Dati bibliografici
Autore: Giovanni Fallani
Tratto da: Poesia e teologia nella "Divina Commedia". I. L'"Inferno"
Editore: Marzorati, Milano
Anno: 1959
Pagine: 23-37
Una certa ripulsione dei moderni verso l’allegoria non giustifica la trascuratezza di alcuni studiosi della Commedia, che la considerano senz'altro inutile alla conoscenza dell’opera poetica ed anche ingombrante e dannosa nello svolgimento del poema. Se il rapporto tra l’allegoria e la realtà fosse quello proposto da Croce, e cioè «l’acqua con l’olio, che non si mescola», e il velame fosse un espediente per «fare a nascondino», la composizione dantesca sarebbe, per tale gratuita affermazione, la paurosa immagine di un mondo inalberato nel vuoto e faticosamente affastellato di simboli e di soprasensi.
Nessuna forma d’arte che si risolva in un atteggiamento caratteristico del pensiero e che ha bisogno, per la sua evidenza di espressione, di individualizzarsi in un certo modo, può essere rifiutata, in anticipo e con argomenti di natura estrinseca alla stessa arte, finché non ci si è addentrati nel linguaggio dell’autore, vivendo dei suoi sentimenti, per vedere sino a che punto la forma adottata — dall'elemento musicale della terzina alla configurazione dei personaggi e delle idee — viva di una sua vita coerente con il mondo concreto dell’esperienza e delle immagini .
«Ridotta alla sua spontanea e naturale origine» scrive Bruno Nardi, «l’allegoria consiste, al pari della metafora, nell’espressione di un concetto che è nella mente per mezzo di una immagine sensibile, per un certo rapporto di somiglianza che c'è parso potersi stabilire fra quest'immagine e quel concetto. Quel che poi induce a servirsi di questo mezzo espressivo non è tanto la mancanza di vocaboli adatti, quanto piuttosto la necessità di far comprendere ad altri un concetto nuovo per via di paragone con una cosa comunemente nota. Da un paragone accorciato nascono appunto la metafora e il prolungamento di essa che si dice allegoria, sì nelle favole che nelle parabole» .
Perciò l’allegoria che impernia ma non esaurisce l’azione del poema, lungi dal confondersi con una soprapposizione, va considerata come l’espressione del vero: «verità ascosa sotto bella menzogna» la definì Dante.
La forza intuitiva del poeta s’irrobustiva in questa legittima dichiarazione del disegno dell’opera per mezzo di un naturale procedimento lirico, che ammetteva una lettura del testo ampia e polivalente negli intendimenti. La sua creazione venne su non per una consultazione dei generi letterari, in quanto tra le categorie eterne della poesia c’era, a cominciare dalla Bibbia, nell'Antico e nel Nuovo Testamento, una possibilità d’intesa e di umano contatto, singolarmente fantastico e universale, fissato in paragoni e parabole.
L'esegesi biblica trecentesca s'incamminò, tuttavia, per strade ripide e strette, quando, per un fondato amore alla parola ispirata, tentò di ricavarne tutti i significati possibili, tutte le illazioni logiche e sentimentali, sino ai noti sensi accomodatizi, spiritualmente vantaggiosi, ma attaccati, con arbitrarietà confessata, a quei passi della Bibbia che erano di uso corrente nella liturgia e nella meditazione ascetica. Ciò non toglie che dalle delucidazioni avanzate siano venute fuori confutazioni e argomenti perentori in materia di vita pratica, ed insieme le esasperazioni paradossali e polemiche.
Ma la ricchezza poetica dell’allegoria, che ha dato nelle arti i tipici racconti del Trecento pittorico, è altra cosa dalle sue fasi decadenti. Nulla infatti di più fantastico che aggirarsi con Dante, stando al significato della sua emozione, nella esemplificazione delle intenzioni didascaliche, le quali provengono da uno stato d’animo commosso: c'è una disciplina e un ordine, anche nei canti soggetti a varie componenti, che elevano lo schema e le relazioni verso l’unità della visione.
Nell’allegoria si parla per immagini, ciò che si adombra nell’oggetto o nella scena simbolica diventa immediatamente capace d’indicazioni nuove e universali: si tratta di una stessa via con due tracciati a quote diverse, una pratica ed una fantastica, ma il sogno del poeta che le ha disegnate le tiene gelosamente unite. La finzione, 0 cosa immaginata, ha la sua attrazione seducentissima, e rappresenta un bisogno psicologico d’ideare un universo infinito, un mondo umano disciplinato e raccolto negli affetti essenziali, una vita libera dalle sconfitte apparenti, e riportata, con paragoni intelligibili, alla finalità spirituale. Il Buono e il cattivo Governo, dipinto in Siena nel Palazzo Pubblico nella Sala dei Nove dal Lorenzetti, è un esempio del come l'apparato dottrinale e allegorico anima la facoltà poetica di un autore medievale, che risolve praticamente, nella cerchia dei ricordi, tra la campagna e la città, le disarmonie e le gioie della vita: l’idea della pace, divenuta forma realistica di una donna, s’identifica con il mondo delle umane creature, e le personifica nell’aspirazione di tutte verso il conseguimento del bene.
Certamente i bestiari, i lapidari, gli erbari, considerati in relazione alla morale, formarono il vocabolario corrente di una lunga epoca, la quale meditò sugli esempi e le cose del mondo per ricavare il senso della parola ivi impressa e sigillata da Dio.
Presso i greci, specialmente nel periodo ellenistico, e presso i latini l’allegoria entrò nel linguaggio maturo degli autori, che se ne servirono per accrescere, in obbedienza alla ragione, l'ampiezza del dramma da loro proposto. Il caso classico della Bibbia nel Cantico dei Cantici insegnò all’età cristiana, in concordanza con le similitudini e i personaggi delle parabole, come può l’allegoria riuscir libera e sana, anche per i cultori dell'estetica e delle teorie sull’arte: nel panorama degli scritti più vicini alla perfezione s’iscrivono figure umane e sentimenti, in cui le idee e i concetti sono immessi non per una convivenza abusiva ma, come si suol dire, in simbiosi, essendo nati nello stesso tempo nella coscienza e col mezzo espressivo dell’autore.
La Psychomachia di Aurelio Prudenzio Clemente, il De Consolatione philosophiae di Severino Boezio, il Roman de la Rose, il Tesoretto di Brunetto Latini, l’Intelligenza attribuita a Dino Compagni, i Documenti d’amore di Francesco da Barberino avvolgono nel velame il vero dei problemi, sì da ottenere insieme il racconto e la pronta riflessione su di esso, il senso storico e la finzione allegorica. In questo sforzo di rendere concretamente l’astratto si ebbe, nei casi più singolari, come nella Commedia, una partecipazione attiva dell’arte a tutti gl’impegni della vita. Ben inteso che non fu la formula, e cioè l’allegoria, a risolvere l’opera poetica, ma questa si trovò a definire il valore dell’espressione, come sempre avviene, quando s'incontra con la fantasia e la creazione dell’autentico artista.
La selva oscura, le tre fiere, il colle luminoso, Virgilio, il Veltro sono all’inizio della Divina Commedia il programma dei lavori, il fondamento della nuova cattedrale. I commentatori antichi e i moderni, qualunque spiegazione abbiano inteso proporre, hanno concordamente cercato l'equivalenza dei simboli intellettualistici, adoperati per indicare un concetto unico: la storia dell’uomo Dante e del suo umano smarrimento. Chi vuol sfuggire all’analisi della «follia» del poeta, portandosi subito all’interpretazione dell’allegoria, dimentica, ci sembra, che il tema dell’opera è Dante, la sua esperienza biografica, la sua coscienza di cristiano e di artista. Il dramma dell’anima si acuisce nel sonno intellettuale, che presenta una visione scolorita e falsa del mondo, così da rendere praticamente impossibile spiegare l'istante del peccato. L'errore di cui il Poeta si accusa, con amara insistenza, colpisce il suo orgoglio e nel momento in cui scrive questo si aderge, in tutta la gravità della cosa in sé e delle conseguenze, avanti alla memoria, che ne rammenta l’accentuazione tragica sino a sospingerlo, come pensò non arbitrariamente il P. Pietrobono, al suicidio. Per il poeta la felicità aveva un aspetto fenomenico ed uno reale: il primo era nel cuore e nell’apparenza di ogni vita mondana, l’altro era una conquista dell’intelletto, una conquista connaturata all’uomo, che poteva esser raggiunta, senza l’aiuto di altre forze al di fuori di quelle di cui la medesima natura umana dispone in questo mondo, come se dall’unità degli intenti la creatura potesse isolare un termine e farne un assoluto, ignorando la visione beatifica di Dio, essenziale alla felicità intera, quella soprannaturale.
L'ascesa verso il dilettoso monte gli apparve un passo privo di pericoli, che poteva essere tentato, confidando nel potere della ragione. Sopraggiunse invece la morte. Spiritualmente parlando la vicenda interiore del poeta è alla radice di una conversio e segna, in maniera somigliante a quanto accadde al re Ezechia, il principio di una missione, dovuta alla misericordia di Dio: la salvazione conferma non solo l’intervento divino nella storia individuale degli uomini, ma testimonia la volontà salvifica, non ostante il demerito e la colpa del peccatore. Raffigurati nella selva il peccato originale, quello personale del poeta e le miserie peccaminose dell’umanità, l’episodio dantesco riflette le vie di una concreta lettura della vita, partecipe dei modi intellettuali e del fermento generoso della nostra esistenza.
La visione dantesca, che si volge ai fatti reali, proviene da una esperienza di elementi controllabili; per virtù dell’immaginazione porta con sé il carattere allusivo a una storia più vasta, ma il linguaggio sfugge al calcolo di un sistema di figure letterarie; la parabola scenografica della selva e delle tre fiere diviene leggibile, per il richiamo a cose schiettamente vere: la storia dell'anima e lo stato di coscienza.
Il P. Busnelli nelle ricerche e studi intorno al prologo della Commedia pensò che l’Alighieri subisse l'influsso di una visione, narrata nella vita di S. Domenico, scritta da Teodorico di Appoldia verso il 1290, in cui il santo vede il Figlio di Dio adirato per il male, mentre vibra contro il mondo tre lance per colpire i superbi, gli avari, i lussuriosi, ma la Vergine intercede per i colpevoli, assicurando alla missione del rinnovamento la fedeltà di Domenico e di Francesco.
Altre reminiscenze furono intraviste nella visione di Daniele (quattro venti sconvolgono il mare: irrompono animali simili alla leonessa, all’orso, al pardo e un mostro con dieci corna, ma sono sconfitti dal Figliuolo dell'Uomo) interpretata da Riccardo di S. Vittore nel De eruditione hominis interioris ; altre ancora nella visione di Geremia (minacce del male sono il leone, il lupo, il pardo, usciti dalle selve) interpretata da Ugone da S. Caro . L'Amaducci interpretò come fonte della Commedia l'opuscolo XXXII di S. Pier Damiano: De Quadragesima et quadragenta duabus Hebracorum mansionibus, e il Bersani le opere di Ugo da San Vittore.
Estendendo alla letteratura d’oltre tomba i possibili ravvicinamenti alla Commedia, per analogia d’argomento, le cosidette fonti ci portano in più direzioni concettuali e nella ventura degli emblemi e delle meditazioni allegoriche, in mezzo alla Navigatio sancti Brendani del secolo XI, e ad opere del secolo successivo: il Purgatorio di S. Patrizio del cistercense Enrico di Saultrey, la Visto Tungdali, la Visio Alberici di Montecassino, sino alle fonti orientali e alla ipotesi iranica del Pirri, all’indiana iranica del De Gubernatis, all’islamica di Miguel Asin Palacio , al Libro della Scala ed altre fonti arabo-spagnole del Cerulli , sino all'importante ipotesi dell’Expositio in Apocalypsim , opera dell'abate Gioacchino, ove un religioso, rapito in ispirito, si trova in una selva impedito da linci, leoni, serpenti.
Queste somiglianze dimostrano che il tema in se stesso era promosso dalla cultura religiosa e dalle interpretazioni figurative, e che le compilazioni fantastiche sull’argomento avevano facile diffusione, secondo il gusto letterario in voga; la materia comune però non ci autorizza, che in misura limitata e con induzioni molto caute, ad avvertire qualche effettiva dipendenza, trasfigurata dall’invenzione.
Le tre fiere, immagini dei vizi, appaiono al poeta secondo un procedimento che denuncia la gravità del male e che si accresce d’intensità e di violenza. Nei chiosatori antichi la lonza è la lussuria, il leone la superbia, la lupa l’avarizia; in successive postille e studi, anche recenti, alcuni considerano più probabile l’interpretazione: incontinenza, violenza, cupidigia, oppure invidia, superbia, avarizia, riferendosi alle «tre faville ch’hanno i cuori accesi» . Una identificazione diversa (la malizia è la lonza o la lupa; la matta bestialità è il leone; l’incontinenza è la lonza o la lupa) viene sostenuta da coloro che vogliono porre la dipendenza e l’accordo tra le tre fiere e le «tre disposizion che ’l ciel non vuole» «tres species fugiendorum»: i tre abiti peccaminosi dichiarati da Aristotele nel VII libro dell’Etica nicomachea.
Nell’interpretazione più antica trovano efficace riscontro, come fonte scritturale, l’Epistola di S. Giovanni, (II, 16): «omne quod est in mundo aut est concupiscentia carnis, aut est concupiscentia oculorum, aut superbia vitae» , e le tre tentazioni di Cristo nel deserto. La seduzione del male viene descritta nell’atteggiamento delle fiere: la lonza, dal pelo macchiato, è agile e veloce, il leone dalla testa alta, è rabbioso per fame, la lupa, dall’aspetto che incute paura, è piena di brame insaziate perché insaziabili. Il poeta riflette in sé, in questo combattimento tra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo, le fasi della lotta e dei sentimenti che lo travagliano: il piacere da principio, rivestito di colori e di seduzioni, non spaventa, bensì impedisce il cammino, finché la passione sormonta, lega la volontà e ritrascina l’uomo nella selva; la violenza stimola l’appetito irascibile, è famelica, suscitando altra violenza, e spande ovunque terrore; la frode, che sviluppa i suoi tentacoli dove l’uomo indifeso non suppone inganno, provoca, con la perdita della speranza, la disperazione di giungere alla cima del monte.
Forzata ci sembra la sentenza di un sovrasenso politico delle tre fiere, se si fa coincidere la lonza solo con Firenze, il leone solo con la Francia, Roma solo con la lupa , mentre ci par ovvio un concetto di relazione tra le fiere medesime e le tre donne benedette: la Vergine, S. Lucia, Beatrice, necessarie a chiarire il simbolo della liberazione e dell’azione della grazia.
È apparso sul colle misterioso il sole che «porta significazione» di Dio, com'è detto nel Cantico delle creature, e nel ricordo spirituale i cieli, narratori della gloria divina, appaiono nella «dolce stagione» di primavera, sotto il segno dell’Ariete, come al momento della creazione. Mentre Dante precipita nella valle, moralmente abbattuto, la sua coscienza si risveglia e la figura di Virgilio, ch’è il richiamo della ragione, gli è di fronte destando in lui la memoria dei valori più amati e necessari, in quel momento, per fuggire alle conseguenze della selva: i valori della poesia e i valori della sapienza.
Per la sua redenzione Dante intraprenderà un altro viaggio, e già il poeta mantovano ha assunto la missione di guida, con l’annuncio profetico del Veltro («di quell’umile Italia fia salute» ), che dovrà ricacciare nello Inferno la lupa, causa del disordine del mondo civile e religioso.
Al poeta latino che per ispirazione dall’alto profetò la «nova progenies», il ritorno della Vergine Astrea, del regno di Saturno e il nuovo grande ordine dei secoli, è affidato il messaggio della renovatio, auspicato da Dante e di cui questi vorrà essere il banditore, come gli antichi profeti. Il Veltro, più che un criptogramma, designante una persona precisa, raffigura la certezza di un intervento superiore, che ristabilirà l’ordine nella società umana: «alcun virtuoso che da cotal vizio (la lupa) rinnova la gente», un uomo che disponga gli uomini «totaliter ad virtutes», come scrissero Jacopo e Pietro di Dante.
Ed esaminando le attese del soccorso prospettate all’epoca del poeta, sia nella sfera politica che nella sfera religiosa: un papa riformatore o un imperatore, ma forse più il secondo che il primo, era alla base della liberazione spirituale.
La tensione dei rapporti individuali, veduti su grande scala, non come avvenimenti isolati, ma giudicati sul piano universale della storia dell’Impero e della Chiesa, dovevano ricevere dal Veltro una indicazione superiore; la famiglia umana avrebbe così formulato i criteri e i procedimenti di vita, attraverso l'esempio di libere funzioni, donando alle forze redentrici, imperniate su «sapienza, amore, e virtute», una riconquistata fiducia.
Poiché questa profezia del Veltro, diversamente dalle altre, come quella dell’esilio del poeta, è una profezia formulata ante evenzum, è facile supporre che l’Alighieri, certo della sua visione, sperò d’intravederne in uno dei protagonisti della storia dell’età sua l’avveramento prossimo. Di qui le varie identificazioni proposte da i commentatori: Can Grande della Scala (ipotesi del Castelvetro, Lombardi, Tommaseo, Zingarelli, Pascoli...) designato con attributi simili a quelli del Veltro e in maniera esplicita nel XVII canto del Paradiso (v. 82-92); un imperatore (ipotesi del Pietrobono, Mazzoni, Momigliano) designato nella medesima aspettazione nel D.X.V del XXXIII canto del Purgatorio v. 37-51; un papa (ipotesi di I. Del Lungo e di P. Renucci per il pontefice Benedetto XI, domenicano; del Porena per un pontefice spirituale in genere); Dante stesso (ipotesi del Missirini, Benini, di recente riproposta con più sottili argomenti da Leonardo Olschki); lo Spirito Santo (ipotesi di Filomusi-Guelfi, Papini), in accordo con l’attesa dell’instaurazione del terzo regno, secondo il Liber figurarum dell’abate Gioacchino da Fiore .
Certi elementi rappresentativi corrispondono a situazioni umane, che si scoprono d’improvviso, allargando l’orizzonte dagli schemi particolari; la necessità del rinnovamento intuita e annunziata dall’Alighieri corrispondeva alla preoccupazione maggiore degli intellettuali religiosi e laici, che sollecitavano una adesione al Vangelo, nell’ambito delle esigenze morali e di alcune realtà, che potevano essere risolte, superando le limitazioni e gli assurdi di quei problemi sconcertanti finiti nella fazione politica dei guelfi e dei ghibellini. Un atto di solidarietà doveva legare tra loro gli uomini disposti ad accogliere l'evento d'eccezione, assumendo fin d’ora la responsabilità della collaborazione con la nuova saggezza del personaggio storico, che avrebbe operato nel dramma terreno, con ordinamenti voluti da Dio.
Brunetto Latini nel Tesoretto narrò di aver smarrito la via, di ritorno dalla Spagna c di essere caduto nella «selva», di aver veduto ai piedi del monte una turba di uomini, di animali, un infinito numero di piante: e tutto ubbidiva al segno di una donna, la Natura, che toccava cielo e terra, obbediente a Dio, mentre le cose erano soggette alla nascita e alla morte. La stessa donna spiegò a lui la creazione, la redenzione, la caduta degli angeli e dell’uomo e lo invitò a entrare nella selva per incontrarsi con la filosofia e le virtù.
Con l’aiuto di Ovidio riuscì Brunetto ad uscire dal soggiorno di Amore, e, desideroso di tornare a Dio, all'amico Rustico di Filippo narrò dei suoi peccati, della loro gravità c della sua confessione a Monpelieri. Deciso di non andare alla Fortuna ma alle sette arti, si recò sull’Olimpo.
Il maestro di Dante compose il suo poetico trattato, impigliandosi nelle difficoltà di linguaggio e di una visione dotta, e forse la sua storia e il dramma interiore erano letteratura; nel suo discepolo la tematica, che pure ha dei richiami, prende piena coscienza delle cose con diversa intensità di accento, così che il nuovo itinerario cristiano dell’Alighieri ha una perennità di presenza.
Un altro punto di sicuro riferimento dell’allegoria nella prima cantica deve considerarsi il Veglio di Creta.
La critica si è attardata, più del necessario, per il compiacimento dei paralleli, sulle fonti pagane e sulle Sacre Scritture, e un lavoro simile ci tenterebbe se Dante avesse fatto dei precedenti poetici un centone provvisorio e strano, collegando quasi per gioco gli elementi sparsi dell’antica figurazione.
Le reminiscenze, gli adattamenti, l'imitazione restano al comune livello della riesumazione culturale, se manca il poeta. Le idee correnti nei testi di Virgilio, di Ovidio, di Lucrezio, le parole del libro di Daniele e la dottrina scolastica collaborano alla modellazione della statua del Veglio di Creta, del vecchio uomo nascosto nella caverna buia, dopo che nell’isola era passato il vento felice dell’età dell’oro, sotto il regno di Saturno.
Plinio aveva descritto nel libro VII (c. 15) della Historia naturalis il rinvenimento, nelle viscere del monte Ida, di un corpo enorme (XLVI cubitorum) attribuito a uno dei giganti della mitologia.
Nella Bibbia al re di Babilonia apparve la statua, simboleggiante le finalità storiche e politiche.
Dante elaborò queste immagini suggestive, e le elevò a un concetto universale, in cui l’umanità potesse ravvisare, come in uno specchio, se stessa.
L’interpretazione del Pascoli, del Busnelli, del Flamini, del Vandelli, che la statua voglia rappresentare l’uomo dopo il peccato originale ci sembra la più vicina e consona all’economia generale dell’opera. Coloro che vedono nel Veglio la storia dell’umanità decaduta dal suo stato d’innocenza, devono partire egualmente, per questa interpretazione, dal concetto del peccato originale, se intendono spiegare la decadenza dalla primitiva grandezza .
Il luogo dove sorge la statua, il colosso e la composizione dei metalli che ne definiscono il corpo, le ferite e le lacrime che da questo sgorgano formando i quattro fiumi infernali danno un concreto apporto alla spiegazione morale di molti passi della Commedia.
Senza dubbio lo scritto di Riccardo da San Vittore: De mystico somnio statuae Nabucodonosor, al capitolo primo, è di aiuto all’intelligenza allegorica; Dante può averlo conosciuto non meno dei versi dei poeti, principalmente delle Metamorfosi di Ovidio (I, 89-131).
Il peccato originale è alla radice della storia sacra, e il piede di argilla, per la concupiscenza, permane così, con le sue conseguenze. Il capo d’oro del Veglio (in quell’oro c'è chi ravvisa il libero arbitrio o la natura integra) e i metalli, siano essi i vizi o l’età dell’uomo, certamente indicano tempi, cronologicamente diversi.
Che la natura umana abbia subito una vulneratio la storia ne dì conferma; il poeta ha tradotto la vicenda dell’umana miseria nel fiume di lacrime.
Questa vecchia natura umana piange perché malata: l’Acheronte, lo Stige, il Flegetonte, il Cocito raccolgono quel pianto. Sono le acque più tristi, perché scorrono nell’inferno, travolgono i colpevoli e il male, e sono la stessa tristezza della morte.
Commentò Jacopo di Dante: «Da considerare è che questo vecchio significa e figura tutta l’etade e ’l corso del mondo, e tutto lo imperio e la vita degli imperatori e de’ principi dal cominciamento del regno di Saturno fino a questi tempi. Vuol l’autore dimostrare come l’imperio essendo tra li pagani e nelle parti d'Oriente fu trasportato tra li Greci, poi fu trasportato lo imperio dalli Greci nelli Romani, e però dice l’autore che questo vecchio volge il dorso invero Damiata, la quale è in Oriente, e guarda Roma così verso Occidente».
Il Veglio guarda, come a suo specchio, Roma: l'Impero e la Chiesa, le due autorità volute dalla Provvidenza «ad bene esse mundi».
Il motivo sotterraneo di una immensa storia, che ha avuto inizio nel Paradiso Terrestre, e che abbraccia vari capitoli dolorosamente segnati dal peccato d’origine, è presente nel disegno organico del poema, ch'è il poema della redenzione.
Il Veglio nella sua simbologia ci consente d'intendere la storia dell'umanità decaduta per il peccato nel giardino dell'Eden, secondo il libro della Genesi, e le diverse età del mondo, che seguirono la fine del Paradiso Terrestre.
Scrisse Ettore Paratore: «La decadenza della stirpe umana non s’è arrestata all’età del ferro, è scesa ancor più in basso, a un'età del fango, di cui parla Giovenale nella satira tredicesima.
L'interpretazione in senso giovenaliano del mito virgiliano e ovidiano è stato facilmente compiuto in base al brano del Libro di Daniele. Ma se il simbolo è stato globalmente e fedelmente trasportato dal libro biblico, in cui il profeta l’aveva interpretato come adombrante della decadenza dell'impero babilonese, Dante, contaminandolo ingegnosamente coi dati classici, lo ha trasformato nell’allegoria della storia dell’uomo dagli aurei primordi (indimenticabili per un cristiano con la vita dell'Eden) fino all’attuale decadenza al di sotto di tutti i possibili traslati forniti dal regno dei metalli, fino alla creta e al fango» .
Ai simboli si accompagna sempre lo stupore e una certa mera- viglia per il tono allusivo delle immagini, alle quali basta talora pochissimo per rientrare nell’accettazione di un discorso semplice e piano. Dalla mitologia e dalla cultura classica Dante, per quel rigoroso rispetto a ciò che la ragione aveva individuato come espressione poetica del vero, accolse le furie, il Minotauro, i Centauri, le Arpie, figure introdotte senza conflitto in una sistematica premessa o integrazione del regno della morta gente, ma ad una di queste figure, Gerione, addossò intenzionalmente, nel costruirla, i motivi di una delle più riuscite allegorie del poema.
Il mito aveva offerto i casi di sommarie addizioni di corpi e di combinazioni di elementi vari, raccolti e coordinati in un mostro nuovo, prodotto dalla pura fantasia, come vi erano stati il Manticore, ricordato da Plinio il Vecchio e da Brunetto Latini, e il Morintomorion descritto da Alberto Magno. Il Gerione di Virgilio, di Ovidio, di Orazio ha una sola natura e tre corpi, quello di Dante invece è uomo, leone, serpente, ma le tre nature si fondono in un corpo, di guisa che al vedercelo avanti nel Canto XVII dell’Inferzo, dopo la preparazione della finale del Canto precedente, come figura «che passa i monti, e rompe i muri e l’armi», avvertiamo di essere stati introdotti, d’un balzo, nelle contestazioni e nell’ambiguità, di cui vive la frode.
La coda aguzza e biforcuta, i fianchi dipinti di striature e di cerchi, come un tappeto tartaro, i piedi con artigli e quel volto «d uom giusto», necessario per simulare l’amicizia e colpire col tradimento fanno di Gerione un'eccezionale e viva figura, che sembra uscita dalle pagine dell'Apocalisse di S. Giovanni (IX, 7-11) da uno dei pannelli marmorei dei pulpiti romanici, o dalle grandi decorazioni ad affresco delle chiese, con le scene del Giudizio e l’esaltazione terribile, nella parte riservata ai reprobi, dell’elemento demoniaco.
Qualcosa di rivelato e di magico è in Gerione, così fortemente descritto negli attributi di animale, e così ingannevole e sfuggente nella faccia «benigna».
Il suo volo nella spessa tenebra, e l’azione che compie nel trasferire Dante e Virgilio rasente la roccia tagliata a picco nel baratro infernale, desta nel lettore sensazioni che colpiscono l’occhio e l’udito, tanto che questo preludio ci segue ancora, con altri segni bestiali, in mezzo ai grandi usurai. I frodolenti costringono la vita nelle vie anguste dell’ipocrisia, sono i negatori della verità, che hanno intessuto trame per ricoprirla, ogni volta che questa stava per conseguire la sua efficacia; torbidi e inerti, benché attivissimi nella scaltrezza e nel mal fare, costoro personificano le operazioni macchinose e segrete dei centri cittadini, indirizzate con cavilli e maligni sospetti a lottare contro il Veltro e la giustizia divina. Nel mondo di Malebolge si entra dopo un indugio prolungato su Gerione simbolo, e la fantasia trova da sé negli sviluppi e nelle prospettive del dramma il momento di rannodare, al di fuori dell’esegesi intellettualista, le cronache del male alla legge del contrappasso, opera dell’alta giustizia, che condanna alle pene scaltramente evitate in vita quanti travolsero nella ignominia delle lotte e del sangue la loro città. I tredici animali rammentati per similitudine da Dante nel XVII Canto: il ragno, il castoro, lo scorpione, il cane, la pulce, la mosca, il tafano, il leone, l’oca, la scrofa, il bue, l’anguilla, il falcone, sono la cornice di un bestiario, dove Dante morale e Dante giudice, nella finzione degli esempi, rafforza nell'immagine la sua allegoria. Contrariamente a quanto ha operato il Poeta, Croce in difesa della sua teoria che l’allegorismo impedisce la poesia vuol togliere al simbolo la sua essenza: «Nessun poetico lettore vorrà mai inserire sull'immagine di Gerione quella della Frode e intorbidarla o fiaccarla con quella inserzione, tanto a rappresentazione della fiera terribile, del mostro repugnante e grandioso soverchia il concetto e vale per sé, tanto è studiata in ogni sua parte e in ogni suo moto, e, si direbbe, amata» .
Il disumano dantesco si articola nella realtà brutale, in quei limiti in cui la responsabilità sussiste, sia pure nella negazione e nel capovolgimento della stessa natura umana. L’allegorismo medievale trovò facile comunicare i contenuti e la loro poeticità, poiché tendeva, senza sforzo, a universalizzare la storia. Le teorie politiche e morali ebbero, come alleate costanti, le interpretazioni parallele delle lettere e delle arti. Dante è l’autore che combatte e rifiuta, con la risoluzione dei canti della Commedia, la formula di un dualismo struttura-poesia; i suoi personaggi significano quello che rappresentano, e il significato letterale, allegorico, morale e anagogico, non si diparte dalla lettera: «il senso litterale sempre dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e senza lo quale sarebbe impossibile ed irrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico» .
Realisticamente l’Alighieri rappresenta questo dramma dell’arte, dicendo che il di dentro non può stare senza il di fuori, e cioè la forma dell’allegoria senza la verità reale e compiuta delle immagini; egli distingue, ma non separa i due momenti, e di quanto si faccia vigorosa e pregnante la sua poesia in tale concezione, si deduca dalla continuità dell’architettura « gotica » del poema, in cui l’allegorismo, come sorgente sotterranea d’acqua viva, è sottinteso e attuale ovunque, in modo che al suo apparire allo scoperto lo notiamo come cosa originale che proviene da una vena ricca e profonda .
Al pericolo di raccogliere dalla vita annotazioni realistiche solo in un senso, e di collazionare, come diceva Proust, «innumerevoli lastre fotografiche che rimangono inutili, perché l'intelligenza non le ha sviluppate», l’allegoria dantesca risponde col ritrovare una realtà che c’è nel discorso della vita giornaliera, ma da cui siamo distanti per apatia alla ricerca e per ignoranza, nel contrasto con ciò che sperimentiamo di limitato in noi e che sentiamo invece illimitato e immenso, qualora la mente si chieda di progredire nella conoscenza, varcando le apparenze.
A ciò occorre la «spiritualis intelligentia».