Dati bibliografici
Autore: Benedetto Croce
Tratto da: La poesia di Dante
Editore: Laterza, Roma-Bari
Anno: 1921
Pagine: 53-71
Se alla ferma fede nella vita oltremondana come vera ed eterna vita si univa nell’animo di Dante fortissimo il sentimento delle cose mondane, se al suo poema posero mano «e cielo e terra», la conseguenza che si presenta aperta è, che a rigor di termini la rappresentazione dell’altro mondo, dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, non poteva essere soggetto intrinseco della sua poesia e motivo generatore e dominante. Una rappresentazione di questa sorta avrebbe richiesto un assoluto predominio del sentire del trascendente su quello dell’immanente, una disposizione qual’è propria dei mistici ed asceti, aborrente dal mondo, aspra e feroce, o estasiata e beata, e di cui è dato rinvenire qualche poetico assaggio nell’innografia cristiana o in alcuni cantici di fra’ Iacopone. Il ritmo sarebbe stato allora molto accelerato, e le immagini affioranti e sparenti, energiche in certi tratti, vaghe e sfumate nel resto, quali si accennano nelle aspirazioni e nel terrore, premute d’ogni intorno dalla presenza del Dio. Ciò che più volte si è detto dai critici del Paradiso dantesco, che non si sarebbe dovuto svolgere come particolareggiata descrizione, ma condensare tutto in un alato canto lirico, esprimente l'aspirazione a non so che divino e inattingibile, sarebbe da dire, tal quale, dell'Inferno, mutando bensì l’aspirazione nel suo contrario, nel terrore ed orrore, e del Purgatorio, cangiandola in un misto di timore e di speranza, di ambascia e di gioia.
Ma Dante, quando compose la Comedia, non era in questa stretta condizione di spirito, sibbene in una assai più varia e complessa, e l’altro mondo non si sovrapponeva nella sua commossa fantasia al mondo, sì invece apparteneva con esso a un sol mondo, al mondo del suo interessamento spirituale, nel quale l’uno e l’altro avevano parte, e il secondo forse maggiore che non il primo, e certo non minore, sicché il primo non poteva per niun conto soverchiare e assoggettarsi l’altro.
Le contradizioni in cui ci si avvolge sempre che, nell’appressarsi al godimento e al giudizio della poesia della Commedia, non si muova da questo preliminare riconoscimento, che suo soggetto o motivo poetico non è la rappresentazione dell’altro mondo, si fanno evidenti nell'esame dell’opposta sentenza. Alla quale sostanzialmente è da ridurre anche la formula, che soggetto sia «il mondo guardato dall’altro mondo», semplice variante, perché è chiaro che nessun mistico o asceta può mai abolire il mondo, ma solo negarlo nell’altro, guardarlo dall’altezza dell’altro come stadio inferiore e superato. E guardare il mondo dall’altro mondo importa lo scolorarsi di tutte le cose umane, il disinteresse che si stabilisce verso di esse, l’indifferenza per la particolarità degli affetti e delle azioni, per gli individui nella loro individualità, che vengono generalizzati e ripartiti unicamente in eletti e reprobi, quali che siano stati i loro caratteri, le loro opere, le passioni e virtù loro, la loro grandezza terrena. Senonché in Dante non accade nulla di tutto questo; e, come il suo affetto corre per cento vie e non per l’unica della venerazione verso gli eletti e del raccapriccio verso i reprobi, cosi il suo giudizio non si restringe in quello legale o divino dell’«è salvo» e dell’«è dannato», ma si allarga a giudizio morale, e discerne il bene nei dannati e il male nei salvati, e perfino lascia prorompere liberamente amori e odî, simpatie e antipatie, trattando le ombre come cosa salda, gli spiriti giudicati e fissati nell’altro mondo come uomini multilateri e in efficacia vitale.
Ciò vedono e sanno anche i sostenitori della definizione che ora si esamina, sicché proseguono col dire che «Dante è andato nell’altro mondo portando seco tutte la passioni del mondo». Che è proprio come non si può (almeno poeticamente) andare nell’altro mondo, il quale esige che si svestano tutte le passioni umane e si guardino le cose con altr’occhio, con l’occhio di chi si è disebriato da un delirio e si trova innanzi la nuda e severa verità, o si è risvegliato da un affannoso e brutto sogno e si estasia nella pace e nella beatitudine. Onde l’ulteriore conseguenza di quella errata definizione è un’accusa a Dante, tacciato d’«illogico» per aver fatto il contrario di ciò che s’era proposto: quasi che Dante avesse fatto ossia operato qualcosa, e non semplicemente poetato. E, poetando sul sentimento così vario e complesso che si è definito, non poteva essere illogico, perché il sentimento non è mai né logico né illogico; e illogico, cioè non interamente armonico, era, in certo senso, solo il suo sistema di pensiero, come, del resto, il sistema di ogni uomo e di ogni filosofo, che sempre ha qualche lato non armonizzato e non logico, che è appunto quello da cui nasce il nuovo pensiero o il progresso che si chiami.
Al riconoscimento di sopra enunciato, oltre la conferma negativa che viene dall'esame di questa sentenza, si potrebbero ritrovare conferme positive in altri detti, com'è quello che il filosofo in Dante sia «medievale» e il poeta «moderno» (il primo, cioè, ascetico e mistico nel proposito, e il secondo passionale e politico nel fatto), e simili; e anche in certe vicende di fortuna toccate alla Commedia, in particolare lo scontento più volte attestato dagli spiriti mistici o fantasiosi verso la rappresentazione che quel poema loro forniva dell’oltremondo, la quale sembrava a loro troppo determinata e contornata, troppo calma, con troppo poco inferno nell’inferno, e troppo poco paradiso nel paradiso, e troppo poco purgatorio, ossia attivo sforzo di redenzione e purgazione, nel purgatorio. Ma più persuasive di queste prove indirette sono le prove dirette, offerte dalle impressioni che ognuno raccoglie nel leggere la Commedia o dai ricordi che serba delle letture. Non è certamente la visione dell’altro mondo quella che rimane come immagine sintetica delle impressioni provate, non la perdizione terrificante dell’Inferno, o il travaglio di dolore e speranza del Purgatorio, o la felicità del Paradiso; ma, sopra le tante e diverse figure di personaggi dalla vigorosa tempra o dalle ardenti passioni o dai violenti e truci atteggiamenti o dai sensi miti e gentili o dalla mente serena; sopra gli spettacoli di paesaggi ora orridi e adusti, ora freschi e deliziosi, ora cupi per tenebre, ora allagati di luce; sopra le scene risonanti di parole pietose, elevate, gravi d’ammonimenti e d’insegnamenti, sdegnose, irate, solenni; l’immagine che si leva di una volontà robusta, di un cuore esperto, di un intelletto sicuro, l’immagine di Dante: sicché si sarebbe inclini a non dare tutti i torti a quello scrittore settecentesco, che voleva togliere alla Divina Commedia il suo titolo vulgato e sostituirvi l’altro di Danteide. Non vero orrore, nell’Inferno, per la dannazione, ma dimestichezza, tenerezza, affetto, riverenza per molti dei dannati, i quali, da lor parte, come se stessero in un carcere o in un esilio terreno, molta sollecitudine si danno della loro fama, e si adoperano a correggere gl’ingiusti giudizî che corrono sul loro conto: la «tema d’infamia» li tormenta più delle pene infernali. Accade perfino che essi celiino o quasi, o almeno placidamente conversino, scambiando notizie e riflessioni, come, per dirne una, il frate Catalano, l’ipocrita tristo che incede sotto il peso della cappa di piombo, il quale, allorché Virgilio, dalle informazioni che da lui ascolta, s’accorge d'esser stato ingannato dai demonî, osserva con deliziosa bonomia: «Io udi’ già dire a Bologna Del Diavol vizî assai, tra” quali udi” Ch’egli è bugiardo e padre di menzogna». Ci volevano, a quanto sembra, Bologna, e le lezioni della sua Università, per far sospettare a uno che stava nell’Inferno che cosa fossero i diavoli. E celia Virgilio, il quale, rivolgendo una domanda al falsario coperto di scabbia, e che si gratta con le unghie furiosamente, rafforza la richiesta con l’augurio ironico: «se l’unghia ti basti Eternalmente a cotesto lavoro». E Beatrice, nel Paradiso, all’udir Dante che, con riverenza impacciata, dà, del voi a Cacciaguida, «ridendo parve quella che tossìo Al primo fallo scritto di Ginevra»: maliziosa e birichina come la dama di Malehaut alla prima dichiarazione d’amore che si fanno Ginevra e Lancellotto nel romanzo. Senza dubbio, Dante non ismarrisce la riflessa consapevolezza ch’egli è nell’altro mondo, che s’aggira nel cieco regno, nell’abisso infernale, tra le disperate atrocità della dannazione; ed esce di tempo in tempo in esclamazioni sul tipo: «O potenza di Dio, quanto è severa Che cotai colpi per vendetta croscia!»; «Oh sovra tutte mal creata plebe Che sta nel loco onde parlare è duro, Me’ foste state qui pecore o zebe!»; ovvero afferma che le «diverse piaghe» avevano «inebbriato» le luci sue, sicché «dello stare a piangere eran vaghe», e che ancor gli «duole», pur che si «rimembri». Nel Paradiso, innanzi alla rosa dei beati, procura di significare la forza immensa onde lo spettacolo lo percoteva e rapiva; e ricorre, come a misura da moltiplicare, al paragone dello stupore che coglie i barbari del settentrione al vedere Roma e i suoi edifizî e monumenti, e ne deduce: «Io che al divino dall’umano, All’eterno dal tempo ero venuto, E di Fiorenza in popol giusto e sano, Di che stupor dovea esser compiuto!». E non si può non avvertire che questo rapimento nel divino è enunciato e non rappresentato, e che le esclamazioni che egli esprime di terrore hanno del ritornello d’occasione, suggerite dall’idea delle pene infernali e non dal sentimento di esse, e sembrano alquanto fredde, specie se le si paragoni alla commozione che s’insinua nel suo petto e viene irrefrenabilmente crescendo alla presenza di Francesca, fino al deliquio. Un francese e cattolico si propose e trattò in un suo opuscolo il quesito: «se Dante fosse tornato migliore dall’altro mondo», e, ricordata la tenerezza di lui nell’Inferno per i peccati seducenti, e la nessuna compunzione verso le proprie colpe, e che la sola colpa che sembra colà rimorderlo è l’omissione di una vendetta, e che nel Purgatorio compie bensì, e di assai buona grazia, formalità di penitenze, ma assai più pensa alle cose terrene, e piuttosto che penitente, si mostra osservatore pieno di curiosità, e che nel Paradiso sembra uno studente in cerca di buoni corsi di lezioni, risponde al quesito in modo negativo. Sotto forma d’una capricciosa inquisizione psicologica si perviene così, senza avvedersene, alla medesima conclusione nostra: che l’altro mondo non è veramente il motivo poetico dominante nella poesia della Commedia.
D’altra parte è da concedere che Dante avesse l’intenzione per l'appunto di rappresentare l’altro mondo, e, anzi, che assai probabilmente fu questa la prima intenzione o idea del poema, come non solo è lecito argomentare, ma si può confermare con uno o due luoghi della Vita nuova. Ed è anche evidente che egli forni una certa rappresentazione dei tre regni; e ritrasse l’Inferno come una voragine che vaneggia di sotto al monte Sion fino al centro della terra e che, restringendosi per una serie di nove cerchi, comprende fiumi e selve e lande e precipizî e castelli e rovine, e si suddivide in giri e bolge, variamente; e il Purgatorio come un’altissima montagna sorgente in un’isoletta agli antipodi del monte Sion, distinta in una rocciosa base, ch'è l’antepurgatorio, in sette cornici e in una foresta che fu già il Paradiso terrestre; e il Paradiso figurò nei nove cieli, della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, stellato, cristallino (o del primo Mobile) e nell’empireo, dov’è Dio, il motore immoto. In questi cerchi, cornici e cieli egli distribuì per categorie dannati, purganti e beati: nell’Inferno, gl’infingardi nel vestibolo, i non redenti del peccato originale nel Limbo, e i propriamente dannati negli altri cerchi e nelle bolge secondo le tre disposizioni peccaminose, incontinenza, violenza e frode, ciascuna di queste suddivisa in modo che dai lussuriosi, golosi, avari si scende giù giù fino ai traditori; nel Purgatorio, assegnati alla base o antepurgatorio i contumaci e negligenti, tutti gli altri nelle cornici, secondo la divisione dei sette peccati o dei sette vizî capitali; e nel Paradiso, i beati, secondo i meriti e la correlativa beatitudine, secondo i gradi della carità o le virtù cardinali e teologali. E descrisse questo triplice regno fingendo sé viaggiatore e osservatore, dapprima sotto la guida di Virgilio, poi, per un breve tratto, di Virgilio e di Stazio insieme, poi, dal paradiso terrestre all’empireo, di Beatrice, e, nell’empireo, di san Bernardo. Che cosa fece egli in siffatta rappresentazione, che certamente si trova nel libro della Commedia, e anzi sembra sorreggere tutto il resto?
Poesia propriamente no, già esclusa dalla dimostrazione che manca per essa il necessario motivo poetico generatore; ma nemmeno, come si suol dire, scienza, perché la scienza, in tutte le forme in cui si prenda, o che elabori concetti o affermi fatti o classifichi o costruisca astrazioni, è sempre critica, e non ammette, e anzi discaccia e dissolve, le combinazioni dell’immaginazione. Qui invece l'immaginazione interviene come demiurgo e compie un’opera affatto pratica, qual’è quella di foggiare un oggetto che adombri a uso dell’immaginazione l’idea dell’altro mondo, dell’eterno. Si potrebbe forse acconciamente chiamare, questo lavoro compiuto da Dante, un «romanzo teologico» o «etico-politico-teologico», in analogia dei romanzi «scientifici» o «socialistici», che si sono scritti in tempi a noi vicini e si scrivono ancora, il fine dei quali è divulgare e rendere altrui accetto e desiderabile qualcosa che si crede o si desidera, presentandolo con l’aiuto dell’immaginazione, come sarebbero gli effetti che produrranno certe aspettate o invocate scoperte scientifiche, o le nuove condizioni di vita che nasceranno dall’attuazione di certi nuovi istituti sociali. Mutati i tempi e gl’interessi degli uomini, diventate le scienze naturali e le disquisizioni sociologiche ciò che un tempo furono la teologia e i problemi della salvazione dell’anima, romanzi teologici ora non se ne compongono più; ma parecchi se ne composero nel corso del Medioevo (tra i quali sono in parte da annoverare le cosiddette «visioni»), e questo di Dante fu di gran lunga il più ricco di tutti, il più grandioso e meglio architettato, sebbene non l’ultimo. Romanzo teologico che, per la natura della religione, al cui dominio nulla si sottrae, e per effetto degl’interessi etici e politici di Dante, si complicava, come si è accennato, di un’utopia politica ed etica.
Che Dante, propostosi questo fine, dovesse industriarsi a dare precisione e coerenza alle sue immaginazioni, e a farle, come si dice, verisimili, è cosa che s’intende, e, d’altronde, l’assunto gli era agevolato dall’intervento del miracoloso, al quale esso e i suoi lettori credevano. E vi riuscì, sembra, così bene, che sorse la leggenda che egli realmente avesse visitato l'Inferno e il Purgatorio, e, almeno in estasi, gli fosse stato rivelato il Paradiso; e gli antichi espositori furono costretti a insistere che egli scriveva «da poeta»; e anche i moderni, che di tali cautele non hanno bisogno, esprimono spesso la loro meraviglia per l'impronta di realtà, che Dante conferisce al suo racconto. Ma che le meticolose spiegazioni che egli dà sulla configurazione dei luoghi e sui modi del viaggio, e sul tempo che gli occorse per compierlo, e sui fenomeni che osservò, e, soprattutto, le dissertazioni con le quali spiega e giustifica quelle cose immaginate e le tratta come fatti reali che confermano una teoria scientifica e ne sono confermati, rechino prova che egli stesso fosse ingannato dalle proprie immaginazioni e le prendesse per fatti reali, e cadesse in una sorta di allucinazione; questo, sebbene sia stato in varî modi sostenuto, non è per niun conto da ammettere. E non già perché con tale ipotesi s'introdurrebbe nel genio di Dante una troppo grande mistura di demenza e si verrebbe meno al rispetto che gli si deve; ma veramente perché l’ipotesi contrasta alla limpidezza e consapevolezza della mente e dell’animo di lui, e, per di più, non è necessaria. Tutti i compositori di romanzi di quella sorta, teologici, scientifici o socialistici, sono precisi e meticolosi e ragionano le loro immaginazioni, perché così richiede il loro assunto; e anche nel secolo decimonono ci furono, tra i lettori e gli uditori, alcuni che, al pari delle femminette di Verona, presero per realtà le immaginazioni e tennero per certa l’esistenza delle varie Utopie o Icarie, e talvolta usarono la vela e il remo per raggiungere le terre promesse e le isole della felicità.
Sulla struttura della Commedia, cioè sul romanzo teologico che le è messo a fondamento, è sorta una delle più cospicue sezioni della «letteratura dantesca», gareggiante per mole con quella accumulata sulle allegorie, e si chiama della «topografia fisica» e della «topografia morale» dei tre regni. E poiché quella struttura Dante la volle ed eseguì, ed esiste nel suo libro, è naturale che gl’interpetri curino di chiarirla, ed è utile che, per far si che l'abbiano chiara in mente i lettori (i quali per solito ne accolgono un’idea sommaria e confusa, perché vi s’interessano poco), si disegnino, come si sono disegnati, atlanti, e si diano geografie dell’altro mondo dantesco, ed orarî od orologi del viaggio in esso, e commenti al codice penale che vi regna, e alla graduatoria dei meriti e delle ricompense. Solo che sarebbe da ripetere, rinforzandola, la raccomandazione che già s'è fatta, di guardarsi dal troppo, e di non dimenticare che queste di Dante sono mere costruzioni immaginative, di scarsissima importanza, soprattutto per noi che abbiamo altre immaginazioni pel capo, e che, a ogni modo, delle immaginazioni e dei sogni non conviene a lungo intrattenere la gente, «noiando altrui (ammoniva monsignor della Casa nel Galateo) col recitarli con tanta affezione e facendone sì gran meraviglia, che è uno sfinimento di cuore a sentirli»: sicché, poniamo, è perditempo e reca fastidio discutere e udir discutere se Dante impiegò nel suo viaggio sette o nove o dieci giorni, e se nel Paradiso ventotto o quarantadue o settantadue ore, e a quale ora per l'appunto vi fece salita, se prima o dopo il mezzogiorno, e simili. Ma i dantisti ci costringono a ripetere su questo punto anche l’altra e più sostanziale censura, dell’antimetodicità del loro procedere, e a spiegare in che essa, nel caso particolare, consista. Dante, per minuzioso e meticoloso che sia proceduto, ha pur lasciato alcuni vuoti nel congegno del suo romanzo teologico, e, per attento che sia stato, è incorso in talune contradizioni; fors’anche perché, come da taluni si pensa, non poté dar l’ultima mano al poema, e sottomettere a generale riaccordo un’opera composta in più anni e sotto l’efficacia di molti e diversi avvenimenti. Se il suo lavoro fosse stato d’indole filosofica e critica, si potrebbe riempirne le lacune e risolverne le contradizioni, come si usa nello studiare i filosofi, ripigliando e continuando le loro indagini e tirando le logiche conseguenze che dalle loro proposizioni derivano; ma essendo, com'è, lavoro d’immaginazione, e appartenendo anche quel che egli non ha detto all’immaginario, non si può logicamente supplire, né quello in cui egli si è contradetto si può conciliare, salvo che non si voglia continuare a lavorar d’immaginazione, senza le buone ragioni che spingevano Dante a farlo, e perciò almanaccando. Di questa impossibilità logica, al solito, non si rendono conto i dantisti, ed eccoli a discutere (per recare solo un paio d’esempî) sul modo in cui Dante passò dall’una all’altra riva di Acheronte; o sul luogo dove andranno, dopo il giudizio universale, le anime dei bambini del Limbo e quelle dei virtuosi pagani, e se non sarà loro assegnata a sede definitiva la «divina foresta» del Paradiso terrestre; o sul come mai Catone stia a guardia del Purgatorio, laddove, quando costui mori, mezzo secolo prima dell’incarnazione di Cristo, il Purgatorio non era stato ancora istituito, sicché sarebbe da pensare che per intanto se ne andasse a stare nel Limbo, donde fosse poi cavato; ma allora si urta nell’altra difficoltà, che egli mostra di non conoscere Virgilio, che pure era nel Limbo, sicché converrebbe supporre nel Limbo varî circoli o clubs, e Virgilio e Catone ascritti a due circoli diversi, o che, nei secoli trascorsi dal tempo dell’assunzione al grado di guardiano del Purgatorio, Catone avesse dimenticato le fattezze e la favella del suo antico compagno; oltreché è da domandare se egli sia da riputare salvato o no, o se, dopo il giudizio universale, dovrà «tornarsene mogio mogio al Limbo», o se, andando invece nel Cielo, troverà poi dove sedere; e via per altrettali cosiddette «questioni dantesche», in altrettali modi risolute, dei quali e delle quali sarà onesto tacere.
C'è, quel che è peggio, un preconcetto in quest’ardore di ricerche sulla topografia fisica e morale dei tre regni, che cioè tali notizie concorrano a determinare, e far comprendere e gustare, l’arte di Dante, il carattere di ciascuna delle tre cantiche e le ragioni del passaggio da una parte all’altra di ciascuna, da un episodio all’altro: onde la «storia» dell’altro mondo concepita come «storia estetica», e i legami e gli espedienti, come finezze d’arte. Ma poiché la struttura che abbiamo sommariamente delineata non nasce da motivo poetico, sibbene da un intento didascalico e pratico, essa non vale né a segnare il particolare carattere poetico, posto che vi sia, di ciascuna cantica, né i passaggi da una situazione poetica all’altra, e può dare solamente ciò che è nella sua natura, connessioni estrinseche alla poesia e determinate da ragioni strutturali. Ogni sforzo che si faccia per convertire queste ragioni in ragioni estetiche è sterile spreco di acume. La poesia delle tre cantiche non si deduce dal concetto del viaggio nei tre regni, mercé del quale l'umanità, e Dante che la rappresenta, passerebbe dall’angoscia e rimorso per il peccato al pentimento e alla purgazione, e di là alla beatitudine o perfezione morale: questo è uno degli aspetti del romanzo teologico, ma non è il principio informatore della poesia che a esso aderisce. La bellissima rappresentazione dell’arsenale dei Veneziani non ritrova il suo ufficio e la sua giustificazione poetica nell’asserita intenzione che, com'è stato sottilizzato, Dante avrebbe avuta di contrapporre uno spettacolo di fervida operosità economica al malvagio affaccendarsi dei barattieri, materia a quel canto; né l’escurso di Virgilio sull'origine di Mantova, nell’idea di dar saggio di storia veritiera tra le fandonie delle streghe e dei maghi; né Ulisse, che narra il suo ultimo eroico viaggio da esploratore, ha nulla che vedere coi fraudolenti, tra i quali è condannato. Ciascuno di quegli episodî sta per sé ed è una lirica a sé. E nemmeno si può considerare la struttura che sorregge la poesia come la «parte tecnica» del poema, giacché la tecnica (come ormai dovrebbe essere ammesso) o non esiste in arte o coincide con l’arte stessa, laddove la struttura della Comedia, avendo altra origine psicologica, non coincide interamente con la sua poesia. Con maggiore verità codesta struttura è stata assomigliata a una cornice che contorni e chiuda uno o più quadri, quantunque tale immagine rechi anch'essa il pericolo di ridarle una virtù propriamente estetica, perché le cornici sogliono essere ideate insieme coi quadri o artisticamente lavorate in modo da formare un’armonia, quasi compimento delle pitture, il che veramente non è in questo caso. Paragone per paragone, si potrebbe piuttosto raffigurarla come una fabbrica robusta e massiccia, sulla quale una rigogliosa vegetazione si arrampichi e stenda e s’orni di penduli rami e di festoni e di fiori, rivestendola in modo che solo qua e là qualche pezzo della muratura mostri il suo grezzo o qualche spigolo la sua dura linea. Ma, uscendo di metafore, il rapporto con la poesia è semplicemente quello che passa tra un romanzo teologico, ossia una didascalica, e la lirica che lo varia e interrompe di continuo; e questo rapporto trova riscontri in altre opere di poesia, e soprattutto nel Faust goethiano, che è stato bensì con insistenza paragonato alla Commedia per considerazioni storiche (come l’una la somma del pensare e sentire medievale, e l’altro di quello dell’età moderna), ma non senza che a tale paragone spingesse anche l’intravedimento di una somiglianza artistica tra le due opere, pur tanto diverse, consistente appunto nell’aver l’una e l’altra, di là dalla poesia, un legame tra le loro parti alquanto estrinseco e concettuale o didascalico .
Una certa compressione non si può negare che il romanzo teologico eserciti talora sulla vena poetica, come si scorge in alcuni casi che di frequente si ripresentano. Tale è la necessità della inserzione di parti meramente informative o di geroglifici allegorici, di che non occorrono prove particolari. Tale è la rottura della coerenza onde personaggi e scene, che hanno un lor proprio valore di commozione, un proprio significato sentimentale, sono poi costretti a servir da espedienti per somministrare certe notizie o certe spiegazioni dottrinali; e Farinata abbandona il suo disdegnoso atteggiamento ed esce dai pensieri, in cui è assorto, tutto patriottici e politici, per ispiegare i limiti della conoscenza del presente e del futuro nei dannati; e Matelda, da fata della primavera, diventa ancella ed esecutrice di riti espiatori; e Virgilio, e Dante stesso, quale esso è figurato nel poema, debbono prestarsi a tutte le necessità e sinuosità del racconto, e, come caratteri che si vogliano desumere dal complesso, sembrano troppo varî e discordanti dal modo in cui dapprima si presentano, Virgilio inviato dalle donne celesti, Dante, il peccatore che intraprende docile e compunto la via della purificazione. Tale è altresì la ripetizione di situazioni simili, che il poeta s'industria di variare senza poterne del tutto vincere la monotonia: per esempio, la meraviglia delle anime del Purgatorio all’avvedersi che la persona di Dante gitta ombra, e gli schiarimenti che Virgilio deve di volta in volta somministrare. A un certo punto, par che esso stesso sia preso da impazienza e faccia come nell’antica novellina quel buon uomo che aveva una macchia d’olio sul vestito e tutti quelli che incontrava ne lo rendevano accorto, sicché, egli, incontrando di nuovo alcuno, annunziava senz'altro: «Sta? saldo, ho una macchia d’olio»; e Virgilio annunzia infatti: «Senza vostra dimanda io vi confesso Che questo è corpo uman che voi vedete, Per che il lume del sole in terra è fesso». E, infine, per non andar per le lunghe, dalla stessa compressione dipende quel certo che di brusco e reciso con cui si chiudono di solito scene e dialoghi (onde è stato scherzosamente detto che i personaggi di Dante si separano senza complimenti, «all’inglese», o, con maggiore gravità, che Dante «stampa un marchio sulla fronte dei suoi personaggi e passa oltre»); e in generale potrebbe dirsi che, per le misure imposte dallo schema del romanzo teologico, per «lo fren dell’arte», l'Inferno sia un po’ troppo affollato e talora come strozzato, e il Paradiso un po’ troppo dilatato.
Ma bisognerebbe, d’altra parte, rammentare anche la libertà che quello schema oltremondano ed enciclopedico concede ai moti più varî della fantasia di Dante, e notare l’efficacia benefica che quella compressione per altro verso esercita, e per la quale la poesia di Dante prende carattere di assoluta necessità, prorompendo attraverso lo schema, resa più vigorosa e intensa dall’ostacolo che le frappone e che essa sorpassa: cosicché a chi non credesse (e vi sono stati di codesti scettici) alla realtà e necessità del produrre poetico e lo reputasse gioco e artifizio di cui l’uomo possa far di meno, non si potrebbe offrir caso più chiaro da meditare che questo furore di poesia in Dante teologo e politico, questo torrente che alta vena preme, e che s’apre la via tra le rocce e i sassi e scorre impetuoso. E tanta è la sua forza, tanta la sua ricchezza, che esso penetra in tutti i cavi delle rocce e dei sassi e avvolge con le sue onde spumeggianti e col velo d’acqua che solleva lo spettacolo alpestre, a segno che sovente non si vede altro che il moto delle sue acque. La poesia di Dante, quando altro non può, avviva con freschissima fantasia i particolari delle disquisizioni e parti informative ed espedienti di racconto, e perfino le non infrequenti concettosità dell’erudito in istoria, mitologia e astronomia, e investe tutte queste cose col suo commosso e sublime accento.
Per tale ragione, schema e poesia, romanzo teologico e lirica, non sono separabili nell'opera di Dante, come non sono separabili le parti dell’anima sua, di cui l’una condiziona l’altra e perciò confluisce nell’altra; e, in questo senso dialettico, la Commedia è sicuramente un’unità. Ma chi ha occhio e orecchio per la poesia discerne sempre, nel corso del poema, ciò che è strutturale e ciò che è poetico; e in misura maggiore che non convenga fare per altri poeti, nei quali pur si trova la stessa congiunzione, e pari forse, come s’è detto, solo a quella che si deve usare pel Faust del Goethe, ma in contrasto quasi pieno coi maggiori drammi dello Shakespeare, dove lo schema o struttura nasce dal motivo poetico, e non c’è struttura e poesia, ma tutto, si può dire, è omogeneo, tutto è poesia.
Vero è che un’alquanto rettorica ammirazione si suol rivolgere all’«architettura» della Commedia, celebrando la sicurezza delle linee, le proporzioni, l’euritmia, le rispondenze matematiche, che sono nella costruzione dei tre regni, nella loro topografia fisica e morale: motivo prediletto dei conferenzieri, che prendono a tema delle loro fiorite orazioni Dante; e per questa via si finisce col parlare della «bellezza estetica» pertinente alla struttura stessa del poema, una sorta di bellezza addizionale all’altra della poesia che include: una bellezza, come talvolta la si chiama, «della cosa stessa». Tra gli altri, un noto poeta e dantista italiano riuscì tutt'insieme a frantumare e impoverire la poesia della Comedia, riponendola nelle sole parti «non drammatiche», in alcune «perle» che si pescano in quel gran mare, e a esaltare la «poesia della concezione», la «pit poetica che al mondo sia e sarà mai», il viaggio oltremondano. Sul qual punto non è da rispondere altro se non che non esiste poesia delle cose, ma solo poesia della poesia, e che la poesia delle cose sarà, nel miglior caso, un leggiadro modo di dire, ma non certo un modo critico di pensare. Anche la struttura della Commedia si suole ammirativamente compararla a quella delle cattedrali gotiche, con curiosa vicenda d’un paragone che prima fu trovato nel settecento per vilipendere l’opera dantesca come rozza, stravagante, barbarica e «gotica», e poi, per effetto del romanticismo e medievalismo e religiosismo romantico, valse al contrario fine. E su questo punto si deve rispondere che le cattedrali sono cattedrali, e non già schemi di poemi ma poemi esse stesse; e quelle gotiche esprimevano infatti un nuovo sentire, nascente da una nuova concezione del divino e del rapporto dell’uomo a Dio, della terra al cielo; e Dante anch'esso espresse un nuovo sentire, nella poesia sua e non nell’astratto schema. Ben forse si potrebbe adoperare meglio, ma con assai diverso senso, quel termine di confronto, prendendo a considerare l'architettura gotica, non nell’età dell’origine e del pieno fiore, ma in quella del suo declinare o piuttosto del suo cangiare, nell’età di Dante, per effetto degli stessi cangiamenti spirituali dei quali s'è toccato di sopra e che operavano sull’animo di lui. Allora le sculture e decorazioni pittoriche, che negli originari edifici gotici non erano indipendenti e per sé artistiche, ma parti architettoniche, determinate dallo spirito dell’edificio e mosse col moto di tutte le altre linee architettoniche, cominciarono ad ottenere rilievo e importanza per sé, e le chiese presero nuovo e più mondano aspetto, prenunziante la Rinascita : proprio come accadde nel poema di Dante rispetto alle visioni e in genere alla letteratura medievale e mistica e ascetica.
Con ciò sembra chiarito il modo in cui bisogna trattare, o il conto in cui bisogna tenere, le parti strutturali della Commedia, che non è di prenderle come schietta poesia, ma nemmeno di respingerle come poesia sbagliata, si invece di rispettarle come necessità pratiche dello spirito di Dante, e poeticamente soffermarsi in altro. Rispettarle come non usano i dantisti, quando, fissandole con occhio curioso e indiscreto, finiscono, consapevolmente o no, col celiarvi intorno, e discorrere del «domicilio coatto» di Virgilio, e dell’«alpinismo» di Dante, e simili. Ma non insistere in quelle e soffermarsi in altro; ossia leggere Dante proprio come tutti i lettori ingenui lo leggono e hanno ragione di leggerlo, poco badando all’altro mondo, pochissimo alle partizioni morali, nient’affatto alle allegorie, e molto godendo delle rappresentazioni poetiche, in cui tutta la sua multiforme passione si condensa, si purifica e si esprime. Si dirà, e si è detto, che a questo modo Dante viene diminuito; ed è vero il contrario, che viene accresciuto: accresciuta cioè e potenziata la contemplazione di lui, sommo poeta. Si dirà, e si è detto, che a questo modo Dante viene profanato, togliendoglisi il pensiero religioso; e neanche è vero, perché gli si tolgono o meglio si prescinde solo da quei pensieri, religiosi o politici o altri che siano, da lui non tradotti nella sua poesia, nella quale, d’altra parte, pur vive tanta e seria e sincera religiosità, anche dove non sembra direttamente espressa: vive in tutte le più varie figurazioni, perché viveva nell’animo di Dante, se anche conciliata o equilibrata con altri sentimenti. Finalmente si dirà, e si è detto, che a questo modo si nega ogni unità nella poesia di Dante; e ciò è ancora men vero, perché quella che si nega è l’unità cercata fuori della poesia, in un concetto o in uno schema pratico; e, per conseguenza, si rifiutano altresì tutte le vecchie e nuove dispute così sull’unità del concetto come sull’unità d’azione del poema, e sul protagonista, se ci sia o no e se sia Dante stesso, e simili. L'unità vera della poesia dantesca è lo spirito poetico di Dante, del Dante della Commedia, e non quella complessiva del volume suo; e il carattere di ciascuna delle tre cantiche non si può ritrovarlo con l’analisi dei concetti dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, ma solo con la contemplazione della varia poesia che ciascuna di esse offre, e che, pur nella sua varietà, ha, in ciascuna delle cantiche, una certa fisionomia particolare, che la differenzia: non diversa per altro e non maggiore di quella che possono presentare tre libri in cui uno stesso poeta abbia raccolto, raggruppandole secondo talune affinità, le proprie liriche.
Per determinare quale sia, nei suoi tratti distintivi, questo spirito poetico di Dante, il cammino più corto e più proprio è quello di ripercorrere le tre cantiche, procurando di passare in rassegna le principali poesie o gruppi di poesie, che esse contengono, e venirne notando la varia ispirazione e modulazione.