio della sacra Scrittura (l'Evangelio) e dei Padri della Chiesa (i dottor magni), per occuparsi di Decretali, cioè di quelle questioni di diritto canonico, che regolavano le assegnazioni delle rendite e dei benefici. È interessante anzitutto notare come Dante associ la Scrittura e i Padri in uno stretto binomio: in effetti, per i Padri della Chiesa la Scrittura fu un costante punto di riferimento; essi, come dice una Istruzione della Congregazione per l'Educazione Cattolica, «sono in primo luogo ed essenzialmente dei commentatori della Sacra Scrittura» . Senza alcun dubbio, la Sacra Scrittura era per essi, come si legge ancora dal suddetto Documento,
oggetto di incondizionata venerazione, fondamento della fede, argomento costante della predicazione, alimento della pietà, anima della teologia. Ne hanno sempre sostenuto l'origine divina, l’inerranza, la normatività, la inesauribile ricchezza di vigore per la spiritualità e dottrina .
Vale per tutti ciò che il grande studioso e storico dell'antichità cristiana, Henri-Irénée Marrou, ha detto a proposito di sant'Agostino:
La sacra Scrittura è per lui la somma di ogni verità, la fonte di ogni dottrina, il centro di qualsiasi cultura cristiana e di qualsiasi vita spirituale; se la sua teologia è strettamente biblica, la sua catechesi non lo è meno. Via via che ci si familiarizza con l’opera e lo stile di Sant'Agostino, si avverte sempre più distintamente questa presenza della Scrittura .
Dante non usa l’espressione «Padri della Chiesa», ma nel passo sopra citato ne adopera una equivalente: i dottor magni, cioè i grandi maestri. In effetti, il titolo di magnus fu dato già nell'antichità, ricalcando un uso ellenistico — pensiamo ad Alessandro Magno — ad alcune rilevanti figure di pastori e maestri: basti citare, per l'Oriente, Atanasio il Grande (295ca-373) e Basilio Magno (330-379); per l'Occidente, i papi Leone Magno (440-461) e Gregorio Magno (590- 604). Quest'ultimo è nominato da Dante in Par. XXVIII, 133, a proposito delle gerarchie angeliche.
L’abbandono dello studio dei Padri, lamentato nel canto IX del Paradiso, è sottolineato, quasi negli stessi termini, anche in un passo della Epistola XI, 16 ai cardinali. Scrive il sommo Poeta apostrofando la Chiesa e non senza una certa enfasi retorica:
Iacet Gregorius tuus in telis aranearum; iacet Ambrosius in neglectis clericorum latibulis; iacet Augustinus abtectus, Dionysius, Damascenus et Beda; et nescio quod Speculum, Innocentium et Ostiensem declamant. Cur non? Illi Deum querebant, ut finem et optimum) isti census et beneficia consecuntur.
Anche qui Dante contrappone lo studio dei Padri della Chiesa, ormai negletti, a quello dei decretalisti: i primi cercavano Dio, i secondi invece inseguono i benefici ecclesiastici. Oltre a quattro Padri occidentali (Gregorio Magno, Ambrogio, Agostino e Beda il Venerabile), l’Alighieri nomina anche due Padri orientali, Dionigi l'Areopagita e Giovanni Damasceno, conosciuti in Occidente grazie alle traduzioni latine delle loro opere.
Nel Canto X del Paradiso, nella corona dei dodici sapienti sono nominati alcuni autori che secondo i nostri canoni appartengono al periodo patristico : Dionigi l’Areopagita, Severino Boezio, Paolo Orosio , Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile (Par. X, 121-131). Due terzine sono dedicate al filosofo Severino Boezio (480-526), console e senatore, fatto uccidere da Teodorico:
Per vedere ogni ben dentro vi gode
l’anima santa, che ‘l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode;
lo corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da esilio venne a questa pace
(Par. X, 124-129)
Circa l'influenza di Boezio su Dante ha scritto recentemente Francesco Tateo:
Il diretto influsso di Boezio può riconoscersi come fondamentale, quantunque intrecciato con altre fonti, nella formulazione della dottrina del libero arbitrio, che occupa la parte conclusiva del De consolatione e diviene uno dei punti nevralgici del messaggio dantesco ,
aggiungendo ancora:
Le parti metriche del De consolatione, che costituiscono talora splendidi esempi di lirica religiosa, divennero per Dante spunti assai suggestivi, specie per quelle parti della Commedia in cui la narrazione si apre al tono mistico dell'inno .
Nella seconda corona di sapienti, i personaggi sono tutti medievali, eccetto Giovanni, vescovo di Costantinopoli, chiamato Crisostomo (= bocca d’oro) per la sua eloquenza, morto in esilio nel 407 (Par. XII, 136-137).
Merita una speciale menzione Dionigi l’Areopagita, citato nella prima corona di sapienti. In realtà il nome è uno pseudonimo, anche se l’autore vero, nonostante tutte le ricerche, è rimasto finora sconosciuto. L'ignoto autore si presenta come discepolo di san Paolo, identificato con quel Dionigi, membro dell’Areopago, menzionato in At XVII 34 come uno dei pochi convertiti da Paolo nella sua breve e infruttuosa missione ateniese. Non fa dunque meraviglia che gli antichi abbiano preservato con cura gli scritti di questo «Dionigi», ritenuto così vicino ai tempi apostolici. Ecco i titoli delle opere a noi pervenute: I nomi divini, La teologia mistica, La gerarchia celeste, La gerarchia ecclesiastica, Lettere . Questo corpus di scritti teologici, redatto in greco verso la fine del V secolo, appare fortemente influenzato dal neoplatonismo e da un marcato apofatismo, cioè da una riflessione in cui domina un senso acuto della trascendenza divina, inaccessibile a ogni umano concetto (teologia negativa). Ciò non significa per Dionigi cadere nell’agnosticismo, bensì riconoscere che ogni discorso su Dio, che deve sempre fondarsi sulla rivelazione biblica, è inadeguato di fronte alla realtà stessa . Queste opere, singolari e uniche nel loro genere, costruiscono, secondo il giudizio autorevole di Etienne Gilson, «una delle fonti più importanti del pensiero medievale» . Dante pone Dionigi, come abbiamo detto, nel cielo del sole, nella prima corona dei dodici spiriti sapienti (Par. X, 115-117):
Appresso vedi il lume di quel cero
che giù, in carne, più a dentro vide
l’angelica natura e ‘l ministero.
Qui Dionigi è presentato come colui che durante la sua vita terrena (in carne) ebbe più di ogni altro la rivelazione della natura e della funzione degli angeli, tutti ordinati gerarchicamente. In effetti, nel canto XXVIII Dante scorge una luce intensissima: Dio, circondato da nove cori angelici, corrispondenti ai nove cieli, a cui essi comunicano la loro virtù (Par. XXVIII, 46-78). L'ordinamento degli angeli in nove gerarchie e i rispettivi nomi sono esposti da Beatrice proprio secondo la dottrina di Dionigi, che è espressamente nominato (vv. 127-132) :
Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dionisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’io.
Questi ordini formano come una catena, in modo che ciascun coro è attratto verso Dio, e attrae a sé gli ordini sottostanti .
A parte queste menzioni esplicite, vi è molto del pensiero dionisiano, nella sua ricezione medievale, che si riflette nell'universo dantesco. Ricordiamo che san Tommaso d'Aquino aveva scritto un commento al De divinis nominibus. Come nota Étienne Gilson,
il trattato Dei nomi divini doveva agire sulla speculazione teologica e filosofica, proprio perché si pone su di un piano intermedio tra l'affermazione impulsiva del semplice fedele e il silenzio trascendente del mistico. Dio vi si presenta dapprima come Bene, perché lo si accosta attraverso le sue creature, ed è a titolo di Bene supremo che egli le crea. Il Dio di Dionigi assomiglia allora all'idea del Bene descritta da Platone nella sua Repubblica: come il sole sensibile, senza ragionamento e senza volontà, per il solo fatto della sua esistenza, penetra con la sua luce tutte le cose, così il Bene, di cui il sole sensibile non è che una pallida immagine, si diffonde in nature, in energie attive, in esseri intellegibili ed intelligenti, che a lui debbono il loro essere e quel che sono, e la cui naturale instabilità trova in lui il suo punto fisso. Sviluppandosi per gradi, questa illuminazione divina genererà naturalmente una gerarchia, il che significa contemporaneamente due cose unite e distinte: in primo luogo uno stato, nel senso che ogni essere è definito per quello che è e per il posto che occupa in questa gerarchia; poi una funzione, nel senso che ogni membro della gerarchia universale riceve l'influenza dall'alto per trasmetterla, a sua volta, al di sotto di sé. La luce divina e l'essere che essa costituisce si trasmettono attraverso una cascata di luce i cui gradi sono descritti nei trattati: Della gerarchia celeste e Della gerarchia ecclesiastica .
Nel pensiero di Dionigi, la creazione, anche nelle sue componenti più materiali, riflette dunque qualcosa delle proprietà divine, ragion per cui Dio può essere nominato non solo come Bene, Luce, Bellezza, Vita, Amore, ma anche come Fuoco, Acqua, Roccia, Leone, e così via . Tuttavia, ognuno di questi appellativi, anche quelli più spirituali, applicato a Dio deve passare attraverso la negazione, perché l'essenza di Dio è al di là di ogni concetto, anche di quello di essere. L'essenza divina in se stessa è inconcepibile e indicibile. Questo apofatismo estremo non pare che sia stato seguito dagli autori medievali, certamente non da Dante, anche se egli spesso sottolinea l’indicibilità dell'esperienza del divino .
Dionigi insiste in particolare sull’attributo di Amore. Come scrive sempre il Gilson,
questo termine designa precisamente per lui il movimento di carità col quale Dio riconduce a sé tutti gli esseri in cui si rivela la sua bontà. Considerata sotto questo aspetto, l'illuminazione universale appare molto meno simile ad una cascata di luce che si disperderebbe sempre di più, che simile ad un'immensa circolazione d'amore che si disperde dapprima in una molteplicità di esseri, soltanto per radunarli poi e ricondurli all'unità della loro origine. L'amore è quindi la forza attiva che in qualche modo trae fuori da loro stessi gli esseri venuti da Dio, per assicurare il loro ritorno a Dio. [...] In un universo che non è che la manifestazione di Dio, tutto ciò che esiste è buono; il male dunque è, per sé, non essere; l'apparenza di realtà che esso rappresenta è dovuta solo a ciò che esso offre come un’apparenza di bene. D'altronde è per questo che il male ci inganna, perché è senza sostanza e realtà. Dio quindi non lo causa, ma lo tollera perché egli regge natura e libertà senza violentarle. In uno scritto perduto, Il giusto giudizio di Dio, Dionigi aveva dimostrato che un Dio perfettamente buono può giustamente punire i colpevoli poiché essi lo sono per spontanea volontà .
Questa sintesi del pensiero dionisiano potrebbe essere anche una sintesi del pensiero dantesco, tanto i due mondi sono simili. Basti pensare alle parole che il Poeta pone sulla porta dell'inferno:
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina Potestate,
la somma Sapienza e ‘l primo Amore
(Inf. III, 4-6)
Anche «la città dolente» e la «perduta gente», dunque, testimoniano a loro modo la giustizia, la sapienza e l’amore di Dio.
Questa prospettiva ci porta immediatamente a un altro grande Padre della Chiesa, il maggiore dell'Occidente, cioè Agostino di Ippona (354-430). I commentatori hanno osservato che, stranamente, Dante non dà un rilievo particolare a questa figura, che pure ha impregnato di sé tutta la teologia e la cultura medievale:
Nella Commedia manca un episodio agostiniano: taluno ha attribuito la cosa al platonismo del Santo, in contrasto con l’aristotelismo di Dante, e alla diversa concezione politica e storica su Roma e l’Impero .
Tuttavia Agostino è nominato all’interno della Candida Rosa: di fronte al seggio della Beata Vergine Maria, nella parte opposta della rosa, è il seggio di S. Giovanni il Battista e sotto di lui siedono, nell'ordine, S. Francesco, S. Benedetto e S. Agostino (Par. XXXII, 35) , Già sono stati studiati i passi della Commedia che hanno un preciso riscontro nelle opere agostiniane, segno che Dante le conosceva bene:
La concezione della città di Satana (Inf., III, 1) e della città di Dio (Par., XXX, 130) è agostiniana, come il simbolismo riguardante Lia e Rachele (messo in luce dal Pascoli) che si trova nel Contra Faustum (XXII, 52-53), come l'argomento “per assurdo” sul grande miracolo che avremmo avuto se il mondo si fosse convertito senza miracoli, che è nel De civitate Dei (XXII, 5) , come le tre forme di visione del Paradiso: corporale, spirituale o immaginaria, e intellettuale, che è nel Genesi ad Litteram (XII) e nel De civ. Dei (X, 9), come infine (sempre nel De civ. Dei XXII) la glorificazione e la natura del corpo risorto .
A parte questi precisi riscontri , si può parlare di un “agostinismo” di Dante, nel senso che
alcune concezioni filosofiche agostiniane hanno avuto un'influenza decisiva sul pensiero di Dante ed in generale l’influsso esercitato sul divino poeta da Agostino fu maggiore di quanto comunemente si crede .
Uno dei concetti fondamentali dell'universo dantesco è quello di «ordine»: le creature sono varie e diverse, ma tra loro esiste un ordine, perché tutte rispecchiano a modo loro il Primo Principio:
[...] Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante
(Par. I, 103-105)
Ne l’ordine ch'io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovon a diversi porti
per lo gran mar de l ‘essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti
(Par. I, 109-114)
Commenta Erich Auerbach:
La Civitas Dei in Paradiso è la terra della giustizia; in essa le anime stanno in giusto ordine, in comune agire, godendo ciascuna del suo posto e partecipi di un vero bene, la cui provvista è inesauribile, anzi il cui godimento aumenta quante più anime redente vi partecipano. Nel vario modo di apparire dei beati nelle sfere dei pianeti la diversità delle disposizioni e delle attività si sviluppa come un ordine naturale che fa dell'uomo un cittadino; e così egli può, secondo le sue capacità, divenire un membro della comunità umana, il cui fine è l'attuazione dell'ordine divino in terra .
Questo non è solo un ordine fisico, ma è anche morale, ed è qui che entra in gioco la libertà umana, con le sue scelte spesso contrarie alla propria natura, il che costituisce propriamente il dramma dell'uomo:
Vero è che, come forma non s ‘accorda
molte fiate all’intenzion dell ‘arte,
perch’a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte,
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l ‘impeto primo
s’atterra, torto da falso piacere
(Par. I, 127-135)
Se la grazia di Dio è infinita, anche la sua giustizia è infinita, ragion per cui il male e l'ingiustizia non possono rimanere impuniti, così che anche gli abitanti della città infernale, come abbiamo visto sopra, sia pure per libera scelta del male, rientrano nell'ordine della giustizia divina .
Ora su questo tema dell'ordine universale, cosmico e morale, Dante ha trovato certamente una fonte in Agostino, che ha scritto un De ordine e un De musica, dove vi sono interessanti riflessioni filosofico-teologiche su quel tema. Anzitutto Agostino parla dell'ordine cosmico:
E quali sono le realtà superiori, se non quelle nelle quali permane la somma, indiscussa, immobile, eterna uguaglianza (aequalitas)? Là non esiste il tempo, perché non si dà alcun mutamento. Di là i tempi sono costruiti, ordinati e misurati a imitazione dell'eternità, mentre il corso del cielo ritorna all’identico e riporta all’identico i corpi celesti e obbedisce alle leggi dell'uguaglianza, dell'unità e dell'ordine, grazie ai giorni, ai mesi, agli anni, ai lustri e agli altri movimenti orbitali delle stelle. Così le cose terrene, sottomesse a quelle celesti, uniscono in una successione armoniosa le orbite dei propri tempi al poema, se posso dirlo, dell'universo .
A questo “poema dell'universo” non sfugge neppure la sfera morale:
Così Dio ha ordinato il cattivo uomo peccatore, non in modo cattivo. E diventato cattivo per sua volontà, perdendo tutto quello che possedeva finché obbediva ai comandamenti di Dio, ed è stato ordinato a parte, in modo che chi non ha voluto seguire la legge, dalla legge sia condotto. Tutto ciò che è compiuto secondo la legge, è anche secondo giustizia; e tutto ciò che è secondo giustizia non è fatto con cattiveria, perché anche nelle nostre opere malvagie le opere di Dio sono buone .
Il libero arbitrio può dunque inclinare l’anima o verso Dio, per il quale è fatta, o verso le creature, a lei inferiori. Ora, scrive Agostino, «l’amore per la bellezza inferiore macchia l’anima», e in questo modo
l’anima ha perso il proprio ordine. Non è tuttavia uscita dall'ordine delle cose, perché dove è, è in modo tale che l'essere e il modo di essere sono ordinatissimi. Una cosa infatti è possedere l'ordine, un’altra essere posseduti dall'ordine. Possiede l'ordine quando ama con tutta se stessa ciò che è sopra di lei, cioè Dio e ama come se stessa le anime sue compagne. Con questa forza dell'amore fa ordine tra le cose inferiori e non ne viene contaminata. Ciò che invece la contamina non è cattivo, perché anche il corpo è creatura di Dio ed è ornato di una sua bellezza, se pur infima .
Il disordine dunque non sta nelle cose, che sono buone in sé, ma nel cattivo uso che ne facciamo. Così, prosegue Agostino,
dall'amore per il prossimo nell’integrità con cui ci è comandato, s'innalza per noi una scala sicura per unirci a Dio e non essere solo posseduti dal suo ordinamento ma possedere, sicuro e stabile, anche il nostro ordine .
Quando l’anima lo possiede, allora esercita la virtù della giustizia:
Il suo stesso ordinamento per cui non serve nessuno se non il solo Dio, non desidera essere uguagliata ad alcuno se non agli spiriti più puri, non dominare nessuno se non la natura bestiale e corporea [...] chi non capirebbe che questa è la giustizia .
L’ordine è dato dal numerus, che è la misurabilità e dunque l’intelligibilità di tutte le cose: non solo i numeri matematici, ma anche le parole e i corpi hanno il loro numerus. E da dove deriva questa intelligibilità se non dal Dio sommamente buono e sommamente giusto e sommamente uno? Ora tale ordinamento si distribuisce attraverso «i numeri razionali e intellettuali delle anime beate e sante» che
trasmettono, senza riceverla da una natura intermedia, fino ai limiti della terra e degli inferi, la stessa legge di Dio, senza la quale non cade una foglia da un albero e per la quale i nostri capelli sono numerati .
Un altro concetto che accomuna Dante e Agostino, oltre quello di «ordine», è il concetto di «pace». Nella Monarchia I, 4 Dante indica la «pace universale» come «la più desiderabile di tutte le cose che sono ordinate alla nostra beatitudine». E commenta questo suo convincimento a partire dalla Scrittura:
Proprio per questo la voce dall'alto annunziò ai pastori non ricchezze, non piaceri, non onori, non lunga vita, salute, forza o bellezza, ma pace; ché la celeste milizia cantò: Gloria a Dio nei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà (Lc 2, 13-14). Sempre per questo “Pace a voi” era il saluto del Salvatore agli uomini (cfr. Lc 24, 36; Gv 20, 21-26); ché a chi recava la suprema salvezza conveniva di esprimere il più alto saluto; e quest’uso piacque poi di mantenere ai suoi discepoli e a Paolo nel loro modo di salutare, com'è facile accertarsi a chi lo desideri.
Nel Convivio, dopo aver disposto le sette arti liberali in relazione ai sette pianeti, Dante fa corrispondere la fisica e la metafisica alla sfera stellata, la filosofia morale alla nona sfera e la teologia o scienza divina al cielo immobile o empireo:
Lo cielo empireo per la sua pace simiglia la divina scienza, che piena è di tutta pace; la quale non soffrea lite alcuna d’oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio. E di questa pace dice esso a li suoi discepoli: La pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi (Gv 14, 27) [...]. Questa scienza è perfetta [...] perché perfettamente ne fa il vero vedere nel quale si cheta l’anima nostra .
Non si può non vedere in queste ultime parole una reminiscenza del noto detto agostiniano posto all’inizio delle Confessioni: Fecisti nos ad te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te.
Come ha notato Italo Borzi,
il viaggio di Dante è anche un cammino verso la pace; aveva detto Agostino rivolto a Dio: “...inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te”. Nella beatitudine s’acquieta finalmente l’anima umana tormentata da contrasti e da desideri inappagati. La visione beatifica, fine supremo cui tende la creatura umana, è anzitutto cessazione di tutti i desideri, causa perenne di insoddisfazione e di infelicità. La pace, che è appagamento in Dio, è nell’adesione alla volontà dell'amato; dice Piccarda: E ‘n la sua volontade è nostra pace (Par., III, 85); il Trisavolo Cacciaguida, evocato il ricordo della vita terrena e del “mondo fallace”, conclude quasi in un sospiro: E venni dal martiro a questa pace (Par., XV, 148). Quella del Paradiso è una ...vita integra d'amore e di pace, è una sicura ricchezza senza il tormento dei desideri sanza brama (Par., XXVII, 7-9). Nell’Empireo il poeta ribadisce il concetto che soltanto nella visione di Dio l'uomo può trovare la pace: Lume è là su che visibile face / lo creatore a quella creatura / che solo in lui vedere ha la sua pace (Par., XXX, 100-102). Anche nelle precedenti cantiche la parola pace equivale a beatitudine. Essa risuona nella commossa volontà di preghiera di Francesca: Se fosse amico ‘l re dell’‘universo / noi pregheremmo lui de la tua pace... (Inf., V, 91-92). Nel parallelo canto V del Purgatorio il poeta alle anime dei negligenti morti di morte violenta parla esplicitamente del suo cammino verso la pace: ...per quella pace / che dietro i piedi di siffatta guida / di mondo in mondo cercar mi si face (vv. 58- 63) .
Se ora passiamo ai testi di Agostino, sembra che non ci sia soluzione di continuità. Scrive infatti l’Ipponate nel De civitate Dei: «Possiamo quindi affermare della pace — così come l'abbiamo detto della vita eterna — ch’essa è per noi il fine supremo d'ogni nostro bene», il fine supremo della città di Dio, «nel quale essa troverà il sommo bene, è la pace nella vita eterna, o la vita eterna nella pace» . Questa pace è un sabato eterno o, meglio
un ottavo giorno eterno, perché la domenica, consacrata alla risurrezione di Cristo, prefigura il riposo eterno dello spirito e del corpo. Là riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che sarà alla fine senza fine. E quale è infatti il nostro fine se non quello di pervenire al regno che non ha fine? .
Nel canto XXII del Paradiso, Dante si incontra con san Benedetto (Norcia 480 — Cassino 543), il padre del monachesimo occidentale (vv. 28-99). L'ampio spazio dedicato a questa figura è indice della stima che l’Alighieri aveva per l'ordine benedettino, nonostante la decadenza dei monasteri, denunciata per bocca dello stesso fondatore (vv. 73-87). Benedetto, il cui volto Dante non può vedere per la troppa luce, racconta al pellegrino la fondazione di Cassino, luogo prima dedicato al culto idolatrico, ma poi purificato dal nome di Cristo,
lo nome di colui che ‘n terra addusse
la verità che tanto ci soblima
(Par. XXI, 41-42)
Il Santo poi sottolinea l'espansione delle sue fondazioni, tra cui quelle dovute a s. Romualdo (+ 1027), fondatore dei benedettini camaldolesi. Purtroppo, osserva Benedetto, il fervore originario è andato scemando, e quasi più nessuno sale quella scala dell’umiltà, che egli ha esposto nel cap. VII della Regola, richiamandosi a quella scala che toccava il cielo, vista dal patriarca Giacobbe (vv. 70-72):
Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte (vv. 73-75).
In questo contesto, Dante nomina anche Macario, uno dei padri del monachesimo egiziano . S. Antonio abate (+ 356), la cui vita fu descritta da Atanasio d'Alessandria (+ 373) e fu molto conosciuta anche in Occidente, è nominato incidentalmente in Par. XXIX, 124-126,
non per esaltarne le virtù, ma solo per flagellare predicatori e religiosi del suo tempo che abusano delle stolta credulità popolare (il porco [di] sant'Antonio) per vana ambizione o per vili guadagni .
Il debito di Dante verso i Padri della Chiesa può essere considerato anche da un punto di vista più generale, seguendo quella che Erich Auerbach chiama l’«interpretazione figurale» . Essa nasce dal rapporto di continuità e superamento tra i due Testamenti, dove l'Antico prefigura il Nuovo, il Nuovo rappresenta il compimento. L'Antico e il Nuovo Testamento non sono solo due serie di testi, ma anche e soprattutto due fasi della storia di salvezza. Questa interpretazione conferisce alla storia uno spessore che era sconosciuto al mondo classico. Già Henri de Lubac aveva scritto nel 1938 alcune pagine molto interessanti in proposito:
Dio agisce nella storia, si rivela nella storia. Più ancora, Dio si inserisce nella storia, conferendole così una “consacrazione religiosa” che obbliga a prenderla sul serio. Le realtà storiche hanno dunque una profondità, vanno comprese spiritualmente .
Questo “spiritualmente” non significa fuori della storia, ma inglobante la storia, anche se la trascende:
La Bibbia, che contiene la rivelazione della salvezza, contiene dunque, a suo modo, la storia del mondo [...]. Così la leggevano i Padri della Chiesa. Da Ireneo ad Agostino, passando per Clemente Alessandrino ed Eusebio, essi ne ricavavano un Discorso sulla storia universale [...]. Questo principio dirige tutta la loro esegesi. Esso pone un abisso tra il loro metodo di interpretazione e quello dei filosofi allegorizzanti di cui hanno potuto conoscere le opere, oppure il metodo di Filone. Due fatti sono costanti nell’allegorismo dei filosofi [...]. Da una parte essi rigettano nel “mito” ciò che si presentava come un racconto [...]. D'altra parte, se essi vanificano così tutto ciò che offriva almeno l'apparenza di storia, non è a vantaggio di una storia più profonda [...] ma di una idea: di scienza, o di morale, o di metafisica .
La prospettiva dei Padri invece è del tutto diversa, anche se si possono trovare nei loro commenti biblici analogie con i metodi ermeneutici degli antichi (allegoria). Nonostante le differenze che ci sono tra le varie scuole esegetiche, e in particolare tra la scuola alessandrina e quella antiochena,
tutti vogliono comprendere lo spirito della storia, senza scalzare la realtà storica [...]. Il senso spirituale dunque è diffuso dovunque, non solo né soprattutto in un libro, ma anzitutto ed essenzialmente nella realtà stessa: In ipso facto, non solum in dicto, mysterium requirere debemus (Agostino, In ps. 68) [...]. E quando, persuasi che tutto era pieno di profondità misteriose, questi Padri si chinavano sulle pagine ispirate dove essi seguivano nelle sue fasi successive l'Alleanza di Dio con gli uomini, essi non avevano tanto l'impressione di commentare un testo o di decifrare degli enigmi verbali, quanto quella di interpretare la storia .
Certo, il Mistero ormai presente in questa storia deve ancora compiersi nel suo atto finale, ragion per cui sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono entrambi profetici, ma in modo diverso: se l'Antico è umbra del Nuovo, il Nuovo è figura rispetto alla veritas finale, ma già la contiene. Come dice l’autore della Lettera agli Ebrei, la legge era l'ombra dei beni futuri (Eb. x, 1). Scrive de Lubac:
Ci si rende conto dell’arditezza di una tale espressione? Si vede lo sconvolgimento che essa supponeva nelle idee ricevute dall’esemplarismo antico e dal modo naturale di pensare? Ecco dunque che il corpo è futuro rispetto alla sua ombra e l'esemplare rispetto al suo “tipo”! .
Non so se l’Auerbach abbia conosciuto queste pagine di de Lubac, ma certamente la sua analisi del concetto di figura presso i Padri porta a risultati sorprendentemente simili. I Padri, osserva l’Auerbach, riprendono le indicazioni date da Paolo nel modo di intendere l’Antico Testamento: ciò che esso perdeva come legge e particolarità di un popolo, lo «guadagnava in una nuova attualità drammatico-concreta» . La Chiesa antica, benché divenuta ben presto solo etnico-cristiana, non abbandonò l'Antico Testamento, anzi vi si attaccò ancora di più dietro l'opposizione degli avversari gnostici
che volevano mettere del tutto da parte l'Antico Testamento o darne soltanto un'interpretazione astrattamente allegorica, in un modo che avrebbe privato il cristianesimo del contesto della storia universale provvidenziale e quindi anche, in parte, della sua grande e generale forza di convinzione. In questa lotta contro quanti spregiavano o svuotavano l'Antico Testamento il metodo della profezia reale [cioè l’interpretazione figurale] si dimostrò nuovamente efficace e si affermò proprio nel senso della promessa cristiana .
Ma che cos'è propriamente, secondo l’Auerbach, questa «interpretazione figurale»? E quella che
stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti e figure reali [...]; la promessa e l'adempimento sono fatti reali e storici che in parte sono accaduti nell’incarnazione del Verbo, in parte accadranno al suo ritorno. È vero che nelle concezioni dell'adempimento finale intervengono anche elementi puramente spirituali, perché “il mio regno non è di questo mondo”; ma sarà pur sempre un regno reale, non una costruzione astratta e sovrasensibile; questo mondo perirà soltanto come “figura”, non perirà la sua “natura”, e la carne risorgerà. L'interpretazione figurale dunque [...] è nettamente distinta dalla maggior parte delle altre forme allegoriche a noi note in virtù della pari storicità della cosa significante e di quella significata .
Tuttavia entrambi, significante e significato, «rimandano a un futuro che è ancora da venire e che sarà il processo vero e proprio, l'accadimento pieno e reale e definitivo» .
Tutto questo, qualcuno dirà, che cosa ha a che fare con Dante? Tutti gli autori medievali, sulla scia soprattutto di Origene e di Agostino, sapevano che la Bibbia poteva essere letta secondo quattro sensi: letterale, allegorico, morale e anagogico, secondo il celebre distico di Nicola di Lira:
Littera gesta docet, quid credas allegoria,
moralis quid agas, quo tendas anagogia .
La cosa singolare è che Dante applica questa lettura polisemica, propria ed esclusiva della Sacra Scrittura, anche al suo poema, secondo quanto si legge nell’Epistola XIII a Cangrande della Scala :
[7]. Per chiarire quanto stiamo per dire, occorre sapere che non è uno solo il senso di quest'opera: anzi, essa può essere definita polisensa, ossia dotata di più significati. Infatti, il primo significato è quello ricavato da una lettura alla lettera; un altro è prodotto da una lettura che va al significato profondo. Il primo si definisce significato letterale, il secondo, di tipo allegorico, morale oppure anagogico. E tale modo di procedere, perché risulti più chiaro, può essere analizzato da questi versi: “Durante l’esodo di Israele dall'Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio”. Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell'anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell'anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benché questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici, perché sono traslati dal senso letterale o narrativo. Infatti allegoria viene ricavata dal greco alleon che, in latino, si pronuncia alienum, vale a dire diverso .
L’Auerbach a scanso di equivoci preferisce chiamare “figurale” e non “allegorico” questo procedimento interpretativo, dato che l'interpretazione figurale
costituisce la base generale dell’interpretazione medievale della storia [...]. Tutto l’analogismo che penetra in ogni campo dell'attività spirituale del medioevo è strettissimamente collegato con la struttura figurale .
E questo vale anche per la Commedia di Dante. Anche se al suo interno non mancano allegorie di tipo classico, tuttavia «le forme figurali sono decisamente prevalenti e decisive per tutta la struttura del poema» . Il che equivale a dire che una interpretazione puramente allegorica della Commedia sarebbe fuorviante. L'’Auerbach intende dimostrarlo con tre esempi: quello di Catone Uticense, Virgilio e Beatrice. Queste tre figure, se vengono prese puramente in senso allegorico o simbolico, mettendo da parte la loro consistenza storica, perdono tutta la loro efficacia.
Così nella Commedia Virgilio è bensì il Virgilio storico, ma d'altra parte non lo è più, perché quello storico è soltanto “figura” della verità adempiuta che il poema rivela, e questo adempimento è qualche cosa di più, è più reale, più significativo della “figura”. All’opposto che nei poeti moderni, in Dante il personaggio è tanto più reale quanto più è integralmente interpretato, quanto più esattamente è inserito nel piano della salvezza eterna. E all'opposto che negli antichi poeti dell’oltretomba, i quali mostravano come reale la vita terrena e come umbratile quella sotterranea, in lui l’oltretomba è la vera realtà, il mondo terreno è soltanto “umbra futurorum”, tenendo conto però che l’’umbra” è la prefigurazione della realtà ultraterrena e deve ritrovarsi completamente in essa .
Dunque la sintesi patristica tra figura e realtà, meditata nel rapporto tra i due Testamenti, centrata sull’Incarnazione del Verbo, e prolungata nei sacramenti della Chiesa, non conosce ancora in Dante quella dissociazione tra storia e spirito che diventerà tipica del mondo moderno, che si dividerà tra storicismo e spiritualismo.
Per Dante il senso letterale o la realtà storica di un personaggio non contraddice il suo significato più profondo, ma ne è la figura; la realtà storica non è abolita dal significato più profondo, ma ne è confermata e adempiuta .
Questa interpretazione permette di tenere in un insieme coerente sia il Dante dell'Inferno, così drammaticamente umano, sia il Dante del Paradiso, così penetrato dal divino. Certo, anche al tempo di Dante non mancavano le tendenze meramente spiritualistiche e neoplatoniche, ma Dante è decisamente alieno da esse. Secondo l'interpretazione figurale della realtà, «la vita terrena è assolutamente reale, della realtà di ogni carne in cui è penetrato il Logos, ma con tutta la sua realtà è soltanto “umbra” e “figura” di ciò che è autentico, futuro e definitivo» . Sotto questo aspetto Dante può essere considerato come l’ultimo grande rappresentante del pensiero patristico.