Dati bibliografici
Autore: Alessandro Ghisalberti
Tratto da: Dante e il pensiero scolastico medievale
Editore: Edizioni di Sofia, Milano
Anno: 2008
Pagine: 5-12
Per essere in grado di proporre un'idea del tracciato speculativo, filosofico e teologico, rinvenibile nelle opere di Dante, è utile un preliminare richiamo ad alcuni luoghi in cui Dante esprime direttamente le proprie convinzioni in materia. Nel Convivio, dopo aver disposto le sette arti liberali in relazione ai sette pianeti, fa corrispondere la fisica e la metafisica alla sfera stellata, la filosofia morale alla nona sfera e la teologia o scienza divina al cielo quieto o empireo. Diversamente dalla teologia naturale, che è parte della metafisica, la teologia fondata sulla rivelazione è “divina scienza”, conoscibile solo grazie alla fede, anzi è la dottrina stessa che Cristo ha lasciato ai discepoli. In tal modo la teologia cristiana viene da Dante omologata alla scienza di Dio che, anche per i contenuti, trascende la capacità della ragione umana nella condizione terrena, ossia non può essere assoggettata al vaglio argomentativo di una ermeneutica filosofica. Con queste affermazioni del Convivio, Dante sembra prendere le distanze dalla concezione della teologia maturata presso molti maestri del sec. XIII — secondo i quali essa è un sapere che procede mediante argomenti, elaborazioni discorsive, a partire dagli articoli della fede — per allinearsi alla concezione della teologia propria di Bonaventura, Giovanni Duns Scoto e degli altri maestri dei primi decenni del secolo XIV: Duns Scoto, in particolare, attribuiva i caratteri del sapere scientifico rigoroso alla conoscenza di Dio (la teologia in sé), mentre assegnava al sapere dei teologi (la teologia nostra) un carattere analitico-astrattivo, di conoscenza certa, conseguita attraverso i processi discorsivi dell’intelletto del viatore, cui è preclusa l’intuizione dell’essenza divina .
Dante pensa alla teologia nel suo momento fontale, nell’intelletto detentore del sapere assoluto, ossia nell’intelletto divino che ha per oggetto “Dio in quanto Dio”, e postula per essa una salda fede nella parola rivelata.
Un secondo testo chiarificatore del metodo è offerto dall’Epistola XIII a Cangrande, dove Dante riflette sulle caratteristiche della poetica della Commedia. Prima caratteristica dell’opera è la polisemia, il suo distendersi sul piano dei quattro sensus, letterale, allegorico, morale, anagogico .
La materia della Commedia sottoposta ai quattro sensi è fondamentalmente teologica, in quanto incentrata sul viaggio nei tre regni dell’oltretomba per raggiungere la contemplazione di Dio; i quattro sensi appartengono all’esegesi biblica medioevale e non vengono esplicitati per virtuosismo o erudizione, bensì perché tutti insieme hanno il potere di dischiudere alla mente gli arcana sapientiae, di sostenere il percorso dalla “selva oscura” alla graduale ascesa a Dio, sino all’unione totale della mente con la divinità. L’Epistola XIII procede oltre: nello spiegare come rendere ragione del costrutto teologico, si appella al procedimento raziocinativo, che attesta l’imprescindibilità del ricorso alla filosofia per giungere a una puntuale comprensione degli assunti, già a partire dai primi versi del Paradiso:
Dice dunque il poeta che “la gloria del primo Motore”, cioè di Dio, “in ogni parte dell’universo risplende”, ma in maniera che “in una parte più o meno in un’altra”. Ora, che la gloria di Dio risplenda in ogni luogo lo dimostrano la ragione e l’autorità dei testi .
Un altro accesso all’itinerario intellettuale di Dante è offerto dalla trasposizione allegorica dei miti e delle storie, narrate nei testi della classicità, in figure che si dischiudono alla loro piena significazione nella successiva era cristiana. La stessa valenza assume la simbolica adottata nei confronti della Filosofia, in particolare l’evoluzione del significato allegorico di Beatrice: dalla Beatrice storica alla donna gentile, espressione dell’amor cortese; dalla donna gentile alla Sofia, la sapienza dei filosofi; dalla filosofia alla sapienza mistica, la Teologia. L’espandersi poetico delle successive figure racchiude un reale intreccio con l'evoluzione della biografia personale di Dante, che, nelle opere della maturità, progettò la realizzazione di un’intima fusione tra poetica e rivelazione, tra poesia e teologia. Il progetto è divenuto progressivamente chiaro, da quando Dante ha trasceso l’amore di Beatrice-donna (Vita Nuova), per concentrarsi ed espandersi in quello della donna-Filosofia (Convivio) e poi di Beatrice-Teologia (Paradiso).
Già Maria Corti ha osservato come Dante abbia, a modo suo, osato una simbiosi tra la Sofia aristotelica e la variegata sapienza cristiana: di tutte due è materia la donna gentile, di entrambe è immagine con la sua bellezza . Ne abbiamo conferma dalle definizioni di filosofia nel Convivio: «Questa donna fu figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia»; «E così, in fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu’ io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia» .
Rispondendo all’esame svolto dall’apostolo Giovanni sulla carità, Dante afferma che Dio è l’unico oggetto del suo amore e che questo amore è stato acceso in lui da Beatrice; essa è penetrata in lui attraverso gli occhi, i quali furono come le porte attraverso cui ha acceso nel suo animo il fuoco d’amore.
Nei canti finali del Paradiso la poesia si è fatta teologia, Beatrice si è trasformata in amore — grazia, in ciò che non può più ulteriormente trasformarsi, nel definitivo, che ha assorbito la Beatrice, figlia di Folco Portinari e morta giovane nel 1290, così come ha assorbito la “donna gentile”, simbolo della Filosofia; di entrambe resta soltanto il fatto importante che esse abbiano consentito il trasparire della grazia che riempie l’eternità, e di cui Dante vuole essere il riconosciuto cantore. Dante dichiara di aspirare con tutte le sue energie intellettuali alla corona di “poeta cristiano”, dopo quella già conseguita di “poeta stilnovistico”. Ogni trasformazione del mito classico e della storia antica, attraverso l’allegoria, è dunque rivolta al fine di esprimere, nella poesia, quello che Tommaso d’Aquino aveva fatto con la filosofia, al fine cioè di giungere a una poesia cristiana nell’idioma volgare, che sapesse riproporre i tratti della teologia cristiana.
Il poema è “sacro” per questo evolversi di ogni allegoria e della stessa filosofia in teologia; ad esso hanno posto mano «e cielo e terra», la scienza celeste, ma anche la storia terrestre, le azioni e le vicende del mondo, di tutto il mondo, pagano e cristiano. È su queste basi che Dante arriva a formulare la celebre aspirazione al cappello di “poeta cristiano” .
Degne di particolare attenzione, nel contesto del discorso che stiamo sviluppando, sono le questioni esegetiche di passi danteschi che riguardano la storia della filosofia e della filologia medievali; in particolare ancora oggi attira l’attenzione degli studiosi il significato che Dante ha voluto attribuire alla collocazione di Gioacchino da Fiore e di Sigieri di Brabante tra i dottori del paradiso, nel cielo del Sole.
Riguardo a Gioacchino da Fiore, le ultime ricerche hanno documentato i rapporti diretti e continui da lui intrattenuti con i pontefici romani e con i principali ordini religiosi del tempo: esse verrebbero, perciò, a fornire una spiegazione plausibile della sua presenza nel paradiso, dove sarebbe elogiato da Dante in quanto noto esegeta delle Scritture e fondatore dell’ordine florense riconosciuto dalla Chiesa. Ma rimane sempre problematico dare una valutazione circa un possibile rapporto dell’elogio che Dante tesse dell’abate calabrese con la condanna inflitta a Gioacchino dal concilio Lateranense IV (1215), a proposito di una sua opera in cui censurava la dottrina trinitaria di Pietro Lombardo, opera a noi non pervenuta e di cui l’autore non parla negli scritti a noi noti.
Per quanto concerne Sigieri di Brabante, la questione ancora passibile di discussione riguarda il suo rapporto con Tommaso d’Aquino: nel Paradiso, è Tommaso che presenta Sigieri a Dante come colui che sillogizzò «invidiosi veri». Sul problema che tale presentazione crea sono individuabili due linee interpretative: secondo la prima, Sigieri avrebbe mutato il proprio pensiero, da eterodosso a ortodosso, dall’averroismo a un certo tomismo. Questa interpretazione, portata avanti soprattutto da Van Steenberghen, e confermata dal ritrovamento delle Quaestiones super librum de causis , consentirebbe di pensare che Dante abbia voluto riconoscere il ruolo di Tommaso nella formazione del pensiero di Sigieri e nel suo riavvicinamento all’ortodossia. Un’interpretazione del genere evidenzia un grande rispetto di Dante per Tommaso, pur senza, per questo, arrivare a pensarlo come un “tomista”; tuttavia, essa pone implicitamente una grande sproporzione tra la figura di Tommaso e quella di Sigieri, che sarebbe degna di essere ricordata solo perché all'ombra del grande domenicano.
La seconda interpretazione si fonda, invece, dall’assunto che Sigieri era di per sé un grande filosofo, elogiato, perciò, da Dante proprio per il suo grande valore. Nardi, Gilson e, recentemente, Dronke hanno sostenuto che l’elogio dantesco non avrebbe senso, se inteso come “celebrazione di un preteso tomismo”, e che proprio l'evidente somiglianza del rapporto Tommaso-Sigieri con quello Bonaventura-Gioacchino da Fiore confermerebbe il fatto che Dante non intende svelare dei pentimenti (non si può certo dire che Gioacchino abbia cambiato opinione avvicinandosi a Bonaventura). In entrambi i casi, piuttosto, Dante fonderebbe il gioco poetico sulle opposizioni; Bonaventura e Tommaso riconoscono il valore di coloro che hanno combattuto in vita: se hanno commesso qualche ingiustizia, davanti a Dante sono ora chiamati a riconoscerla. Perciò, anche se rimane aperta la questione della dottrina contenuta nelle Quaestiones super librum de causis (si tratta di un’opera disomogenea, di difficile lettura, ricca di elementi spesso contraddittori, che Dronke non esclude sia di carattere compilativo), non sarebbe tale opera la base della terzina dantesca.
Questa seconda linea è confermata dalla nuova edizione critica delle Quaestiones in Metaphysicam , dove Sigieri appare caratterizzato da autentica e pregevole indole filosofica, oltre che da autonomia e originalità di pensiero. Gli stessi scritti sull’anima intellettiva, se letti con attenzione, svelano in realtà un Sigieri consapevole del proprio compito filosofico e impegnato in prima persona a definire lo statuto dell’anima intellettiva; sia nelle Quaestiores in tertium de anima, sia nel De anima intellectiva, Sigieri mostra consapevolezza delle difficoltà della propria impostazione e fonda gli eventuali mutamenti di posizione sul proprio sforzo teoretico personale, piuttosto che sulle pressioni altrui .
Il peso dell’opera di Tommaso nella formazione del pensiero di Sigieri è evidente. La fondazione metafisica della dottrina sulle sostanze intellettive è identica nei due maestri, anche letteralmente; ma altrettanto evidente il confronto critico, intelligente, costante, che Sigieri ha intrapreso nei confronti dell’Aquinate. È, perciò, probabile che Dante abbia voluto sublimare e mettere in versi questa opposizione, ossia il gioco dialettico che costituisce, in fondo, il cuore della filosofia vera, lodando con ciò la filosofia in quanto tale. Artista, Sigieri rappresentava un “filosofo di professione” che ha svolto il proprio mestiere con grande impegno; il teologo Tommaso riconosceva alla filosofia una propria legittimità: Tommaso e Sigieri si sono confrontati da filosofi. La perspicacia e l’intelligenza di Sigieri sono la causa sia delle disgrazie (incompreso, infatti, subisce un processo inquisitorio che gli lasciava poche speranze), sia del fatto che Sigieri «silogizzò invidiosi veri»: “invidiosi”, perché mettevano in luce un pensatore genuino, la cui filosofia conteneva delle verità irrinunciabili. Apprezzando la teoresi di Sigieri, Dante mostra quindi di aver apprezzato quella maniera di indagine della realtà compiuta con la ragione che noi chiamiamo “filosofia”.