Dati bibliografici
Autore: Giuseppe Petronio
Tratto da: L'attività letteraria in Italia
Editore: Palumbo, Palermo
Anno: 1965
Pagine: 124-128
A tradurre in forme letterarie la sua concezione del mondo Dante ricorse a strumenti offertigli dalla cultura del tempo, in primo luogo a quel poema didattico-allegorico che, come si è detto, era stato importato in Toscana, su modelli francesi, dal suo «maestro» Brunetto Latini, e che aveva poi trovato, nei decenni seguenti, varie soluzioni metriche e compositive. Nello stesso tempo Dante si servi anche di un altro «genere», la «visione», cioè la finzione letteraria di un viaggio nell’al di là e del racconto delle cose viste e delle persone incontrate: era un genere che aveva i suoi esempi classici — «visioni») erano già il sesto libro dell’Eneide, e, prima di esso, l’undecimo dell'Odissea — ma che nel medioevo si era sviluppato largamente, com'è naturale, data l'importanza che i tre regni dell’oltretomba avevano nella concezione cristiana della vita. E già se ne erano avuti esempi nella nostra letteratura volgare: «visioni» erano stati i due poemetti citati di fra Giacomino da Verona. Inoltre, la tradizione offriva a Dante ancora un altro schema, quello della «profezia», il cui esempio più insigne — l’Apocalisse — era ben presente alla cultura e alla coscienza di un uomo dell’età di Dante. Potrebbe dirsi perciò che la Divina commedia sia, in quanto al «genere», «un poema didattico-allegorico in forma di visione con accenti profetici», e i richiami puntuali ai predecessori danteschi possono essere tanto facili quanto copiosi: basterebbe ricordare che la stessa invenzione centrale del poema — lo smarrimento di Dante nella selva — ricalca senza dubbio l’eguale smarrimento di Brunetto Latini nel Tesoretto, e che già Brunetto Latini e l’autore ignoto dell’Intelligenza erano accompagnati da un essere umano) — Tolomeo — o allegorico — l'Intelligenza —, che guidava e spiegava.
Tuttavia, accettato questo schema, Dante se ne serve con una libertà e, nello stesso tempo, con una ricchezza di cultura che sono il segno della sua superiorità geniale su tutti i suoi predecessori. Intanto, in lui il didascalismo non è spicciolo o, direi con termine moderno, nozionistico, ma sostanziale. Dante, cioè, non si preoccupa di insegnare un certo numero di cose o di nozioni, così come Brunetto aveva elencato le varie virtù e dato notizie di storia, geografia e via dicendo, o come l’autore dell’Intelligenza aveva inserito un lapidario, un corso, si direbbe, di storia sulle imprese di Cesare, e altre simili conoscenze spicciole. La cultura di Dante è, senza dubbio, infinitamente più larga e più sicura degli autori di questo o di quel poema didattico precedente o contemporaneo, ché egli assomma nel poema una cultura filosofica appresa alle «disputazioni de li filosofanti» (Conv., II, xii, 7), una vasta conoscenza della teologia, letture larghe di poeti, e via dicendo, e l’opera è tutta contesta, specialmente nel Paradiso, di ampie trattazioni dottrinali, di discussioni su problemi particolari di filosofia, teologia, morale, poesia, finanche di fisica. Ma l'accento non batte su queste singole nozioni, e ciò che Dante vuole insegnare con il racconto del suo viaggio è qualcosa di assai più complesso e, nello stesso tempo, di più semplice. «Removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis», definisce egli stesso nella lettera a Can Grande il fine del poema, € ciò che il lettore deve ricavarne è — al di là di tutte le possibili nozioni che avrà potuto apprendere — l'essenza stessa della vita umana e dell’universo: il mondo come cosmos; la destinazione dell'uomo a una felicità eterna che egli si è preclusa con il peccato di Adamo; la redenzione operata dal Cristo; la provvidenzialità del corso della storia terrena; la libertà di scelta tra il bene e il male che, anche dopo il peccato originale, ci resta; l’esistenza di due forze deputate da Dio a sorreggere la nostra debolezza e a guidarci al bene in terra e in cielo; l’usurpazione, da parte della Chiesa, dei poteri e dei compiti spettanti all'Impero; il disordine che ne è seguito nel mondo; la necessità di ripristinare l'Impero nella pienezza dei suoi poteri; la miseria che attende per l'eternità chi non sappia resistere alla suggestione del male; la beatitudine eterna, tutta spirituale, che attende chi sappia accogliere l’invito che ci viene dal girare eterno dei cieli. Sono questi gl’insegnamenti che il lettore deve ricavare dal poema, che diventa così non un libro in cui nozioni di scienza siano vestite di belle immagini ad attrarre il lettore, ma un testo vitale, il gran libro da cui l'umanità smarrita nel male può apprendere come tornare al bene e alla Grazia.
Con la stessa geniale libertà Dante si serve, piegandola ai suoi bisogni, della possibilità che gli offriva l’allegoria, che, anch'essa, perde nella Divina commedia la rigidezza legnosa, bizantina o gotica, che aveva nelle opere precedenti. Dante aveva già avvertito nel Convivio, là dove aveva trattato dei quattro sensi delle scritture (II, i, 2 sgg.), che non sempre o dovunque è lecito o possibile interpretare il testo letterale secondo gli altri sensi, ammettendo, dunque, che il poema allegorico non richiede una rispondenza precisa e puntuale di sottosensi o sovrasensi allegorici. Affermare ciò significava lasciare alla fantasia una autonomia che essa non aveva avuta nelle altre opere allegoriche o nelle intepretazioni allegoriche di opere precedenti; significava, infatti, affermare che l’allegoria va colta non nei singoli particolari ma nell’assieme dell’opera, nel significato generale del poema, durante il quale, dunque, il poeta è libero di Inventare avvenimenti, personaggi, episodi, che ubbidiscano solo alle leggi della sua fantasia e alle necessità dell'invenzione artistica, senza che sia necessario rinchiuderli di volta in volta nella camicia di Nesso di una loro significazione allegorica o dottrinale o morale. Ne risulta che anche l'allegoria, come il didascalismo, ha un respiro universale, mentre gli innumerevoli episodi e gli innumerevoli personaggi di cui il poeta affolla le pagine possono essere creati liberamente, ubbidienti non all’ossessione di un allegorismo pignolo e invadente, ma, tutto a un tempo, ai bisogni della fantasia e al desiderio di descrivere, nell’assieme del Poema, lo stato delle anime dopo la morte, per ricavarne lezioni di vasto respiro per quelli che sono ancora in vita. Del resto, nell’epistola a Can Grande pare intendere l’allegoria in modo ancora più largo, in quanto chiarisce che per lui la descrizione dello stato delle anime dopo la morte è la lettera del poema — contrariamente a quanto di solito si intende —, e che sua allegoria è la trattazione di come l’uomo, meritando o demeritando, vi si rende degno di premio o di castigo (Epist. XIII, 8).
Derivano da ciò almeno due conseguenze. Intanto, appunto perché non irrigiditi in una corrispondenza precisa tra il loro agire e un astratto significato allegorico, anche i personaggi allegorici hanno una scioltezza e una autonomia di movimenti che li fa persone vive: si pensi a Beatrice, a san Bernardo, soprattutto a Virgilio, che sono certamente allegorie delle tre guide o, dei tre stadi per cui l'anima può salire fino alla contemplazione di Dio (filosofia o scienza umana; teologia o scienza divina; misticismo), ma che sono anche, soprattutto Virgilio, creature vive, «personaggi» veri e propri, dalla piena autonomia, per i quali, accettato, una volta il loro significato allegorico, si può poi dimenticare questo, sovrasenso per renderli solo nella pienezza e vitalità del loro comportarsi. Naturalmente, residui di allegorismo preciso e puntuale ce ne sono, e sono le zone grigie del poema, quelle nelle quali figura e figurato, non si coprono completamente, o nelle quali la ricerca della corrispondenza precisa, che si capisce deve esservi, tra la lettera e ciò che vi è dietro, genera nel lettore una preoccupazione e dei dubbi che gli impediscono di abbandonarsi alla lettura, e, mentre non gli lasciano godere pienamente, con freschezza, della lettera, non gli dànno nemmeno la soddisfazione intellettuale di aver compreso a fondo il senso, riposto.
Ne deriva ancora che quest'afflato simbolico, io corre tutto, il poema fa sì che, al di là di ogni corrispondenza minuta, caduco ed eterno, terreno e celeste, umano € divino, fisico e metafisico, si convertano continuamente tra loro, e — precisamente come nei due versi famosi del Faust goethiano: «tutto ciò che è effimero non è che un simbolo» — ciò che è terreno appaia solo la figurazione di qualcosa che ha il suo senso Vero e la sua integrazione organica fuori di qui. Di questo compenetrarsi di reale e ideale Dante ha una convinzione piena, intellettuale e sentimentale, secondo i modi della cultura medievale, ma, anche qui, con una vastità di respiro che lascia sorpresi. Tutto ciò che esiste in terra, per l’uomo del medioevo, è ed è quale è in quanto ha una sua ragione profonda: la rosa dei venti — spiegava, qualche decennio prima della Divina commedia, Ristoro d'Arezzo — ha tanti lati e tanti venti perché tanti ne sono necessari, e così via per tutte le cose create, creature tutte di Dio. Per Dante è lo stesso, ma con una larghezza intellettuale e con una profondità morale che trasfigura questa, ricerca gretta di corrispondenze minute: anche per Dante «le cose tutte quante hanno ordine tra loro», anche per lui l’ascendere del fuoco verso l'alto e il cadere della pietra verso il centro della terra ubbidiscono alla medesima legge per cui l'uomo, gravato, dal peccato, sprofonda a terra, e, liberato da quello, ascende lieve al cielo; ma ciò non significa se non che terra e cielo narrano insieme la gloria di Dio e serbano la «forma» della sua presenza, sicché tutto il creato agli occhi del credente illuminato si trasfigura in un cosmo ordinato di apparenze significative nelle quali è possibile riconoscere l’«orma dell'eterno valore».
Come terreno e celeste, fisica e metafisica sono tutt’uno, così tutt'uno sono politica e religione, e l’operare terreno dell’uomo acqui- sta significato solo se lo si riporti alle leggi che reggono l’universo. Perciò, al di là delle ragioni strettamente utilitarie, al di là degl’interessi immediati e contingenti, sono valori e interessi eterni quelli che spiegano la necessità dell'Impero, condannano le prevaricazioni della Chiesa, bollano i papi o gl’imperatori venuti meno al loro dovere, accusano la politica utilitaristica di Firenze, giustificano l’operare di Dante, determinando in lui, sempre pit con il passare degli anni, un distaccarsi da ciò che è effimero e contingente per mirare solo all’eterno. Da questo la sua sicurezza che ciò che deve essere sarà, che nessuna forza umana potrà fermare la «vendetta di Dio», che l’ordine rotto non potrà non essere ristabilito, oggi o più tardi: troppo tardi forse perché egli ne goda, ma la vita di un uomo e mille vite di uomini non sono che «un muover di ciglia al cerchio che più tardi in cielo è torto». Così, il poema didattico-allegorico non solo si svolge nelle forme tipiche della «visione», ma si colora anche di tinte profetiche, e Dante diventa banditore delle grandi leggi divine che il mondo ha dimenticate, ma che nell’alto dei cieli gli sono state rivelate con il in terra; e anche per questo alito profetico che lo corre, il poema «sacro» ha un’ampiezza di respiro e hanno più nulla a che vedere con le compilazioni precedenti più o meno erudite, congeste di ammaestramenti spiccioli.