Dati bibliografici
Autore: Pompeo Giannantonio
Tratto da: Dante e l'allegorismo
Editore: Olschki, Firenze
Anno: 1969
Pagine: 229-273
Una lettura della Comedia, dopo quanto s’è detto, va condotta, in accordo con queste nostre chiarificazioni storico-culturali, senza prescindere da quella che era la condizione medievale del suo autore; ecco perché l’allegoria non può confinarsi nel surrettizio e nell’impoetico dell’opera dantesca. L’allegoria nel Medioevo, e più particolarmente nella mente di Dante, infatti, non aveva un'origine intenzionale e criptografica, ma viceversa s’inseriva nella sfera del reale e permeava la spiritualità, tanto che linguaggio e fantasia si dispiegavano con i segni inconfondibili della sua presenza. L’allegoria, secondo questa prospettiva, era insediata nelle cose e negli esseri, nei fenomeni e nei pensieri, nella natura e nell’universo con l’ambivalenza del suo significato, che ubbidiva a quell’esigenza di ricondurre tutto a Dio, primo motore del visibile e dell’invisibile. Il linguaggio era, quindi, sostanziato di questa duplice visione delle cose e le sue evocazioni ridestavano molteplici immagini e plurimi valori, di cui nessuno allora sospettava l’estraneità nell’ambito semantico o riconosceva l'illegittimità della procedura.
La polisemia, di cui si discorre nell’Epistola a Cangrande, risponde appunto a questa esigenza intellettuale e non può non trasferirsi all’intero poema dantesco, poiché questo, accanto al senso letterale ed istoriale, racchiude anche quello allegorico e morale e anagogico. Tale diverso senso non si origina dall’esterno o da una riflessione successiva, come nelle canzoni allegoriche per la Filosofia, ma si immedesima nella lettera e si dispiega nel canto con ‘una simultaneità di ispirazione e di valori. D'altra parte, la stessa vicenda umana del poeta, errante ed espiante, si innalza a funzione di exemplum dell’umanità che pecca e si redime con una commistione perfino sintattica, per cui fin dall’inizio nell’universale cammino di tutti (il cammin di mostra vita) si trova di colpo ad operate la singola persona del poeta (mi ritrovai, vale a dire io solo). Si viene a stabilire apparentemente un doppio piano, per cui la stessa lingua finisce con l'essere contagiata; ma in realtà l’individuo e la collettività s'intrecciano ed operano congiuntamente senza che l’uno obliteri l’altra, mentre la storia del singolo si proietta nella visione universale di tutti. Così il senso letterale ed istoriale congloba il senso allegorico come accade nell’esegesi biblica, ove gli eventi certi e reali del popolo ebraico non escludono il valore sacrale, né rifiutano la verità divina che in quegli eventi si rivela .
Nel poema la persona che opera, il soggetto d’azione, l’agens, è lo stesso scrittore, ecco perché erroneamente i commentatori trecenteschi finivano con lo scambiare l’agens con l’auctor, il quale ultimo, viceversa, è il soggetto del fare poetico; Dante, dunque, trasferisce le proprie passioni e le proprie vicende nel protagonista, che, tuttavia, simboleggia l'umanità; così come parimenti Virgilio e Beatrice sono, nel contempo, personaggi di un’esperienza vissuta e simboli di ragione e di Rivelazione. Anche l’assunto dell’opera si distende in questa medesima dicotomia, poiché letteralmente esso è la descrizione dei tre regni oltremondani (lo «status animarum post mortem»); ma allegoricamente è l’uomo che può meritare castigo o premio secondo come usufruisce del libero arbitrio nelle sue azioni: «homo, ed anche queste sono parole dell’Epistola a Cangrande, prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem est iustitie premiandi et puniendi obnoxius». Infatti i due sensi s'intrecciano, s’intersecano, si confondono fino a costituire un tutto omogeneo, senza distinzioni o contrapposizioni, con un procedimento assai diverso da quello impiegato di consueto nelle opere allegoriche medievali e nei precedenti tentativi dello stesso poeta in questa direzione. Siamo, come si vede, in un’area assai distante da quella della tradizione, ecco perché occorre un differente metodo di lettura, che, nel contempo, sappia cogliere il valore istoriale e il significato allegorico dell’episodio così come se ci si trovasse dinanzi ad una pagina della Bibbia. Non si tratta, quindi, di aggredire il poema dantesco con una preliminare formula di interpretazione allegorica che riesca ad evocare per ogni episodio, per ogni verso e per ogni parola un simbolo od un’allusione meramente concettuale; ma, viceversa, occorre saper cogliere simultaneamente il valore istoriale e allegorico del dettato poetico.
La trama narrativa, quindi, del poema dantesco non è una «bella menzogna», di cui bisogna scoprire l'intento ascoso oltre il «velame registra simultaneamente gli eventi e il loro significato simbolico, così come avviene per la Bibbia e per la discesa di Enea agli inferi, narrataci da Virgilio. Queste due opere, infatti, includono, nella loro orditura narrativa, secondo la dottrina dantesca, un valore allegorico, anzi la rivelazione della verità consustanziale ai fatti medesimi. L’allegoria, in questa nuova prospettiva, non soffoca e distrugge la poesia, ma fiorisce con essa e non lascia spazio ai meccanismi didascalici o alle sovrastrutture intellettualistiche. Quindi «forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus» ci ammonisce lo stesso poeta (Ep. XIII, 27), per la qual cosa, secondo queste indicazioni, la «forma» del poema può dispiegarsi in tante tonalità, che vanno dall’invenzione alla descrizione poetica, dalla digressione teorica all’esemplificazione morale, dalla dottrina alla politica, dalla satira all’epica, senza che la poesia venga sacrificata o si diversifichi da essa.
La continua compresenza, nel linguaggio dantesco, di realtà e fantasia e la spontanea commutazione di fatti veri in figurazioni simboliche ci dimostrano la fallacia di quelle asserzioni, che vogliono intendere l’allegoria diversa ed eteroclita alla poesia. In fondo si tratta di ricreare quel clima intellettuale nel quale operò l’Alighieri e questa storicizzazione ci permette appunto di restaurare il genuino valore del suo linguaggio, che includeva nello stesso tempo vari sensi ed era perciò disponibile per evocare simultaneamente immagini reali e immagini allegoriche. Non siamo quindi in un mondo irreale e meta-storico, in cui l’astrazione finisce con il soffocare la realtà, ma siamo, per converso, saldamente ancorati ai tempi e alla cultura del poeta. D’altra patte lo stesso Benedetto Croce, che avviò con tanta autorevolezza, nell'età moderna, il discorso sulla distinzione tra fantasia ed allegoria, riconobbe, a proposito della Commedia, che «il poema è realtà, in senso medievale, realtà perché è verità, tutto reale, la terzina, la visione del carro, la mistica dei numeri, le sfere dei pianeti, senza il distacco tra realtà e allegoria al quale i moderni sono adusati» . Questa proposizione del Croce sembrerebbe completamente critica e quindi contraddittoria in rapporto alla sua posizione sul dibattuto problema dell’allegoria; ma un'attenta analisi del suo pensiero e della genesi ad esso relativa ci permette d’intendere meglio il valore e il metodo della sua affermazione.
Una selva di proposte critiche, fondate, in gran parte, su questioni marginali, esterne ed allotrie dominava il campo delle esegesi dantesche alla fine del secolo scorso e nel primo ventennio del nostro, mentre l’allegorismo, in modo specifico, offriva ai retori pedanti non poca materia di contesa, né piccolo margine di complicate esercitazioni, con il risultato di rendere sempre meno intelligibile la poesia di Dante. L’intervento crociano sortì l’effetto, nel sesto centenario della morte del poeta, di ricondurre alla chiarezza e alla sua essenza il problema, sgombrando il terreno dalle inutili e spesso dannose disquisizioni esegetiche. L'impostazione crociana, volta a distinguere, nel divino poema, la struttura dalla poesia non solo riassumeva, anche se non interamente, in una felice sintesi il pensiero critico del filosofo su Dante, ma metteva a nudo, con una certa compiacenza polemica, le precedenti deviazioni interpretative. D’altra parte lo stesso titolo dell’opera, La poesia di Dante, sembrava sottolineare polemicamente il rilievo che l’autore dava alla poesia in contrapposizione alla struttura del poema; mentre la netta distinzione, che egli proponeva, fra i due elementi nella lettura della Commedia accentuava il suo distacco dalla critica contemporanea e si veniva a porre «come un aculeo o uno stimolo entro la critica dantesca» . Di conseguenza i successivi interpreti non potranno prescindere da queste premesse chiare nella formulazione e rigorose nel metodo.
Il Croce, infatti, era pervenuto alla formulazione della sua tesi non per caso o per spirito polemico, ma attraverso una lunga e responsabile milizia letteraria, che va dalla Letteratura della nuova Italia (1904-1914) ai saggi su Shakespeare e su Goethe . Furono anzi quest’ultimi studi, e segnatamente quello sul Faust, entro la cui struttura si inseriscono diverse e distinte unità poetiche, a suggerirgli per il poema dantesco la più rilevante proposta di differenziazione tra romanzo teologico o struttura e poesia . Questa tesi, nella sua semplice enunciazione, non solo fruiva di una sicura riflessione critica, ma anche di una solida speculazione teorica che andava dall’Estetica (1903) alla Logica (1909), dalla Filosofia della pratica (1909) alla Teoria e storia della storiografia (1917), per il che si veniva a stabilire una tale connessione tra indagine e dottrina che l’intervento crociano assumeva sempre più, col tempo, un’autorevole e forte preminenza nell’esegesi dantesca. Esula dal nostro assunto rifare la storia della polemica che si sviluppò intorno alla posizione esegetica del Croce , ma non possiamo non sottolineare il suo vigore nell’ambito della critica dantesca e la sua incisività nel più vasto panorama dell’estetica, poiché tale formula investiva, con il poema sacro, ogni testo poetico, per il quale indicava un metodo di lettura ed offriva un metro di valutazione .
Strettamente collegato con il problema della struttura è l’altro dell’allegoria, che il Croce, in perfetta coerenza con il suo enunciato, poneva fuori della poesia; ma, come s'è accennato all’inizio, il tema ci impone un discorso di analisi e di chiarificazione, anche perché lo stesso pensatore, conscio dell’importanza che tale questione rivestiva nell’economia del suo sistema e sollecitato dalle maggiori opposizioni che la sua soluzione incontrava presso i dantisti, intervenne più volte sull’argomento.
Il Croce pone tra le interpretazioni allotrie della poesia di Dante, ossia tra quelle analisi che mirano ad intendere non la poesia, ma la filosofia, la cultura, la politica, la religione, l’etica, la cronologia e discipline simili del mondo dantesco, anche e principalmente l’allegoria, che il pensatore classifica tra l’opus praticum in quanto è «una sorta di criptografia». Quindi l’allegoria non può essere una metafora semplice o continuata, non può essere un’immagine svolta nelle sue parti né un simbolo insediato nel cuore dell’espressione. Il Croce, perciò, esclude, nel modo più netto, che l’allegoria possa generarsi insieme alla poesia e coesistere con essa, perché chi vuole servirsene o adopera la parola solo come segno per significare verità, eventi e immagini estrapoetiche, oppure mira a creare figure discordanti ed impoetiche di allusioni e di miti che soffocano l’ispirazione e non permettono in alcun caso la nascita della poesia. Da questa dilemmatica situazione, secondo il Croce, non si sfugge e perciò «tertium non datur» in quanto un diverso caso «in cui si abbia bensì allegoria ma tradotta compiutamente in immagini, e tale che non rimanga fuori della poesia come nel primo caso e non la distrugga o impedisca come nel secondo, ma cooperi con essa e in essa, si dimostra apertamente contraddittorio, perché, se l’allegoria c’è, essa è sempre, per definizione, fuori e contro la poesia, e se invece è davvero dentro la poesia, fusa ed identificata con lei, vuol dire che allegoria non c'è, ma unicamente immagine poetica, la quale, ben s'intende, non si restringe mai a cosa materiale e finita, ed ha sempre valore spirituale e infinito» . Questa affermazione crociana era destinata, nella sua apparente assiomaticità, a porre fine ad una secolare discussione su un problema di cui non si poteva negare l'evidenza e che non si poteva collocare astoricamente fuori della cultura e della coscienza di Dante, perché questi ne teorizzò i modi e credette nella sua validità. Ma la discussione riprese con maggiore vigore, e con più concretezza, proprio sulla genesi e sul valore dell’allegoria, che inveterate abitudini didattiche ed esegetiche avevano sempre considerato come una sorta di dottrina iniziatica, riservata all'intelligenza di pochi e valenti interpreti. Il Croce, perciò, ritornò più volte sull’argomento chiarendo e circostanziando il proprio pensiero.
I numerosi interventi crociani non fecero, comunque, che ribadire l’estraneità dell’allegoria alla poesia, poiché quella è «un atto pratico, una forma di scrittura (perché la scrittura è cosa pratica), una criptografia, non diversa nell’intrinseco da ogni criptografia, se anche si faccia, invece che con lettere o con numeri, con immagini parlate o figurate», ecco perché «ove manchi l’interpretazione autentica o la dichiarazione espressa da parte dei loro autori, ove manchi un ben fissato. sistema criptografico con relativa chiave, decifrare le opere allegoriche è impresa affatto disperata, perpetuamente congetturale e, tutt’al più, capace solo di aspirare a qualche maggiore o minore grado di probabilità» . Su questo piano non si può che essere consenzienti con il Croce, il quale, identificando l’allegoria con il processo meramente congetturale di una costruzione «ante» o «post poesin» se non «contra poesin», finiva, a ragione, con l’assegnare ad essa un senso «superadditus» e quindi una funzione di enigma da decifrare, un mistero da svelare. Le obiezioni quindi che gli si muovevano in questo ambito potevano essere facilmente controbattute dal Croce, le cui argomentazioni chiare e logiche non venivano neppure scalfite dalle fragili repliche degli oppositori, che denunziavano insofferenza più che raziocinio.
La via da imboccare, ovviamente, era un’altra e lo stesso Croce, inavvertitamente, sembrò indicarla, quando, nello stesso saggio, tentò di tracciare una brevissima storia dell’allegoria, ponendo in rilievo come l’ύπόνιοα servisse nell’antichità a salvare Omero dalle intemperanze iconoclastiche dei detrattori e come per analogia nel Medioevo, con lo stesso metodo esegetico, si conciliò il Cristianesimo con gli scrittori pagani. Ma la ricostruzione di questo itinerario dello spirito umano doveva essere condotta con maggiore estensione e migliore documentazione appunto per seguire, con vera consapevolezza nel suo diagramma cronologico e spirituale, un suggestivo atteggia- mento dell’uomo e quindi intenderne le variazioni e le componenti. Questo, in fondo, ci siamo noi proposti di fare non solo per indagare su una precisa corrente dell'umano pensiero, ma anche e più di tutto per vedere fino a che punto questa tradizione abbia condizionato la stessa civiltà medievale. Non v'è dubbio, infatti, che «l’allegoria medievale, seppur nata da questo bisogno pratico di moralizzare gli scrittori pagani e catechizzare la storia, divenne nella civiltà d’allora un metodo intellettuale e una situazione dello spirito; non rimase, vale a dire, una mera escogitazione di eruditi, ma discese nelle vene dell'intelligenza e ne colorò e condizionò ogni esperienza, anche quella di tipo psicologico e sentimentale» . Quindi una storicizzazione del problema ci porta a risultati assai diversi da quelli che la consuetudine mentale e la sensibilità moderna solevano farci accettare.
Occorre, come si diceva dianzi, citando proprio un pensiero del Croce, che non si operi, nella nostra esegesi, «distacco tra realtà e allegoria», tra mondo medievale e sua trasfigurazione fantastica, tra senso istoriale e senso allegorico. Non siamo autorizzati, perciò, a rinunziare a tutte quelle componenti della spiritualità medievale solo perché non abbiamo attitudine ad intenderla o volontà di ricrearcela con assiduo e paziente impegno. Il Croce, certo, non era privo di sensibilità storica, né amava addentrarsi in selve inospitali o ignote senza una cosciente ed adeguata preparazione propedeutica, per la qual cosa è difficile sostenere che egli non abbia compiutamente valutato la dimensione umana e culturale di Dante. Non gli potevano quindi fare difetto le prospettive storiche, però non condusse alle sue logiche conseguenze quella pur da lui teorizzata necessità di non disgiungere dalla realtà medievale l’allegoria. Proprio questa sua chiara premessa doveva indurlo ad una maggiore e più cauta riflessione sul valore dell’allegoria medievale e dantesca assai diversa da quella greca, a cui pure amava richiamarsi con una certa frequenza. Infatti, in polemica con il Gentile, ribadiva: «Gli spiegai che l’allegoria ‘non è una forma di espressione’, e rifeci la storia delle teorie rettoriche e dell’ermeneutica allegorica, dai Greci a noi, per mostrargli che essa è, invece, una forma d’interpretazione produttiva, ossia di parola inserita su parola, di scrittura su scrittura, e, prima che fosse detta allegoria, si chiamava ύπόνιοα» . A parte il valore differente dei due termini, di cui noi abbiamo già discorso in questo volume (Cap. I, § 16), e la loro diversa incidenza nel mondo greco, l’allegorismo biblico-medievale aveva altra area di influenza e una diversa genesi intellettuale e spirituale. Non si partiva più dall’esterno per moralizzare un’opera, come pure allora si usava per gli autori pagani, che necessariamente bisognava ricondurre nella sfera provvidenziale; ma si pensava e si creava con una visione allegorizzante del mondo cosmico e della vita transeunte. L’allegoria si generava quindi simultaneamente tanto con la lettera, che aveva sempre un’inscindibile ambivalenza, quanto con la poesia che esprimeva questi sentimenti. Tale processo, che a noi moderni sembra per lo meno ardito, era congeniale all’uomo medievale, che vedeva la realtà nella duplice veste di immanenza e di trascendenza con continui e inestricabili rapporti tra le due sfere cosmiche.
Non si può, d’altra parte, neppure far ricadere l’allegoria dantesca sotto i segni di una «figura», l’inversio di cui discorre Quintiliano, perché la sua genesi si ridurrebbe ad un artificio, ad un espediente meramente retorico, avulso, quindi, dalla coscienza medievale e dall’educazione intellettuale dell’Alighieri. Ci troveremmo in questo caso evidentemente alla presenza di una criptografia che soffocherebbe e forse meglio distruggerebbe la poesia. La retorica e gli espedienti moralizzanti degli apologisti greci e cristiani offrirono solo il terreno adatto su cui si poté trapiantare la nuova sensibilità medievale, costituirono l’antefatto di un processo intellettuale, posero le premesse per un'evoluzione dello spirito umano verso forme di diversa intelligenza e di altro sentire. Solo, quindi, una preliminare conoscenza della spiritualità medievale, da cui la nostra età è tanto aliena, ci può consentire un’autentica lettura del poema dantesco e una fedele adesione ai suoi motivi genetici e ai suoi temi poetici.
L’allegoria, nei termini da noi indicati, non rientra nel mondo intenzionale del poeta, ma è linfa ed anima del suo mondo fantastico; l’espressione, di conseguenza, ubbidisce a questa visione medievale dell’universo. Proprio questa realtà medievale veniva trascurata dal Croce, che non si sentiva di accogliere queste parole di Rudolf Palgen, che ci sembrano, viceversa, assai equilibrate e pertinenti: «Bisogna perciò richiedere dal lettore della Divina Commedia che anzitutto si renda familiari le linee fondamentali dell’edificio medievale e viva dentro questa figurazione grandiosamente conclusa in sé, ma a noi pet ogni verso estranea. Nessuna penetrazione individuale, per acuta che sia, può tener luogo di questo atto di preparazione» . A. questo opportuno richiamo del critico tedesco, che aveva appunto scritto un saggio sull’astronomia e l’astrologia di Dante, il Croce contrapponeva che «per intendere il poema di Dante non bisogna già attaccarsi alla sua astronomia ma alla sua poesia, e che le notizie dell’astronomia medievale servono solo a farci intrigare in talune difficoltà estrinseche a quella, e che presto in quella sommergiamo e dimentichiamo, e dobbiamo sommergerle e dimenticarle affatto» . Indubbiamente l’astronomia e l’astrologia sono estrinseche alla poesia dantesca, però l’allegoria è nella stessa poesia e non si può in questo caso «mettere da parte» l’età medievale e l’età moderna dopo averle «ben guardate in faccia » ed essersele rese «familiari» allo scopo «di presentate lui, lui solo, Dante, in quella eterna modernità che è l’eterna giovinezza della poesia» , perché il Medioevo è in Dante e medievali sono la sua ispirazione, la sua fantasia, la sua arte. Quindi solo una diversa valutazione e una lettura del poema che prescinda dall’età in cui esso fu generato possono originare quel «malinteso che dura per tutta l’età moderna intorno a questa poesia di Dante che è tutta medievale e simbolica» . E il Croce, a nostro avviso, non tenendo nel debito conto queste esigenze, che affondavano le loro radici proprio nella civiltà culturale e nella coscienza del Medioevo, pervenne all’incerta conclusione che l’allegoria fosse «allotria» alla poesia, di cui, viceversa, era anima e forza.
Il Croce giunse a queste risultanze in quanto considerò sempre l’allegoria sovrapposta ed estrinseca all'opera d’arte. Sul piano teorico la formulazione crociana è ineccepibile, poiché l’allegoria, in senso lato, è superraddita ed esterna alla poesia; ma l’allegoria medievale, di cui si discorre, vive intrinsecamente nell’opera d’arte e palpita della stessa vita della poesia, poiché, come s'è osservato, l’uomo in quell’età contemplava la realtà sempre come immagine o rappresentazione del divino e tutto gli si squadernava innanzi allo sguardo in un’ambivalenza prospettica. Ecco perché questa precisa definizione dell’allegoria, fatta dal Croce, è valida in linea generale, ma non è trasferibile nell’età medievale: «L’allegoria, scrive egli infatti, è l’unione estrinseca, ossia l’accostamento convenzionale e arbitrario, di due fatti spirituali, di un concetto o pensiero e di una immagine, pel quale si pone che questa immagine debba rappresentare quel concetto» . Ciò è vero se intendiamo l’allegoria sempre in quell’ambito di sovrastruttura moralizzante e catechizzante di un’opera; se ci rifacciamo, cioè, a quella tradizione esegetica, che volle riscattare la poesia d’Omero o volle avvicinare a Cristo il mondo pagano, oppure analizziamo poemi espressamente allegorizzanti; ma altro deve essere il nostro discorso per il Medioevo, in modo particolare per Dante, che ha saputo fondere in unità l’apparente dualismo di poesia e di allegoria. D’altra parte lo stesso Croce ammetteva, in anni più maturi, a proposito del Faust del Goethe e della Commedia di Dante, che queste sono «due opere in cui i diversi elementi ora si intrecciano ed ora si staccano ed ora contrastano fra loro e che, nondimeno, sono tra le più grandiose che lo spirito umano abbia prodotte. Intorno alle quali è sorto, fra gli interpreti, il cosiddetto problema dell’’unità’, se questa sia da riporsi in uno o in altro elemento o nella sintesi di tutti essi; e, per l’indicata loro genesi, era affatto naturale che sorgesse, ma altrettanto è naturale che, posto in questi termini, dovesse dimostrarsi insolubile. E sarebbe ben posto e di conseguenza risoluto, se, tenendo presente quella genesi e richiamandosi al concetto di ciò che è poesia e di ciò che non è poesia, si fosse nell’una e nell’altra opera distinta la struttura dalla poesia: con la sola avvertenza che la struttura, per quegli spiriti così energici, non solo poeticamente ma anche intellettualmente e moralmente, non era la trama indifferente che si è vista in altri poeti unicamente poeti, ma era parte vitale dell'anima loro, e distinta e congiunta insieme alla poesia, che ne traeva nutrimento, in unità non già statica ma dialettica. Né può essere indifferente a noi per intendere la loro anima e neppure per intendere la fisionomia della loro poesia» . Il Croce, quindi, anche per la «struttura» dantesca, nella quale inglobava ovviamente l’allegoria, apriva, successivamente, un varco nel quale faceva confluire la poesia, che, sia pure con certe riserve ed eccezionalmente per l’Alighieri ed il Goethe, si andava a confondere con essa.
D’altra parte, in una delle sue ultime « schede » (marzo 1952), il Croce sembra, ormai, completamente disposto ad accogliere, nell’area della poesia, anche le parti didascaliche di un’opera, in quanto, a proposito di una lettura dell’ultimo canto del Paradiso fatta da Mario Fubini, che osservava come i «momenti didascalici in una poesia sono intimamente connessi alla poesia, e non possono essere disgiunti da quelli poetici se si vuole intenderli», egli si dichiarava «perfettamente dello stesso avviso», poiché «il venite riducendo a frammenti una poesia è niente altro che il rilievo che si dà ai momenti puramente poetici su quelli didascalici, oratori, affettivi o altri che siano: ma tutti, se il poeta è anche un valente artista, formano un’unità che è impossibile spezzare» .
Il Croce, dunque, negli ultimi anni della sua fervida attività, ammetteva che la poesia e la struttura non sono fra di loro contrarie o contrapposte, ma che anzi ambedue si stemperano in un’indissolubile unità artistica. C'è quindi ora nel Croce rifiuto netto ad una lettura episodica e frammentaria del poema dantesco, come i suoi precedenti scritti pure autorizzavano a dedurre, e un riscatto delle parti dottrinali o «allotrie» della Commedia in nome di quella visione unitaria, che non può disgiungersi da un’opera di «un valente artista» come è appunto Dante. In questo stadio conclusivo e completo del proprio pensiero il critico certamente non si sarebbe più sentito di concordare, come un tempo , con il noto verso carducciano «Muor Giove e l’inno del poeta resta», che denunzia l’avversità del poeta maremmano per la medievalità del poeta fiorentino.
Una puntuale lettura dell’opera del Croce, dunque, ci porta a conoscere la vera essenza del suo pensiero, alla cui formulazione non furono estranee polemiche e confutazioni, che caricavano in quel momento, necessariamente, di asprezza e di assiomaticità il suo linguaggio. Lo sforzo del critico era principalmente diretto, per quanto riguarda Dante, a correggere le aporie desanctisiane e ottocentesche, a respingere certa erudizione, a ricondurre sul terreno della concretezza questioni male o inutilmente poste; ecco perché alcuni scritti posteriori sembrano contrastare con precedenti affermazioni, che, viceversa, trovavano, nel tempo, solo una migliore e più definita connotazione. Così, per quanto riguarda l’allegoria, è vero che il Croce negò ad essa il diritto di cittadinanza nell’ambito della poesia, ma egli alludeva all’allegoria intesa «come un atto pratico», «una criptografia» . A questa specie di enigmistica, intorno alla quale si andavano affannando fantasiosi cultori di mistagogia, non possiamo non essere onestamente contrari, perché questi scambiavano il poema dantesco per una cabala su cui si possa impunemente esercitare il mestiere dell’indovino più che l’acume del critico. Contro questi enigmisti o allegoristi si appuntavano, a mio avviso, gli strali del filosofo abruzzese, il quale non poteva negate che vi possa essere, dentro il variare della mente umana, il momento dell’espressione simbolica o allegorizzante.
Il Croce, in effetti, riconobbe il valore determinante, nell’esegesi dantesca, dell’explanatio verborum ossia «il senso preciso di talune parole, il contenuto morale, filosofico, e, in genere, storico, che in esse vibra» , per la qual cosa occorre ricercare nelle parole dantesche i modi espressivi propri del Medioevo, che erano appunto ambivalenti. D’altra parte sempre su questa via d’esegesi e d’intelligenza della poesia il Croce riconobbe la necessità della metafora che è «la stessa della poesia con la quale s’identifica a pieno». Quindi se l’allegoria è una «metafora continuata» non la si può escludere dalla sfera poetica, anzi a proposito di questa figura il pensatore chiariva: «Errato è il suo nome: metafora ’traslazione ’, quasi essa si componga di due termini e trasferisca l’uno all’altro: per es., l’animato all’inanimato o l’inanimato all’animato. La poesia canta sempre il mondo nella sua unità, il ritmo universale delle cose; ed essa ignora le distinzioni di spirito e corpo, di animato ed inanimato, e tutte le altre intellettive; e siamo noi che a mente fredda, adoprando talune legittime o illegittime distinzioni e classificazioni, spezziamo e falsifichiamo la metafora in termini distinti o di ordini distinti, di cui uno sarebbe trasferito all’altro impartendogli un nuovo battesimo» . L’allegoria, appunto, secondo l’accezione medievale e dantesca, abbraccia nella sua incarnazione lirica il reale e il figurato, l’animato e l’inanimato e ripete, nel ritmo universale della poesia, una sensibilità estranea alla nostra coscienza di uomini tanto diversi da quelli dell'età di mezzo.
L’allegoria esercita, quindi, una sicura incidenza nell’opera e nella poesia di Dante, pertanto è necessario verificarne la presenza e determinarne il valore. L’Alighieri, come s'è già ricordato nel capitolo precedente, aveva affrontato il problema anche in sede teoretica e aveva distinto dall’allegoria dei poeti quella dei teologi , volendo, implicitamente, creare tra queste due sfere dell’umano sapere una netta distinzione e quindi una precisa separazione. Ecco perché non si può, a proposito della Commedia, prescindere da quanto lo stesso autore ebbe a dichiarare, né non vedere l’opera alla luce di quella prospettiva esegetica.
Giovanni del Virgilio nel porre in rilievo, nel suo noto epitaffio, che Dante era stato «theologus nullius dogmatis expers» oltre che «gloria Musarum vulgo gratissimus auctor», volle segnalare l’importanza della cultura teologica nel poeta volgare. Ma questa cultura non deve essere intesa come vera e propria scienza di Dio e della fede, come l’esatta accezione del termine ci porterebbe a credere, bensì come la leibniziana teodicea che tratta razionalmente dell’esistenza e degli attributi di Dio. Restiamo, così, sempre nell’area di quella cultura filosofica che il poeta volle approfondire «ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti» , per circa trenta mesi, nella sua matura età. Di questa scienza filosofica ci resta la sicura testimonianza del Convivio, che nei trattati secondo, terzo e quarto ne volgarizza le varie dottrine, per cui ci vien fatto di credere che anche gli altri undici trattati non scritti avrebbero dovuto proseguite su questa via, senza quindi volgersi alla teologia. Tuttavia, l'abbandono del primitivo disegno di portate a termine l’opera eminentemente filosofica e il proposito di comporre la Commedia non possono indurci a credere che l’autore volesse alla filosofia contrapporre la teologia, poiché il poema di teologale non ha né lo spirito né la materia. Senza dubbio egli si propose di ammaestrare gli uomini e di intendere il mistero cosmico, ma tutto ciò rientra aristotelicamente nel dominio dell’etica e dell’umano pensiero, quindi non si vede come la teologia possa prevalere nell’opera. D’altra parte proprio Aristotele aveva insegnato, nel primo libro della Metafisica, che la meraviglia dinanzi al mistero dell’universo aveva spinto gli uomini a filosofare è san Tommaso, riprendendo il concetto, aveva parlato, per le medesime circostanze, di «philosophus philomythes» e di «poéta theologizans» . Quindi l’attributo di teologo, che si assegnava a Dante, aveva pari valore di quello di «divino», rivolto al poema e passato anzi nel titolo, in quanto ambedue più che ai contenuti dogmatici, dottrinali e religiosi dell’opera alludevano all’ispirazione, alla genesi, alla funzione rivelatrice di verità, ascosa sotto le spoglie fabulose della poesia.
La proposizione aristotelica, però, del poeta teologizzante o del poeta-teologo fu ripresa e discussa negli ultimi due libri della Genealogia deorum gentilium da Giovanni Boccaccio e fu poi da lui applicata a Dante, che aveva «ripristinato la vera funzione della poesia, che è rivelazione di verità storiche e di simulacri metafisici» . Il Battaglia ha rifatto con molto acume la storia di questa categoria intellettuale dalle sue origini platoniche fino al restauro operato dal Boccaccio, dimostrando come «l’assunzione della ispirazione poetica sul piano della dottrina teologica implica inevitabilmente la lettura allegorica» . D’altra parte l’antichità e il Medioevo suggerivano questo atteggiamento spirituale che, come s'è detto, trovava conforto in una secolare tradizione esegetica. Mediatori tra la cultura classica e quella cristiana erano stati in vario modo san Paolo e sant’Agostino; ma quest’ultimo, in verità, aveva ben saputo sviluppare, unitamente ad Origene, il pensiero dell’Apostolo che esortava a vedere nella Scrittura «per speculum in aenigmate» . Sant'Agostino aveva posto l’accento sull’interpretazione allegorica dei fatti, voluta da san Paolo, e quindi sul valore caratterizzante di tale esegesi, che si distaccava dalla mera esercitazione retorica: «Ubi allegoriam nominavit, Apostolus non in verbis eam reperit, sed in facto» . L’allegoria di fatti («in facto» o «allegoria facti») realmente accaduti è l’esegesi praticata dal mondo cristiano , che vedeva negli eventi umani un simbolo della divina provvidenza ed era quindi officiata a scioglierne l’enigma.
L’esegeta cristiano, quindi, è abilitato a cogliere il valore enigmatico della Scrittura e capirne perciò il senso spirituale: «Spiritualiter intelligere debemus. Post historiae veritatem, spiritualiter accipienda sunt omnia» , ammonisce san Girolamo e tutti i Padri seguiranno questa metodologia, la cui genesi è nello stesso insegnamento paolino. Di questa «intelligentia spiritualis» a lungo discuterà nel De doctrina christiana (III, V-VIII, 9-12) sant'Agostino rapportandola alla «libertas christiana», da cui egli fa nascere l’uomo libero, l’uomo nuovo, predicato da Gesù. Si viene quindi a stabilire, nella dottrina patristica e poi nella tradizione, un’equivalenza tra allegoria e senso spirituale o intelligenza spirituale, tanto che san Gregorio, il migliore interprete del pensiero agostiniano, con una precisa proposizione, che sarà poi riecheggiata in tutta l’età di mezzo, riassumerà questo aspetto del pensiero cristiano: «Liber sacri eloquii intus scriptus est per allegoriam, foris per historiam; intus per spiritalem intellectum, foris autem per sensum litterae simplicem» . In tal modo si riconosceva al senso letterale o istoriale della Scrittura un interiore valore allegorico, che poteva essere inteso solo dall’intelligenza spirituale.
È bene ricordare che gli esegeti cristiani adoperavano il termine «allegoria» secondo l’accezione paolina di «intelligenza spirituale», poiché, come dice san Giovanni Crisostomo, l’Apostolo si servì del vecchio termine pagano per dargli un senso nuovo, ϰαταχρήστιϰωϛ vale a dire «praeter usum», ben determinato: «Hoc autem vult significare: haec historia non hoc solum declarat quod apparet, verum et alia quaedam praedicat; unde et allegoria dicta est» . Tanto il mondo greco, comunque, quanto quello latino, tanto Origene quanto Tertulliano intesero allo stesso modo l’invito paolino e san Girolamo spiegò come l’Apostolo utilizzando un termine pagano avesse voluto in- dicare quello che in altri suoi scritti chiama «intelligenza spirituale» . Sia sant'Agostino, sia Rabano Mauro e Aimone di Auxerre, si soffermarono, poi, sull’origine retorica del termine, al quale riconobbero una funzione di tropo, che tuttavia con l’Apostolo aveva ampliato e trasformato la propria atea di significati .
Con lo slittamento del concetto di allegoria dal primitivo significato di figura retotica a quello spirituale non solo si veniva ad usufruire di tutta una secolare tradizione, mistico-filosofica, di cui s’è discorso, ma si perveniva alle soglie della nuova fede cristiana e quindi alla presenza del mistero divino di cui essa era depositaria; «Fides habeatur in veritate historiae et spiritalis intelligentia capiatur de mysteriis allegoriae» dirà infatti san Gregorio. Ma, a ben vedere, la proposizione gregoriana contiene anche il termine «mysterium», che con i sinonimi «sacrum», «arcanum» e «initium» divenne presso i Padri allotropo di «sactamentum», con cui i cristiani amavano distinguersi almeno nella terminologia dai pagani. Tuttavia, questa distinzione non fu rigida e tali vocaboli furono usati dagli scrittori cristiani, per lo più, come sinonimi, venendosi, quindi, ad assorbire nel concetto di allegoria oltre quello di spiritualità anche l’altro di mistero o di sacramentalità . Infatti Origene, nella traduzione di Rufino, adoperava insieme i tre vocaboli fondendoli nell’unico concetto di intelligenza soprasensibile: «Ascendere ad spiritualis intelligentiae mysticum et allegoricum sensum» . Per questa via l’esegeta veniva abilitato ad entrare nel mistero per scoprire e rivelarne i «divina signa», e conoscere, di conseguenza, la scienza sacra.
Ma questo processo ermeneutico, non si dimentichi, si accendeva proprio sulla lettera scritturale, che aveva nella veridicità storica il suo punto di forza e la sua validità: «Littera est factum, quod sancta narrat historia», dirà infatti Giovanni Scoto a suggello di una lunga tradizione di pensiero sull’argomento. La divina rivela- zione, quindi, non solo è collocabile nel tempo, ma è essa stessa una verità storica: «Haec omnia temporaliter atque realiter iste populus adeptus est» ; ecco perché essa è una testimonianza incontrovertibile ed inoppugnabile, in cui può riporsi tranquillamente la nostra fede di credenti con un perfetto parallelismo, che un’espressione di Aimone d’Auxerre sa ben rendere: «Omnia quae facta sunt illis in figura nobis eveniunt in veritate» . Deve, perciò, riscontrarsi nella nostra esegesi biblica un naturale passaggio dalla lettera all’allegoria, dalla storia alla fede per penetrare nel divino mistero: «Mos est prophetiae ab historia incipere interdum, sed inde transire ad mysterium» . Tuttavia non sempre i fatti narrati dalla Bibbia erano edificanti, quindi sorgeva un certo imbarazzo per la loro «storica» lettura. Così, a proposito dell’adulterio di David, non si poteva nascondere una certa difficoltà esegetica che san Giovanni Crisostomo, con un opportuno richiamo alla sapienza divina, risolve con il trionfo del dato storico: «Se lo Spirito Santo, infatti, egli scrive, non ha visto alcuna vergogna nel ricordare simili storie, molto meno noi abbiamo motivo di nasconderle» . Rispetto quindi della verità e non fuga dinanzi a vicende anche scabrose e fosche.
A questo punto conta rilevare come l’allegoria biblica non sia stata per i cristiani, come era stata per i moralisti pagani, una rivalutazione di vergognosi miti, né un mezzo per togliere dall’imbarazzo i fedeli , né «un velo per coprirne l’indecenza» , poiché essa veniva contenuta sempre nell’alveo della storia e quindi nel rispetto della verità. Viceversa l’allegoria pagana era fuori della storia e per conseguenza il testo su cui si esercitava non era veritiero, perché in esso si accoglieva «un discorso mendace che esprime la verità in immagine» , come dicevano Teone d’Alessandria ed altri. Quindi le allegorie pagana e cristiana, pur servendosi di alcuni analoghi procedimenti, pur influenzandosi vicendevolmente nelle procedure e conservando fra di loro una notevole ed innegabile dipendenza, si differenziano sostanzialmente nei metodi, poiché diversa è la dottrina, altra è l’ispirazione che le guida.
La Scrittura, per il suo carattere profetico ed allegorico, non poteva non essere oscura: «Allegoriarum obscuritates, caligines, umbrae, tenebrae» come diceva san Gregorio, a cui faceva eco Ruperto: a «Occulta scientia in propheticis atque legalibus scripturis» ribadendo il concetto di oscurità, proprio della profezia e dell’allegoria. Ma questo stato di cose ci deve sospingere a cercare il mistero che s’asconde dietro il fatto: «Factum audivimus: mysterium requiramus» ; anzi l’oscurità quasi ci provoca a cercare la verità: «Altior sensus provocat nos» , proprio in adempimento del precetto paolino: «Docuit enim nos Apostolus sanctus in simplicitate historiae secretum quaerere veritatis» . L’oscurità, dunque, accresceva il valore misterioso ispirato dell’esegesi, per la quale sempre più occorrevano ingegno e cultura.
Tutti questi motivi esegetici, teorizzati e discussi nel Medioevo, mentre autorizzavano una lettura per simboli ed allegorie della Bibbia, riflettevano anche la diffusa mentalità di quell’età, che vedeva nei fatti umani una proiezione del trascendente. Questi temi, già da noi ampiamente dibattuti nei capitoli precedenti, sono stati qui riassunti con altre testimonianze, però, per date un’idea più immediata del modo di vedere e di pensare dell’età di mezzo. Senza dubbio questo clima culturale influiva anche sulle opere allora nascenti e i loro autori erano compartecipi di questa situazione psicologico-culturale. A questo mondo guardava appunto il Boccaccio quando attribuì a Dante, massimo autore del tempo, il titolo di poeta-teologo, poiché solo un’esegesi tropologica, fondata sul senso letterale del suo dettato, può farci intendere la Commedia. Non ci sono dubbi, infatti, che nel poema dantesco concorrano tutti quei motivi che erano alla base dell’estetica medievale e al concetto di poesia formulato, sulla sua traccia, dal Boccaccio nella Genealogia.
Giovanni Boccaccio, in polemica con i denigratori della poesia, ne aveva ribadito la forza ispiratrice e la vocazione di dire, in forma velata ed eccellente, grandi verità: «Huius enim fervoris sunt sublimes effectus, ut puta mentem in desiderium dicendi compellere, peregrinas et inauditas inventiones excogitare, meditatas ordine certo componere, ornare compositum inusitato quodam verborum atque sen- tentiarum contextu, velamento fabuloso atque decenti veritatem contegere» . Queste proposizioni riecheggiavano nozioni platoniche, giunte, attraverso Cicerone, fino a Giovanni del Virgilio, Albertino Mussato e Francesco Petrarca, diretti predecessori del Boccaccio; ma ad esse soleva attribuirsi la paternità di Aristotele, la cui autorità era allora fuori discussione. Il Boccaccio, quindi, ricollegandosi, per il restauro del concetto di poeta ispirato dalla divinità, ad una tradizione secolare, si rifaceva, nel contempo, anche all’estetica medievale nel riconoscere alla poesia il compito di esporre la verità sotto il velo della metafora. San Tommaso aveva, infatti, affermato: «Poeta utitur metaphoris propter repraesentationem: reprtaesentatio enim natutaliter homini delectabilis est. Sed sacra docttina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem» . In queste formule medievali dell’arte si ritrovano tutti i concetti dell’esegesi biblica ed è facile, perciò, anche su questo sfondo culturale, collocare la figura del poeta-teologo e far coincidere le due attività dello spirito; «la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio» , dirà infatti il Boccaccio con una felice sintesi espressiva.
Questo concetto del poeta teologo, nella nozione del Boccaccio, richiamava la visione cosmica dell’origine del mondo, che scaturì dal nulla, e ricordava quindi l’accensione dell’ingenua fantasia dell’uomo primitivo, che il Vico rievocherà in pagine di rara efficacia poetica. Questa indicazione, che il Certaldese faceva sulla scorta aristotelica , colorava di mistero e illuminava di solennità la figura di Dante, al quale egli successivamente avrebbe ricondotto la propria cognizione della poesia . Nella stima del Boccaccio, però, non rientrava, per quanto riguarda Dante, l’esaltazione del poeta primitivo o l’evocatore di civiltà disperse, perché il Medioevo, vale a dire la propria età, non poteva significare per il Boccaccio inizio di un nuovo ciclo storico né un mondo scomparso. Dante, come poeta teologo, nella concezione del Boccaccio, doveva, quindi, significare cantore di uomini ed evocatore di eventi, vate civile e profeta religioso, autore di allegorie ed esaltatore di verità. Tutti questi attributi, d’altra parte, rientravano in quell’attività poetica, rivelatrice di significati arcani, che lo stesso autore ha cura di determinarci quando, parlando delle visioni profetiche e delle figurazioni bibliche, sostiene che nella loro imitazione «con ogni atte s’ingegnarono di seguitare i poeti, quelle cose che essi estimavano più degne sotto favoloso parlare nascondendo, acciò che, dove carissime sono, non divenissero vili ad ogni uomo aperte lasciandole» . L’accento del Boccaccio è, quindi, posto sul valore allegorico della poesia, alla quale ama rapportare la Scrittura per una comune consonanza simbolica e mistica. Tanto la Scrittura, infatti, quanto la poesia si fondano sulla pluralità dei significati e mentre la prima si affida alle figure la seconda si avvale delle finzioni per esprimere verità: «Potete vedere [...] una medesima cosa avere diversi sensi e diverse esposizioni; il che, come delle figure del Vecchio Testamento adiviene, così similmente adiviene delle finzioni poetiche, le quali significano quando una cosa e quando un’altra» . Quindi il poema dantesco si fonda sulla «fictio poetica», poiché il «furor divinus» avrebbe, come risultato, il disdegno degli argomenti umani per l’assunzione dell’opera e del suo autore nell’Empireo. Questa sottrazione del poema al dominio umano poteva fare la felicità dei neoplatonici ed infatti Marsilio Ficino, Cristoforo Landino ed altri umanisti la caldeggiarono, ma contrasta con la migliore tradizione esegetica, filologica e razionale della nostra cultura. Infatti la categoria del poeta-teologo, secondo l’accezione boccaccesca da noi esposta, si riferiva all’ispirazione mistico-allegorica della Commedia, alla facoltà di rivelare le verità e all’attitudine a scandagliare l’umano destino nella visione cosmica dell’universo.
Ma l’allegoria della Divina Commedia appartiene all’allegoria dei poeti o a quella dei teologi? Da quanto abbiamo scritto nelle pagine precedenti, per noi, ovviamente, la più logica è la prima soluzione, nella quale si assommano tutti quei motivi artistico-culturali dell’Alighieri e della sua età. Non c’è dubbio che il poeta si sia servito di un linguaggio fittizio e sia ricorso ad una finzione per intessere la trama del suo itinerario ultraterreno coerentemente con il suo pensiero, di cui s'è fatto cenno nel terzo capitolo di questo volume. Quindi l’allegoria della Commedia si accende su «le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti» entro le quali si può cogliere quella «veritade ascosa sotto bella menzogna» , come nell’episodio ovidiano di Orfeo che rabbonisce le fiere trascinandosi dietro anche alberi e pietre.
Questa attribuzione del significato fittizio alla lettera del poema, escludendo il termine opposto di senso istoriale, proprio della Scrittura, finisce con l’estendere a tutta l’opera il valore di favola, violentando gli intenti e le dichiarazioni dello stesso autore. Ma un'attenta analisi della dottrina e dell’estetica del tempo ci consente di superare anche questa notevole difficoltà nel contesto logico del nostro discorso. Dante, nel ricondurre la propria opera nell’ambito di una «fictio poetica», se da una parte la sottraeva all’imperio dei teologi dall’altra le assegnava quella vitalità fantastica, cui aspira ogni opera poetica. D'altra parte, l’esegesi teologica non solo estende ai quattro sensi scritturali l'indagine, ma svilisce il valore della lettera fino al punto da ritenerla superflua. Dante, infatti, aveva fatto uso, nel commento alle proprie canzoni, come s’è già osservato, del senso allegorico e letterale, proprio dei grammatici, ignorando quello tropologico ed anagogico, proprio dei teologi; quindi il poema deve mantenersi in questa sfera esegetica, se si vogliono rispettare le sue indicazioni. Inoltre come poeta,
«il nome che più dura e più onora»
(Purg., XXI, 85)
poiché, ovviamente, faceva conto della propria atte «quia omnis qui versificatur suos versus exornare debet in quantum potest» , non poteva accettare, per la propria opera, la completa svalutazione della lettera, in quanto i teologi miravano solo al senso spirituale e non alla validità stilistica. A questo proposito si potrebbe citare tutta una letteratura, che prende l’avvio da san Paolo, il quale aveva affermato che «littera enim occidit, spititus autem vivificat», esortando perciò a trascurare il dettato scritturale per il significato spirituale del testo: «Serviamus in novitate spiritus, et non in vetustate litterae» . I Padri, quindi, e gli scrittori cristiani dell'età di mezzo, nonostante la reazione dei Vittorini, di cui s'è discorso, concordemente svilirono il valore della lettera fino al punto da affermare che la sapienza era da rinvenitsi solo nel senso e non nella perizia stilistica: «Unde patet eam sectandam esse sapientiam, quae non est in foliis et flore verborum, sed in medullis et fructibus sensuum» . Quindi Dante, anche come poeta, amante del «bello stilo», da cui ebbe tanto «onore», non poteva preferire per la sua opera l’allegoria dei teologi.
Il teologo, nell’economia della propria analisi, giunge quasi a ritenere «inutile» la lettera nella ricerca escatologica, poiché, secondo una celebre espressione di sant’Ireneo, «per typica ad vera» , al cristiano importava la ricerca della verità innanzi tutto, negandosi, perciò, alla parola una propria funzione autonoma e caratterizzante. Ecco perché la poesia, nella stima di san Tommaso, veniva collocata all’ultimo posto delle scienze: «Procedere autem per similitudines varias et repraesentationes, est proprium Poeticae, quae est infima inter omnes doctrinas» . Tutto ciò contrasta con il pensiero di Dante e con un suo chiaro postulato che riconosce preminenza assoluta alla lettera, poiché se «la litterale sentenza sempre è subietto e materia de l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l’altre che a la sua» . Preminenza quindi della lettera nell’esegesi, come primo stadio d’indagine, ma anche suo valore assoluto in ogni pagina di poesia, come perizia stilistica ed espressione fantastica.
Alla fabula o fictio poetica sono da ricondurre le altre definizioni che vogliono vedere nella Comedia una visione, una profezia o una rivelazione, altrimenti si finiscono con l’attribuite a Dante ingenue esaltazioni che lo inducono a credere di essere effettivamente un profeta, invasato da mistiche allucinazioni o sconvolto da divini preannunzi. Senza dubbio l’autore ha inteso riprodurre nella sua opera la forma profetizzante, comune a tanti scritti del suo tempo, ma nulla ci induce a ritenere che egli abbia realmente creduto di essere un novello Enea o un altro Paolo, baciato dalla Grazia per svelare agli uomini i segreti oltremondani o per preparare l’epifania del Veltro, del «messo di Dio», che verrà a reintegrare la pace e la giustizia nel mondo, secondo un noto detto evangelico: «Patate viam Domini, rectas facite semitas eius» (Matt. III, 3). Egli, in completa consonanza con la cultura biblico-misticheggiante del suo tempo e con le indicazioni del proprio patrimonio classico, presenta la Commedia come documento di alto impegno morale e come sublime messaggio di rinascita spirituale per conferire valore di verità al dettato ed innalzare la trama ad esemplarità pedagogica; però non può, né vuole far credere che egli sia umile trascrittore della parola divina, perché egli non subisce passivamente, ma crea e plasma a suo piacimento la materia della propria fantasia, rifacendo «semplicemente il tono profetico e apocalittico e, così, oggettivando l’allegorizzare» . Quindi della sua opera non «Spiritus Sanctus est auctor, homo vero instrumentum» ; ma l’autore è lui, lui solo con le sue passioni e i suoi affanni, i suoi odi e le sue vendette, la sua forza e la sua fragilità di uomo, di poeta e di credente.
In questa concezione, che da una vigorosa immaginazione attinge la propria forza creatrice e da una tormentata autobiografia la propria validità pedagogica, s’innesta la storicità dell’opera, che non solo narra fatti realmente accaduti, ma finge di ritenere vero il pellegrinaggio oltremondano del poeta . Ma non abbiamo ricordato, nel capitolo precedente, che l’uomo medievale amava proiettare la propria vicenda biografica su uno sfondo di provvidenziale favore e narrarla come esempio paradigmatico per gli altri credenti? Dante, perciò, come sant'Agostino, descrive i propri traviamenti e la propria redenzione in un contesto di verità storiche e filosofiche, dottrinali ed etiche, teologali e religiose tra uomini reali e palpitanti pur nella diversa forma di vita ultraterrena. E questo racconto si snoda nell’evocazione di eventi terreni o celesti, di uomini veri o fittizi, di condizioni possibili o irreali, sempre sotto il segno della veridicità storica e della fede cristiana. Il senso istoriale, perciò, dell’esegesi biblica e quello letterale dei grammatici trovano conforto e corrispondenza nella verità dei fatti e nell’altezza della poesia.
Nelle figure di Virgilio e di Beatrice, in modo particolare, si possono sperimentare queste impostazioni esegetiche, perché tanto l’uno quanto l’altra partecipano della loro vita di simbolo e della loro realtà terrena nell'ampio tessuto narrativo della Commedia. Virgilio, poi, rivive quella solidarietà di cultura classico-medievale sempre presente nell'opera dantesca. Infatti il poeta latino oltre ad impersonare l’idea imperiale di Roma, di cui fu il più insigne cantore, convogliava sul suo nome tutta una tradizione allegorica, che si esercitò, con tanta eco e indubbio profitto, sulla sua opera. Fulgenzio, come s’è detto, iniziò, nel sesto secolo, la lettura tropologica ed etica dell’Eneide, pertanto i dodici libri del poema simboleggiano le dodici poste della vita umana e le disavventure di Enea raffigurano le vicende liete e tristi dell’itinerario umano. Il protagonista del poema, quindi, diveniva, secondo gli schemi mentali del Medioevo, un paradigma della vita morale e la stessa trama favolosa dell’opera veniva acquisita, su questa via, all’atea cristiana.
A questa suggestione esegetica, che trovava alimento nelle interpretazioni virgiliane di Donato, Servio e Macrobio, non seppero sottrarsi, come era ovvio, gli studiosi medievali e si giunse, elaborando questi temi, fino al XII secolo, età che ci riconduce alla spiritualità dantesca, quando Bernardo Silvestre utilizzando il metodo e le idee dei suoi predecessori, in modo particolare di Fulgenzio, si propose con il suo Commentarium super sex libros Eneidos un «genus demonstrationis, come egli stesso dirà, sub fabulosa nattatione veritatis involvens intellectum», di modo che volle illustrare il libro «secundum integumentum» . Si comprenderà, quindi, come Virgilio divenisse pet Dante maestro di stile, guida oltremondana e poeta esemplare.
Non alla sola stima etico-tropologica, che del poeta latino faceva il Medioevo, è affidata la genesi del Virgilio dantesco, ma anche a tutti gli altri stimoli culturali e poetici del tempo e dell’autore. Il senso istoriale dell’esegesi biblica, infatti, trova rispondenza nella realtà del personaggio, che autentica, nella sua presenza, contemporaneamente una propria vicenda autobiografica e una tradizione di pensiero medievale. Le prime parole che il poeta cristiano pone sulle labbra di quello pagano sono una precisa identificazione di luoghi e di uomini, che fanno da sfondo ad una sicura individualità storica:
«Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi
mantoani per patria ambedui.
Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia
poi che ’l superbo Ilion fu combusto».
(Inf., I, 67-75)
La risposta ammirativa ed amorosa di Dante, da una parte consolida il valore istoriale del poeta latino:
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume
[…]
O de li altri poeti onore e lume»;
(Ivi, 79-80, 82)
dall’altra accentua i caratteri istoriali della propria vicenda autobiografica:
«Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore».
(Ivi, 86-88)
Ma l’individuazione «storica» del poeta latino e la «storicizzazione» dell’umana temperie del poeta volgare si intrecciano con i motivi medievali dell’auctoritas:
«Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore»
della poesia correlata alla sapienza:
«O de li altri poeti onore e lume»
[…]
«aiutami da lei, famoso saggio»
(Ivi, 85, 82, 89)
e dell’esemplarità di Enea e della sua provvidenziale discesa agl’Inferi:
quel giusto
figliuol d’Anchise
(Ivi, 74-5)
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono.
(Inf., II, 31-2)
Del concetto di autorità a lungo si è discusso, nel primo capitolo di questo volume; della nozione medievale di sapienza, insita nel poeta, c'è tutta una letteratura che da Servio a Donato, da sant'Agostino a Lattanzio e a Fulgenzio s’incentra nella saggezza virgiliana e nella previdenza cristiana della IV Ecloga con indubbi echi in un passo dantesco . Ma la vicenda d’Enea da un lato, come voleva Fulgenzio, con il quale concorderà anche Cristoforo Landino nel Quattrocento, raffigurava l'itinerario dell’anima e dall’altro anticipava un’analoga esperienza di Dante, che, come l’eroe troiano, andrà nel regno dei morti pet riceverne norme di vita civile o, come san Paolo, per sublimarsi in Dio . Una continua alternanza di moduli classici e di temi biblici, di indicazioni umane e di verità divine s’insinua quindi nel personaggio virgiliano, ricreando quella pluralità di motivi, che presiedono alla genesi del poema.
La condizione ultraterrena di Virgilio non soffoca, però, la sua qualifica umana e la sua realtà storica; infatti, questa compartecipazione del personaggio all’una e all’altra sfera cosmica viene continuamente rievocata con chiare indicazioni, ragion per cui al
Poeta fui, e cantai...
corrisponde contrapponendosi la presente vita extracorporea:
non omo, omo già fui.
La vicenda terrena del poeta si proietta, quindi, nel suo destino eterno, come conclusione e inveramento di una sapienza che tende naturalmente ad innalzarsi fino a Dio . Il senso letterale, così non viene violentato in favore di quello istoriale, né questo in favore di quello. L’ambivalenza perciò verbale e storica coesiste in uno stesso contesto poetico, così come mondo classico e verità cristiana si fondono in un personaggio che si diparte dal paganesimo e si attesta sulle soglie del Paradiso terrestre. Non è nostro proposito seguire l’itinerario virgiliano nella Commedia, per rilevarne i motivi che si riannodano a questi temi esegetici; ma l’incontro del poeta latino con Sor- dello e poi con Stazio ci fanno rivivere, nell’esaltazione di Virgilio, fatto dal primo e dal secondo, il debito di gratitudine che la civiltà poetica occitanica, a mezzo di Sordello, e latina, a mezzo di Stazio, debbono al cantore di Enea. Ma Dante già aveva riconosciuto a Virgilio il merito del suo magistero artistico sulla sua poesia volgare, per la qual cosa la civiltà italiana, provenzale e latina nel riconoscersi in Virgilio ritrovano la loro comune origine, che segnava, in ultima analisi, un aspetto ed una fase della formazione e dell’esperienza autobiografica di Dante.
Nella lettera, come abbiamo sempre sostenuto nel corso del presente lavoro, si cela il simbolo e Virgilio, nel secondo canto del poema, si colora di allusioni etico-politiche e si carica di suggestioni mistico-profetiche, confermando, sul piano inventivo, la sua genesi sacrale e sapienziale . Non ci lasceremo sedurre, anche noi, dall'idea di voler, comunque, trovare una spiegazione e dare un nome alla figura simbolica di Virgilio, perché, qualunque cosa egli voglia rappresentare, non viene violentato in favore di quello istoriale, né questo in favore di quello. L’ambivalenza perciò verbale e storica coesiste in uno stesso ‘contesto poetico, così come mondo classico e verità cristiana si fon- dono in un personaggio che si diparte dal paganesimo e si attesta sulle soglie del Paradiso terrestre. Non è nostro proposito seguire l’itinerario virgiliano nella Commedia, per rilevarne i motivi che si riannodano a questi temi esegetici; ma l’incontro del poeta latino con Sor- dello e poi con Stazio ci fanno rivivere, nell’esaltazione di Virgilio, fatto dal primo e dal secondo, il debito di gratitudine che la civiltà poetica occitanica, a mezzo di Sordello, e latina, a mezzo di Stazio, debbono al cantore di Enea. Ma Dante già aveva riconosciuto a Virgilio il merito del suo magistero artistico sulla sua poesia volgare, per la qual cosa la civiltà italiana, provenzale e latina nel riconoscersi in Virgilio ritrovano la loro comune origine, che segnava, in ultima analisi, un aspetto ed una fase della formazione e dell’esperienza autobiografica di Dante.
Nella lettera, come abbiamo sempre sostenuto nel corso del presente lavoro, si cela il simbolo e Virgilio, nel secondo canto del poema, si colora di allusioni etico-politiche e si carica di suggestioni mistico-profetiche, confermando, sul piano inventivo, la sua genesi sacrale e sapienziale . Non ci lasceremo sedurre, anche noi, dall'idea di voler, comunque, trovare una spiegazione e dare un nome alla figura simbolica di Virgilio, perché, qualunque cosa egli voglia rappresentare, certamente continua a vivere in perfetta simbiosi con la vita umana quella allegorica. Così, nel motivo dominante del «cammino alto e silvestro» si riversano tutti quei temi religiosi, umani, storici, morali e poetici, dei quali abbiamo discusso . Ma la poesia dantesca vuol presentarci il vero Virgilio, cantore di Enea e guida solerte, oppure il simbolo della sapienza che per divina sollecitudine conduce l’anima espiante a fruire della pienezza santificante di Dio? Né l’uno, né l’altro se presi singolarmente, ma ambedue se congiunti nell’ambivalenza letterale-allegorica del dettato dantesco, in cui significato e significante vicendevolmente si pungolano e si congiungono.
Virgilio, poi, veniva ad impersonare tanta parte della vicenda personale dell’Alighieri, la sua formazione culturale, il suo ideale di poesia, il suo modo di pensare, il suo metodo di ricerca, di modo che egli viene a correlare così, tra realtà e fantasia, il proprio destino umano, una parte della propria stotia, tanto che Graziolo de’ Bambaglioli ebbe a scrivere: «Notes huiusmodi verbis, lector, quod iam ipse Virgilius, hec ipsa contemplatio rationis, operabatur medium eumdem auctorem, et animam intellectualem ipsius, solutam ex vitiorum etrore, ad occupanda celestia disponebat [...]. Ex verbis istis adhuc plenis notari potest qualiter inveniebat ipse auctor in se ipso viam vere cognitionis et spiritus» . Questa assimilazione di Virgilio nella figura del protagonista viene a fondere storia e poesia, realtà e simbolo, lettera ed allegoria in un’unitaria espressione poetica, nella quale occorre, perciò, saper cogliere sempre e simultaneamente il suo valore istoriale, la sua validità letterale e la sua struttura di «exemplum» medievale.
Il poema dantesco, lo ripetiamo, non può imprigionarsi in schemi rigidi ed uniformi, poiché la molteplicità dei suoi motivi e la complessità della sua ispirazione creano una varietà di toni e di temi. Ecco, quindi, la necessità di porci dinanzi alla sua pagina senza formule precostituite o metodologie credute infallibili. Così non possiamo leggere, con criteri esegetici, identici a quelli ora esperiti, e con tutte le conseguenti implicazioni, altre parti del poema, che includono, nella loro trama narrativa, fatti veri dall’immediato valore simbolico o semplici notazioni descrittive . Anche l’allegoria si distende in una vasta gamma di significati e diversamente si ritrova nei singoli punti del poema, poiché la sua presenza non è mai oppressiva e lascia larga autonomia all'invenzione poetica. Infatti di altro tono è l’allegoria dell’episodio che ci accingiamo ad esaminare, anche se si inserisce nell’economia generale del poema con pari impegno di rivelazione, che fissa nel transeunte l'eterno e il trascendente.
Dante avanzando nella terza cornice del Purgatorio, ove espiano le proprie colpe gli iracondi, viene investito da una fitta, amara e sozza nube di fumo, che gli impedisce di vedere, gli toglie «l’aer puro» e quindi la stessa possibilità di respirare. Tutti gli interpreti del Divino Poema individuano subito nel «fummo» il simbolo dell’ira e richiamano, con riferimento d’obbligo, «l’accidioso fummo» della palude Stigia. Ma questa iniziale e quasi ovvia annotazione non viene adeguatamente e completamente condotta, con un discorso logico e consequenziale, fino a comprendere tutta l’economia e la mitografia dell'intera cornice, per il che ci viene fatto di sorprendere contraddizioni, incoerenze e, peggio, oscurità nel dettato dantesco. Infatti la densità e l’asprezza del fumo, la cecità del poeta, l’individuazione di un uomo che col proprio corpo fende il fumo quando era impossibile vedere e quindi poter distinguere «l’albor che per lo fummo raia», l’immagine della talpa non possono essere spiegati solo come fenomeni fisici, poiché la conseguente interpretazione letterale ne risulta inadeguata e per nulla esauriente.
Come possiamo interpretare con il solo ausilio letterale i primi sette versi del canto XVI? Rileggiamoli:
Buio d’inferno, e di notte privata
D’ogni pianeta, sotto pover cielo,
Quant’esser può di nuvol tenebrata,
Non fece al viso mio sì grosso velo,
Come quel fummo ch’ivi ci coperse,
Né a sentir di così aspro pelo,
Che l’occhio stare aperto non sofferse.
Perché Dante insiste tanto su questo fumo che fa «grosso velo» alla vista e fa «sentir così aspro pelo» agli occhi? Come mai questo annebbiamento della vista diviene sofferenza fisica tanto accentuata che ricorre all’immagine di peli tanto aspri e pungenti quanto il fumo è fastidioso e acre, ma non mai setoloso cilicio in quanto è sempre impalpabile e incorporeo?
Perché, subito dopo, appoggiandosi alla spalla di Virgilio, avanza
Sì come cieco va dietro a sua guida
Per non smartirsi e per non dar di cozzo
In cosa che il molesti o forse ancida,
mentre il poeta latino lo esorta a stargli sempre vicino? Come fa Marco Lombardo a notare in quell’«aere amaro e sozzo» Dante che il loro «fummo fende» quando poco dopo egli stesso dice al poeta:
«e se veder fummo non lascia
L’udir ci terrà giunti in quella vece»?
Perché alla fine del canto il poeta mostra tanta fretta nel lasciare Marco Lombardo per andare incontro alla luce? E questa luce è quella del giorno, quella del sole o quella dell’angelo?
«Vedi l’albòr che per lo fummo raia
Già biancheggiare, e me convien partirmi,
L’angelo è ivi, prima ch’io li paia»
dice infatti Dante, e gli interpreti sono assai discordi nel dare un esatto significato a queste parole.
Perché, poi, per concludere la serie di questi nostri dubbi, al: l’inizio del XVII Dante ricorre al paragone della talpa per ribadire ulteriormente la fumosa oscurità, in cui si era venuto a trovare, nella terza cornice, quando già alla fine del canto precedente ci aveva fatto assistere alla totale riconquista della luce?
Ne consegue che per l’esatta intelligenza di questi passi danteschi occorre esperite muove vie, che, alla fine, risultano essere sempre quelle primigenie ed antiche dell’età di Dante, alla quale bisogna necessariamente rifarsi per non rischiare di compromettere l’intera e totale comprensione del Poema. Non si possono, perciò, trascurare tutti quei valori della civiltà medievale, sul cui terreno fiorì la poesia dell’Alighieri. Noi, nelle pagine che precedono, abbiamo tentato di richiamare i segni di questo mondo, smarrito dalla nostra sensibilità moderna, e abbiamo incentrato sull’allegorismo la nostra ricerca, proprio perché in esso crediamo che si celi la voce più autentica e la forma più caratterizzante di quella civiltà. Dante, d’altra parte, nell'impianto e nella creazione del suo poema, tenne presente e seguì quanto la tradizione intellettuale e la cultura medievale gli offrivano, sentendosi, nel contempo, continuatore e attore di quel ricco patrimonio spirituale.
Dante, nel Purgatorio, in modo particolare, procede ad un graduale ricupero della propria giovinezza, dell'innocenza, della poesia giovanile e quindi della cultura di quegli anni, finendo per «riassorbire gl’insegnamenti del Convivio, pur rinnegandone la presunzione fondamentale e allora ispiratrice: per un riappello alla Vita Nuova e alla sua facoltà intuitiva di presagio più che di scienza» . E la dottrina della sua età e dei suoi auctores, studiati con «intelletto d’amore» fin dagli anni della sua giovinezza, gli dicevano per bocca di Aristotele che «Ut fumus mordicans oculos non videre permittit quae pedibus adiacent, sic iracundia oboriens rationem offuscat et quae bona habitura mens fuerat a ratione, iis non sinit ipsam iracundia sine labore ac molestia potiri» . Questa immagine del fumo che morde gli occhi ed acceca presa da Aristotele a simbolo dell’ira, che offusca la ragione, colpì senza dubbio la sua fantasia e rivivrà nella sua mente quando dovrà trattare degli iracondi nel Purgatorio. D’altra parte tutta una letteratura classica, biblica, patristica e medievale si era formata sull’ira e in tutti, più o meno, ritornano immagini simili per cui, se ne avessimo vaghezza, potremmo mettere insieme ponderosi excerpta. D'altronde è noto che Seneca «morale» aveva dedicato all’ira, nel mondo romano, un trattato De ira, così come aveva fatto, nel mondo greco, e la cosa stranamente non è stata mai ricordata, Plutarco ; la Bibbia spesso parla di tale vizio e tutti gli scrittori pagani e cristiani , quest'ultimi in modo particolare, si soffermano a considerarne le origini, le manifestazioni e le conseguenze. A noi sono sufficienti pochi esempi per rilevare come il comune atteggiamento degli auctores sull'argomento si ritrovi nel pensiero dantesco; svelando quel sottofondo culturale e quella concordanza intellettuale di cui abbiamo parlato nel corso di questo nostro lavoro.
Aristotele, oltre la definizione dell’ira già riportata e alla quale i versi danteschi sono tanto prossimi, ne dà un’altra ancora, citata e commentata da quasi tutti i santi Padri: «Ut ira quid est? Hic enim appetitum recontristationis (άντιλυπήσεωϛ) aut aliquid huiusmodi; ille autem fervorem sanguinis aut calidi circa cor» . All’esplosione del sangue e al calore del cuore, eccitati dall’ira, la Bibbia aggiunge anche l’immagine dell’offuscamento degli occhi: «Conturbatus est in ira oculus meus» . Già in san Gregorio si nota una confluenza nel concetto dell’ira dell’eccitamento fisico e del turbamento morale: «Irae suae stimulus accensum cor palpitat, corpus tremit, lingua se praepedit, facies ignescit, exasperantur oculi, et nequaquam recognoscuntur noti: lingua quidem clamorem format, sed sensus quid loquatur ignorat» . E poco più innanzi nella medesima opera di san Gregorio i due momenti fisici e morali dell’ira tendono a confondersi in un unico concetto: «Unde mens turbatur, ne videat, inde proficit, ut ad videndum verius clarescat; sicut infirmanti oculo, cum collirium immittitur lux penitus negatur; sed inde eam post paululum veraciter tecipit, unde hanc ad tempus salubriter amittit» . Il Damasceno pone ancora l’accento sul turbamento fisico: «Ira est fervor eius qui circa cor est sanguinis, ex evaporatione fellis», mentre san Bonaventura include nel concetto dell’ira la perturbazione fisico-morale: «Ira secundum naturam est accensio sanguinis circa cor [...] ergo si hoc dicit passionem foedam, quae habet secum inquietationem et perturbationem coniunctam; videtur, quod talis passio in Christo non sit ponenda» . Ma allo stesso santo Padre dobbiamo la triplice ripartizione dell’ira, con cui si delimitano i termini della sfera fisica e morale del peccato: «Ira habet perturbationem et inquietationem annexam. Hoc autem potest esse in triplici differentia: quia aut perturbatio illa solum tangit potentias inferiores et nullo modo tangit oculum mentis; aut tangit oculum mentis ad tempus turbando, sed non excaecando; aut oculum mentis attingit ipsum perturbando et obnubilando» . Tutte queste interpretazioni dottrinali dell’ira sono presenti in san Tommaso, la cui autorità per Dante è indiscussa e quindi determinante ai fini delle proprie idee e della propria dottrina. San Tommaso dunque così formula il concetto del turbamento fisico causato dall’ira: «Quia motus irae non est per modum retractionis, cui proportionatur frigus, sed magis per modum insecutionis, cui proportionatur calor; consequenter fit motus irae causativus cujusdam fervoris sanguinis et spirituum circa cor, quod est instrumentum passionum animae. Et exinde est quod propter magnam perturbationem cordis, quae est in ira, maxime apparent in iratis indicia quaedam in exterioribus membris» . Questo turbamento fisico si comunica rapidamente alla lingua e alle membra: «Augmentum irae quandoque est usque ad impediendum rationem a cohibitione linguae; quandoque autem ultra procedit, usque ad impediendum motum linguae et aliorum membrorum exteriorum» ; quindi causa prima la paralisi delle membra e poi la morte: «Perturbatio cordis quandoque potest sperabundare usque ad hoc, quod per inordinatum motum cordis impediatur motus extetiorum membrorum. Et tunc causatur taciturnitas, et immobilitas exteriorum membrorum: et quandoque etiam mots» . San Tommaso, infine, accomuna ai danni fisici, causati dall’ira, quelli morali, come conseguenza di questa violenta passione: «Ira maxime facit perturbationem corporalem circa cor, it ut etiam usque ad exteriora membra derivetur. Unde ira inter caeteras passiones manifestius impedit judicium rationis» . Siamo venuti ad accertare dunque, attraverso un rapido ma significativo esame di testi, dei quali abbiamo riportato le voci più caratteristiche, che la dottrina medievale indicava nel fuzzo il simbolo dell’ira, la quale non solo genera uno sconvolgimento fisico ma anche, e questo occorre sottolinearlo, causa nell'uomo la perdita della ragione; quindi l’ira trova la sua corrispondenza simbolica nel fumo e questo la sua corrispondenza allegorica nell’accecamento della ragione. Questo accertamento dottrinario ci permette ora di operare un restauro esegetico del dettato e del pensieto dantesco, quale si è venuto configurando nella terza cornice.
Il Purgatorio fonda la sua struttura morale sulla libera attività dell'amore naturale, che si traduce in noi come «partecipazione creata dell'amore che Dio ha per se stesso in virtù della propria perfezione» . Il Purgatorio, quindi, risulta essere il regno di quell’amore umano «dove Dio è amato nella bontà delle sue creature, pet l’idea divina che ciascuna di esse realizza e per la glotia che ciascuna di esse è chiamata a dare a Dio» . L'ira, espiata nella terza cornice, viene prodotta appunto, secondo Dante, dal disordine di questo amore naturale, quindi l’uomo, quando lo indirizza eccessivamente verso se stesso, si sottrae al bene comune della società in perfetto accordo col precetto tomistico. «Quando homo patitur detrimentum amatae excellentiae propter injuriam illatam, magis sentitur amor; et ideo ferventius cor mutatur ad removendum impedimentum tei amatae, ut sic fervor ipse amoris per itam crescat, et magis sentiatur. Et tamen fervor qui consequitur calorem, alia ratione pertinet ad amorem et ad iram. Nam fervor amoris est cum quadam dulcedine et lenitate; est enim in bonum amatum; et ideo assimilatut colori aetis et sanguinis, propter quod sanguinei sunt magis amativi; et dicitur quod cogit amare jecur, in quo fit quaedam generatio sanguinis. Fervor autem irae est cum amaritudine ad consumendum quia tendit ad punitionem contrarii; unde assimilatur calori ignis et cholerae» . Tutti questi motivi culturali sostanziano la seconda cantica, ove l’incessante travaglio mistico-dottrinario del poeta si placa nella raggiunta chiarificazione del proprio pensiero. «Nel Purgatorio, ben dice il Battaglia, trovano sviluppo e rilievo i concetti chiave della spiritualità cristiana, che Dante andava maturando e precisando da lungo tempo con appassionata e circospetta meditazione. Pur nell’esatta e stringata formulazione che essi ricevono dal linguaggio dantesco si sente trepidare l’animo di chi ha chiarificato il proprio pensiero dopo strenuo e arduo tirocinio speculativo, e soprattutto con l’impegno di verificare una verità metafisica, nell’esercizio della vita e del drammatico destino dell’uomo» . Simbolo, quindi, allegoria, dottrina, speculazione filosofica e verità teologica sono presenti con maggiore coerenza e migliore utilizzazione nel Purgatorio, per cui la sua lettura e la sua esegesi si debbono necessariamente condurre sempre al lume di quelle conquiste culturali del poeta.
Passiamo ora ad esaminare i controversi passi della terza cornice, dei quali abbiamo fatto cenno all’inizio, e verifichiamo la validità di queste nostre premesse nella loro migliore e più coerente interpretazione.
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
Verso di noi, come la notte oscuro,
Né da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse gli occhi e l’aer puro.
Si è concordi, come si è detto, nel riconoscere nel «fummo» il simbolo dell’ira, ma tale simbolo deve guidarci all’interpretazione allegorica dell'intero dettato dantesco. Infatti quel «fummo», ossia l’ira che assale come tetra notte il poeta, moralmente acceca, togliendo i lumi della ragione, e spiritualmente opprime l’anima privandola del vero, ossia dell’aer puro. Tutti i commentatori antichi, da Jacopo della Lana all’Ottimo , da Pietro di Dante a Francesco da Buti , dal Landino al Vellutello sono unanimi nell’assegnare ai versi citati tale interpretazione. L’Anonimo Fiorentino, più degli altri, ci sembra che colga con maggiore efficacia il valore dei versi danteschi in tutta la loro estensione con queste parole: «Qui comincia a toccare la disposizione del luogo dove si purgano gl’iracundiosi: e pollo nebuloso et oscuro e fumoso, a mostrare come l’ira offusca e dilucida lo ’ntelletto delli uomini che eglino non discernono né veggono verità, però che ‘ira impedit animum ne possit cernere verum’; e come scrive il Filosofo: ‘Ira est appetitus vindicte’. Questo ne tolse: ciò è perché l’aria era nebulosa fatta dall’ira, non poteono discernere l’aere puro; però che, com’è detto, l’ira impedisce l’animo, ond’egli non può discernere il vero» .
Con questa chiave esegetica siamo ora in grado di intendere anche i seguenti versi:
Buio d’inferno, e di notte privata
D’ogni pianeta, sotto pover cielo,
Quant’esser può di nuvol tenebrata,
Non fece al viso mio sì grosso velo,
Come quel fummo ch’ivi ci coperse,
Né a sentir di così aspro pelo;
Che l'occhio stare aperto non sofferse;
Onde la scorta mia saputa e fida
Mi s’accostò, e l’omero m’offerse.
Sì come cieco va dietro a sua guida
Per non smatrirsi, e per non dar di cozzo
In cosa che ’l molesti, o forse ancida;
M’andava io per l’aere amaro e sozzo,
Ascoltando il mio duca che diceva
Pur: — «Guarda che da me tu non sie mazzo».
Il fumo, ossia l’ira, che s’impadronì del poeta, più tetro del buio infernale, attraverso il quale pure aveva visto i dannati, e più nero di una notte senza pianeti in uno scampolo di cielo, nella quale notte sulla tetra pure era andato ramingando, quando l’ira di parte lo cacciò da Firenze, gli fece agli occhi grosso velo, che lo tormentava col suo «aspro pelo». Questo «fummo», che toglie agli occhi la luce, ossia, come vuole Pietro di Dante, «caecans nos in intellectu» , è un grosso velo perché, come dice il Landino, «nessun peccato induce tanta cecità di mente quanto l’ira» ed è «aspro pelo» perché, come intende Giovanni da Serravalle, «in se erat lesivus ad sentiendum, quia ledebat oculos propter sui obscuritatem et densitatem» . Diventa quindi, questo «fummo», velo di «aspro pelo», quasi un «cilicio di penitenza», come vuole il Cosmo , così come nella precedente cornice gli invidiosi erano «di vil cilicio coperti». Per questo «fummo nerissimo, chaligginoso, oschuro e ombroso» che come un cilicio tormentava la vista «l’occhio state aperto non sofferse», perché, al dir di Giovanni da Serravalle, «oculus intellectualis hominis irati non potest stare apertus; ymo quam cito homo ultra decentiam irascitur, subito obscuratur intellectus» . Il «fummo» dell’ira è denso e tormentoso; gli occhi dell’intelletto sono accecati e il poeta, per liberarsene, deve ricorrere a Virgilio perché, come vuole il Landino, «non può uscir Dante di tale fumo se non séguita Virgilio, perché il senso et l'appetito non può uscir dalla cecità dell’ira se non piglia per guida la ragione». Virgilio è «scorta saputa e fida», perché «due cose si ricercano in chi dà consiglio: prima doctrina e prudentia, per la quale sappia; di poi fede, per la quale voglia bene reggerci» . Virgilio, simbolo della ragione, porge a Dante l’omero, ossia, come vuole il Landino, «la fortezza» o, meglio, come vuole il Vellutello, «offerendoli l’homero, cioè sustentandolo e dandoli forza, vigor e virtù da sapersi e potersi difender e liberar da questo vitio» . Dante «come cieco va dietro a sua guida», ossia segue ciecamente i dettami della ragione per non perdersi né impigliarsi in un ostacolo che spiritualmente lo uccida. In tal modo, con la guida della ragione cioè, Dante riesce ad avanzare «per l’aere amaro e sozzo»: questi due aggettivi non sono scelti a caso, perché, come osserva Benvenuto da Imola, «Talis recte est ira quae amaricat animum et deformat corpus» . Mentre il poeta, sotto la scorta della ragione, riesce gradualmente a riconquistare la luce, Virgilio lo ammonisce a non separarsi da lui «guarda, che da me tu non sie mozzo» perché «è ammonito, scrive il Landino, l’appetito della ragione, che egli guardi di non esser ‘mozo’ cioè separato dalla ragione: percioché ogni sua cupidità diventa infinita e bestiale» .
Dante nel denso fumo della terza cornice continua ad avanzare e Marco Lombardo, uno degli iracondi, ivi condannato a purgarsi delle proprie colpe, gli chiede:
«Or tu chi se’, che ’l nostro fummo fendi?»
Ma come quest’anima può riconoscere in quella fitta cortina di fumo Dante? Ella stessa infatti poco dopo dirà:
«se veder fummo non lascia,
L’udir ci terrà giunti in quella vece».
Qui i commentatori sono discordi. Certo non ci può soddisfare questa interpretazione formulata per primo dall’Ottimo e ripresa poi dagli altri: «Vuole l'Autore mostrare che Marco conoscesse lui essere in carne umana per la boce organata e per lo moto del corpo che fendea quello aere con maggior impeto che fanno li spiriti» . Neppure l’altra interpretazione del Vellutello , condivisa poi dal Daniello e dal Venturi , può parimenti incontrare il nostro favore: «Procedendo Dante dietro a Virgilio fendea e dipartiva il fumo secondo che andava, quello che gli spiriti, perché non haveano corpo come lui, non potevano fare». E il discorso torna sempre all’inizio: ma se in quel fumo non ci si vedeva, come si accorse Marco Lombardo che Dante lo fendeva? Con altre speciose interpretazioni si è tentato di dare una risposta all’interrogativo, che viceversa resta sempre valido . Ma se noi analizziamo con attenzione le parole pronunciate da Marco alla fine del canto nell’accomiatarsi da Dante possiamo trovare, a nostro avviso, la soluzione dell’enigma:
Vedi l’albòr, che per lo fummo raja,
Già biancheggiare, e me convien partirmi,
(L’angelo è ivi), prima ch'io gli paja.
«Quia istic puniuntur iracundi in fumo, spiega con molto acume Giovanni da Serravalle, ideo iste Marcus, qui nondum erat purgatus de vitio iracundie, non poterat stare in lumine» , mentre Dante poteva andare verso la luce irraggiata dall’angelo della pace e non dal sole «che già nel corcar era»: l’angelo che «è ivi» simbolo del perdono, è vestito di luce
maggiore assai, che quello ch’è in nostr’uso
e gli rimetterà infatti la colpa dell’ira. Quindi Marco Lombardo nel congedarsi da Dante sa che il poeta, contrariamente a lui, può andare ad ottenere il perdono dell’angelo. Allora fin da quando iniziò il colloquio Marco sapeva che Dante una sola volta doveva percorrere quella cornice cioè fendere il fumo ossia tagliarlo e quindi liberarsene?
E che si tratti di una liberazione da una colpa che gli faceva «nodo» alla coscienza ce lo dice quel continuo insistere su quel «fummo», che vien nominato ben cinque volte, e l’inizio del canto successivo ove con il paragone della talpa il poeta, che pure alla fine del canto precedente ci aveva fatto assistere alla riconquista della luce, vuol ulteriormente richiamarci allo stato di tenebroso disagio in cui si era venuto a trovare nel terzo balzo, da cui era potuto uscire solo con l’ausilio della ragione, alla quale, grato, consacra gli ultimi versi:
Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi
Del mio maestro, usci’ fuor di tal nube
Ai raggi morti già ne’ bassi lidi.
Solo un ritorno, quindi, ai tempi di Dante, alla sua dottrina, ai suoi ideali e al suo mondo ci può permettere quell’indispensabile restauro esegetico di tanti luoghi della Commedia, che alla fine risultano determinanti nell'intero discorso sul poema. Si investe in tal modo l’intera esegesi della Commedia, poiché si mutano le prospettive di una valutazione, che mira ad intendere Dante al di fuori di certi schemi preordinati, che raggiungono il solo scopo di mortificare la poesia.
Dante dalla cecità degli invidiosi con gli occhi cuciti dal fil di ferro passa alla cecità degli iracondi, avvolti dall’«aere amaro e sozzo», venendo tormentato egli stesso dall’aspro pelo di quel «fummo». Fra queste tenebre v'è una continua incessante ricerca della luce, che alla fine il poeta riconquista con gioiosa voluttà. La luce rappresenta quindi il tema conduttore di un lungo e sofferto travaglio di purgazione e di liberazione, divenendo nel contempo simbolo di verità e speranza di pace; «una luce che è il segno dell’arte insieme e dell’anima, spettacolo e rapimento, estasi degli occhi insomma ed estasi dell'intelletto, in piena identità di realtà obbiettiva e di realtà subbiettiva» . Questa riconquista della verità si svolge sotto il segno dell’ira, la passione più dantesca, che non solo nell’Inferno percorre un lungo cammino che va dalla matta bestialità alla magnanimità di Farinata attraverso una gradualità di toni e di ritmi, ma che diviene per i posteri il simbolo distintivo dello stesso poeta. Irato sarà per il Foscolo il divino poeta e il Monti nelle sue lezioni pavesi ricordava: «Chi sia vago di pitture maestose e terribili, legga Dante, perché Dante è il massimo de’ pittori. Egli ha tinti i pennelli nell’ira di Dio, egli è stato il maestro di Michelangelo» .
Simbolo, quindi, allegoria, dottrina, filosofia, teologia e passioni si fondono nell’unica eccelsa voce della poesia, tanto che la stessa parola, lo stesso ritmo sono conquistati dall’afflato poetico per cui, come vuole il Battaglia, «i valori simbolici e allegorici sono nel Purgatorio riassorbiti e resi intrinseci allo stesso linguaggio» in una mirabile armonia d’insieme.
In questi esempi, c’è, a nostro giudizio, una conferma della validità di certe premesse, che attingono la loro forza proprio da quella cultura e da quella spiritualità, che fu di Dante e a cui la sua poesia è indissolubilmente legata. Abbiamo, infatti, mostrato come il sapere medievale penetrasse fin nel tessuto lessicale e quindi suggerisse immagini e modellasse lo stesso linguaggio poetico dell’Alighieri. In effetti, ci appare assai discutibile l’idea di una poesia sradicata dal suo «humus» naturale e fuori della storia, poiché il poeta, anche nell’atto della sua creazione, non può dimenticare il suo mondo, né prescindere dalla sua educazione mentale.
La storia dell’esegesi dantesca, nella sua varia e vasta letteratura, mostra, appunto, come i migliori interpreti di Dante furono proprio coloro che si avvicinarono, innanzi tutto, al suo mondo e ne ripercorsero i temi di fondo. Anche l’allegorismo, ovviamente, lega la propria sorte a questa realtà, ecco perché ci sembra logico riesaminare, da questa prospettiva, tutto il travaglio esegetico e vedere come esso abbia inteso questo importante problema.