Dati bibliografici
Autore: Bruno Maier
Tratto da: Dante nella critica d'oggi
Editore: Le Monnier, Firenze
Anno: 1965
Pagine: 271-284
Habent sua fata anche le cosiddette questioni (o cruces) dantesche: infatti, l'importanza a esse assegnata, la frequenza con cui sono state studiate, il rilievo che hanno avuto nel quadro della critica sull’Alighieri hanno variato nel corso del tempo, e a periodi di singolare fortuna ne sono succeduti degli altri, in cui tale fortuna è sensibilmente diminuita, anche se non si può dire che sia completamente venuta meno.
Prescindendo dalla critica più lontana da noi e traendo le mosse, per delineare una sommaria, iniziale prospettiva d'insieme, dalla seconda metà dell’Ottocento, dobbiamo affermare che gli studiosi positivisti, proprio in omaggio al loro impegno erudito, alla loro volontà di chiarire, ricorrendo a disparati sussidi (storici, documentari, filologici, linguistici, ecc.), i punti più difficili e controversi della Divina Commedia, si sono trattenuti a lungo sulle questioni anzidette e hanno lasciato sulle medesime una quantità imponente di contributi, variamente interessanti e talora ancor oggi pregevoli, pur se spesso, per eccessivo sfoggio di dottrina (di una dottrina, aggiungiamo, che non sempre poté essere di Dante), le soluzioni da loro proposte si configurano piuttosto come autonome prove d’ingegno e di cultura, che non come effettive delucidazioni storicamente accettabili, e fornite d’un certo margine di probabilità, dei molteplici «enigmi forti» danteschi. Si tenga inoltre presente che agiva per di più in quegli studiosi la convinzione che l'intelligenza dei simboli e delle allegorie e la spiegazione delle numerose questioni poste dal poema costituissero delle premesse indispensabili per la comprensione critica della poesia di Dante e che, anzi, il giudizio su tale poesia fosse tutt'uno con la soluzione (o con i diversi tentativi di soluzione) dei problemi relativi alla fondamentale allegoria della Commedia: errore metodico, questo, giustamente rilevato dal Croce .
Un differente atteggiamento mentale si colloca alla base di un largo settore di studî danteschi, di non diverso carattere, quali si ebbero nel successivo periodo del decadentismo: si pensi, in ispecie, agli scritti del Pascoli e dei suoi seguaci. In tali scritti, piuttosto che la pregiudiziale erudita o il gusto di una minuziosa esplorazione «scientifica» delle questioni dantesche (coerentemente alla diffusa idea di una critica intesa come «scienza esatta» e il più possibile vicina ai procedimenti peculiari delle scienze), si manifesta una concezione della Commedia di tipo mistico-religioso: concezione che non solo consente e autorizza, ma addirittura esige una sottile, attentissima indagine di quel «sacro» testo, volta a diradare le ombre di mistero che suggestivamente l’avvolgono (onde l'insistenza su simmetrie, corrispondenze arcane, significati riposti e segreti, in una direzione talora gratuitamente criptografica vare «la chiave» che permetta di penetrare nel tempio e di coglierne tutta la profonda, austera bellezza. E si comprende come, in una siffatta posizione, venga a perdurare, pur se in modi e con accenti diversi, l’equazione positivistica tra esegesi allegorico-simbolica e critica letteraria ed estetica in senso stretto.
Nella prima metà del nostro secolo, e in ispecie negli anni compresi tra il IgI0 e il 1945, allorché nell’estetica, nella storiografia e nella critica si affermò quella che possiamo dire la dittatura dell’idealismo e dello storicismo del Croce, non è un caso che le ricerche di tipo allegorico e simbolico, indirizzate all'yponoia della Commedia e agli enigmi da essa presentati, abbiano segnato una battuta d’arresto o siano diminuite in maniera oltremodo sintomatica. Il fatto è che, alla luce delle nuove convinzioni estetico-metodologiche d’impronta crociana, risultava evidente la sostanziale differenza (o, meglio, l'assoluta e sin contraddittoria alterità) fra la spiegazione delle allegorie e il giudizio sulla poesia della Divina Commedia. E proprio il Croce, nel suo libro su La poesia di Dante , che ottimamente puntualizza e chiarisce la posizione della nuova critica dantesca d'allora, proclamò l’«unità dialettica» di «struttura» e «poesia» nel poema, asserì il carattere pratico e volontaristico dell’allegoria (ritenuta una forma di «criptografia», e perciò non interpretabile con sicurezza quando manchi una precisa indicazione dell’autore) e rivolse il principale o esclusivo interesse della sua indagine alla lettera della Commedia, dando, sulle orme del De Sanctis (e del Foscolo), l'esempio di una lettura «secondo poesia» del capolavoro dantesco.
Sulla via così segnata dal Croce si sono posti quasi tutti gli studiosi di Dante di quel periodo (il periodo, per intenderci, compreso tra le due guerre mondiali); e il loro precipuo interesse si è appuntato al ripensamento, alla discussione e alla riformulazione del rapporto tra «struttura» e «poesia» — il quale, si noti, non era un’invenzione del Croce, ma, al contrario, costituiva il punto d'arrivo e la sistemazione rigorosamente teorica di una secolare linea direttiva della critica dantesca, quella che, partendo da certi accenni bembiani e dalla distinzione borghiniana tra un Dante «filosofo», «teologo» e «scienziato» e un Dante «poeta», aveva poi avuto due insigni esponenti nel Vico, assertore di un Dante «barbaro» e dimidiato Omero per la «grave mora » di cultura che opprimeva il poema, e quindi, in età romantica, nel De Sanctis, cui sì deve la contrapposizione, nella Commedia, tra un «mondo intenzionale» e un «mondo reale», ossia tra una poetica eteronoma, intellettualistica, astratta e allegorica e una poesia energica, passionale, plastica e drammatica — e a una lettura del poema dantesco capace di scoprire l'essenziale poeticità di tante pagine trascurate dal Croce, sino a giungere — e ci riferiamo agli scritti del Russo, del Momigliano, del Flora e di altri – alla rivendicazione dell’«unità poetica» della Commedia.
È naturale che in una simile prospettiva critica, di estrazione prevalentemente estetica, le cruces del poema siano state per lo più trascurate (quando non addirittura altezzosamente ironizzate e irrise), o considerate pretesti per inutili giochi d’ingegno ed esclusivo pabulo di cervelli oziosi e arretrati, negati all'intelligenza vera della poesia; e che abbiano richiamato l’attenzione solamente di taluni studiosi d'indirizzo positivistico e variamente anticrociani, i quali, però, piuttosto che battere delle nuove vie, ripercorrevano inertemente quelle già in precedenza seguite: onde la loro non eccessiva importanza, nell'àmbito delle indagine anzidette.
Un posto a parte spetta invece a un maestro illustre di studî danteschi, Michele Barbi, il quale, benché lontano dalle idee del Croce e volto a continuare la tendenza positivistica (ma con una nuova, più scaltrita e rigorosa consapevolezza storico-filologica), anche. nella trattazione e nella delucidazione dell’allegoria della Commedia e di diversi problemi a essa pertinenti ha dato sempre esempio di moderazione, di prudenza, di buon senso, oltre che di acutezza, né ha mai perso di vista la personalità, l'ideologia e la cultura medievale dell’Alighieri: ci riferiamo, in particolare, al volume postumo Problemi fondamentali per un nuovo commento della «Divina Commedia» .
Prima di trattenerci sugli studî del dopoguerra, converrà accennare a due motivi, la cui chiarificazione ci sembra indispensabile per far meglio comprendere i diversi contributi di cui ci occuperemo (e per stabilire un canone in rapporto al quale sia lecito ravvisarne la validità o meno, i lati positivi e quelli negativi), e, più vastamente, per tratteggiare il clima culturale in cui tali studî vengono a situarsi: un clima, aggiungiamo, che presenta degli aspetti e dei caratteri per più ragioni nuovi, rispetto a quello anteriore, quasi totalmente dominato dalla personalità e dall’attività critica del Croce.
Osserveremo, dunque, che spesso, nell’interpretazione delle allegorie, dei simboli e delle cruces dantesche (noi ci soffermiamo, è vero, su queste ultime, ma non possiamo dimenticare la loro stretta connessione con l'allegoria generale del poema, sicché per quelle e per questa vale, anche in sede di metodologia, un medesimo discorso), ci si limita alla specifica questione presa in esame, perdendo di vista l'insieme e trascurando il contesto storico-culturale in cui essa viene a inserirsi. Pertanto numerosi scritti, pur se intelligenti, ingegnosi e a loro modo originali, presentano delle soluzioni discutibili o inaccettabili perché parziali e, in certo modo, isolate. Il fatto è che, evidentemente, i simboli, le allegorie e le cruces dantesche non soltanto non sono causali e tra loro staccati, ma vengono, anzi, a disporsi in un unitario, organico sistema allegorico-simbolico, derivato dal medesimo mondo ideologico-culturale del poeta e direttamente collegato alle finalità da lui perseguite nella sua opera. Se ne deduce che quanto più uno studioso riuscirà a cogliere e a definire un siffatto «sistema», o quanto più in un suo anche parziale contributo terrà presente l’allegoria e la simbologia totale della Commedia, tanto più risulteranno valide le sue affermazioni e conclusioni. E si rammenti, inoltre, che, per esempio, interpretare in un determinato modo il Veltro o il «Cinquecento diece e cinque» significa dare una spiegazione in quel senso dell’intero poema: sicché un'interpretazione imperialistica e ghibellina o un’ interpretazione religiosa e mistico-spiritualistica dei due enigmi viene necessariamente a ripercuotersi sulla comprensione globale della Commedia, dato che, come d’altronde è ovvio, si deve leggere il poema secondo un criterio o una chiave unitaria, sia quando se ne esaminino le questioni particolari, sia quando lo si consideri nel suo complesso.
Per quanto, poi, riguarda l’atmosfera culturale dell'ultimo ventennio, è facile osservare che il carattere sostanzialmente storicistico o storicizzante delle indagini critiche (carattere che rappresenta un punto d'incontro di correnti, anche ideologiche, diverse, ma tutte più o meno impegnate in una revisione del crocianesimo o in una discussione teorica, e talora in un’aperta pole- mica, con esso), ha indubbiamente giovato allo studio della cosiddetta «allotria» dantesca, ossia delle cruces, dei simboli e delle allegorie del poema. Un tale interesse critico presuppone, al solito, come era avvenuto nel passato, una nuova posizione metodica, o per lo meno un avviamento (o una serie, ora divergente ora convergente, di orientamenti e di avviamenti) verso nuovi approdi di natura teoretica, sia che ci si riferisca a una prospettiva marxistica o a un atteggiamento cattolico e spiritualistico, sia che si alluda a vari indirizzi di ricerca (sociologica, filologica, stilistica, linguistica, ecc.), sia che si faccia attenzione alla « poetica » di un autore (e al conseguente, dialettico rapporto tra «poetica» e «poesia»). Ma certamente la nota distintiva in fondo comune di siffatte tendenze critiche (e critico-metodiche) è costituita dall'impegno storicistico, ossia, nel nostro caso, dal fermo proposito di capire Dante come sintesi ed espressione altissima della civiltà, della mentalità, della cultura medievale e, quindi, di ricostruire dall’interno la «struttura» della Commedia, con tutte le sue molteplici implicazioni (ordinamento morale dei tre regni della morte; concezione dei personaggi e degli episodi; finalità esemplaristica delle singole figure e situazioni, in relazione alla posizione ideologica e agli intendimenti del poeta, ecc.). Poiché da più parti è stato revocato in dubbio proprio il motivo essenziale, di derivazione crociana, di una lettura del poema condotta alla luce del gusto contemporaneo o della categoria della bellezza e della poesia, quale era stata elaborata dall’estetica del Croce. Si è compreso, in altre parole, che un simile tipo di critica portava di necessità a troppe riserve e a troppe limitazioni, ossia, appunto, a una considerazione e valutazione frammentaria (e antistorica) del poema; e faceva negare o dimenticare gli ineliminabili valori strutturali, dottrinali, parenetici della Commedia e le medesime finalità di un autore come Dante, refrattario a una mera indagine di poesia, quale potrebbe essere opportuna, invece, per un poeta «puro», alieno da ogni ambizione profetica, oratoria, di messaggio umano e morale (oltre e più che artistico).
Sul fondamento di queste idee si è sottolineata la grande importanza del mondo dottrinale, etico, politico e religioso della Commedia; e si è asserito che la poesia stessa del poema nasce da quel mondo, per virtù e in grazia di quel mondo, e non già contro o malgrado di esso. Una simile convinzione, che è anche un principio metodico accettato da studiosi di vari indirizzi, come ha portato al superamento di una lettura impressionistica e di gusto della Commedia e ha contribuito a una intelligenza storica del poema della sua totalità, così ha stimolato e promosso, entro l’ambito dello studio della struttura e dell'architettura del poema, parecchi saggi e contributi volti a chiarire le cruces dantesche: sia quelle di più diretta fisionomia simbolico-allegorica (come, per esempio, il Veltro, Medusa, il Messo celeste, il Veglio di Creta, Matelda, ecc.); sia quelle di natura, per dir così, polivalente, poiché implicano, da un lato, un senso o un sovrasenso allegorico-morale e riguardano, dall'altro, un particolare aspetto della cultura di Dante (e si pensi, per esempio, alle «quattro stelle» del canto I del Purgatorio); sia, infine, quelle la cui trattazione investe certe cognizioni linguistiche dell’Alighieri e impegna a un tempo il gusto estetico (e la discrezione) dell’interprete: è il caso, per esempio, delle parole oscure di Pluto e di Nembrotte.
In queste nostre pagine prenderemo in esame le principali cruces dantesche, passando in rassegna gli studî a esse relativi (saggi specifici, commenti, letture di singoli canti, ecc.) usciti soprattutto nell’ultimo ventennio nel nostro paese; e seguendo, ovviamente, l’ordine con cui le diverse questioni si presentano nel corso del poema.
Prescindendo dalla questione delle «tre fiere» del canto I dell’Inferno, sulla cui interpretazione non si sono registrate novità degne di segnalazione, ci occuperemo anzitutto del problema del Veltro, sul quale sono usciti nel dopoguerra parecchi interessanti lavori. Citeremo, così, lo scritto Del Veltro dantesco di Aldo Vallone, secondo cui quella del Veltro è «una profezia vera e propria », la sola ante eventum in senso stretto dell'intero poema, sicché è «bene lasciare questa profezia sospesa, senza alcun riferimento particolare», rilevando che Dante scorgeva nella venuta del Veltro, solamente, l’avvento di un «uomo nuovo», rinnovatore dell’Italia e del mondo: tesi, questa, alla quale si avvicina il Roedel , che ravvisa nel Veltro l’indeterminato, «futuro vincitore della lotta contro il male». Il Pietrobono ritorna all’idea di un «imperatore», capace di promuovere «un rinnovamento della società»; e così pure Bruno Nardi , per il quale il compito di snidare la lupa e di farla morire «con doglia» si identifica con la missione del monarca universale, che annullerà la donazione di Costantino — motivo, questo, più volte trattato dal Pietrobono – e ricondurrà la Chiesa alla «povertà evangelica». Dal canto suo il Pagliaro, nel saggio Simbolo e allegoria della «Divina Commedia» , che mira a differenziare su un piano teorico e metodico i due concetti di «simbolo» e di «allegoria», scorge nella figurazione del Veltro un carattere di «ambiguità» e ritiene pertanto che «la soluzione meno rischiosa» sia «quella di fermare l’interpretazione proprio» al momento «in cui il simbolo si trasforma in allegoria», limitandosi a parlare dell'«idea di una forza che dialetticamente si oppone e quella della cupidigia», rappresentata dalla lupa. Mentre R.E. Kaske , che segue un differente indirizzo ermeneutico, pensa che nel Veltro si dovrebbe cercare il riferimento a una rigenerazione del Cristianesimo ispirata dalle preghiere degli ordini francescano e domenicano; e che nel «Cinquecento diece e cinque» sarebbe da ravvisare un monogramma rovesciato, alludente alla natura umana e divina di Cristo.
Se le tesi del Vallone, del Pietrobono, del Nardi (e dello stesso Pagliaro) si collegano ad altre simili già in precedenza enunciate, appare per molti riguardi originale l’interpretazione data da Leonardo Olschki nel volumetto Dante poeta Veltro , nel quale, come si ricava dal titolo, il Veltro verrebbe a essere il medesimo poeta. In verità, anche una tale ipotesi era stata prospettata dalla precedente esegesi — e basterà ricordare i volumi di Ruggero Della Torre, Poeta-Veltro e Tra feltro e feltro , e il ponderoso volume di Rodolfo Benini, Dante tra lo splendore de’ suoi enigmi risolti —; ma si deve riconoscere che del tutto nuova è la via percorsa dallo studioso tedesco, il quale si sofferma in particolare sul verso oscurissimo «e sua nazion sarà tra feltro e feltro»; e, dopo aver asserito che «è sempre ingannevole il voler cercare le fonti dell’ispirazione dantesca fuori della tradizione latina e cristiana», ritrova nei «due feltri danteschi» un «simbolo astrologico», ossia un’indicazione immaginosa e poetica della costellazione dei Dioscuri o dei Gemelli, rappresentati abitualmente con due «conici berretti di feltro ornati da una stella o da una croce». Il verso, in altre parole, significherebbe che il Veltro sarebbe nato sotto la costellazione dei Gemelli, la quale, come si sa, è quella in cui si nascose il sole quando Dante «sentì di prima l’aere tosco»: onde l’identificazione del Veltro col poeta, «guida spirituale», per effetto del poema, «di un mondo moralmente rovinato» ed «esecutore della volontà divina nel rendere l’Italia disposta alla rinascita dei due poteri».
Alla figurazione del Veltro si connette strettamente per l’Olschki (come, del resto, per la maggior parte degli studiosi) il misterioso accenno al «Cinquecento diece e cinque», nel quale egli scorge un riferimento all'imperatore (identificabile o no con Arrigo VII) o all’autorità imperiale in genere; e scrive che mentre la profezia del Veltro «ha carattere morale», quella del DVX «è sostanzialmente politica» e vuol alludere a «un condottiero in armi contro l’empia alleanza dei due poteri avversi al suo mandato politico», ossia della curia avignonese e del re di Francia.
L’interpretazione del Veltro data dall’Olschki è stata variamente discussa; e mentre, per esempio, il Getto l’ha accolta senza riserve nella sua finissima lettura del I canto infernale , il Porena ha cercato di confutarla con l'argomento che «il sua nazion sarà accenna esplicitamente a qualcuno ancora non nato», dichiarandosi per conto suo propenso a identificare il Veltro con un «papa spirituale», sorto «di tra le povere cappe dei francescani» ; la Sampoli Simonelli non ha ritenuto convincente la spiegazione del v. 105 e ha detto di preferire la chiosa più comune («tra panni poveri e rozzi»), con allusione a un «ordinatore supremo » atto a riportare «in Italia la pace e la giustizia»; e il Chimenz ha definito «assurda» l’identificazione del Veltro con Dante stesso («che si sarebbe dimenticato di esser già venuto!»), accostandosi al Porena nel pensare a un «profeta» o a un « pontefice» (laddove il «Cinquecento diece e cinque» sarebbe un imperatore).
All’esordio del canto VII dell'Inferno risuonano le minacciose e intimidatorie parole di Pluto (« Papè Satàn, papè Satàn, aleppe»), che hanno dato luogo, specialmente nel passato, a una molteplicità di spiegazioni variamente fondate sulle lingue ebraica, francese, greca, araba. Nel nostro tempo ci si è limitati a notare che Virgilio (il «savio gentil che tutto seppe») ha subito avvertito la loro funzione d’incutere spavento a Dante; e a ritenerle incomprensibili, perché appartenenti a un incomunicabile, disumano mondo infernale e demoniaco , e perciò accostabili alla favella «a nullo.... nota» di Nembrotte — a proposito della quale non si sono ripetuti, di regola, gli inconcludenti conati ermeneutici d’un tempo —; oppure interpretabili nella maniera più semplice, ma anche più rispettosa delle conoscenze linguistiche dell’Alighieri, della sua inventività di poeta e dell'effetto che egli voleva produrre sull’animo del lettore: citiamo, per esempio, le interpretazioni «Oh Satana, oh Satana, Dio» (o «re») e «Oh Satana, oh Satana, ohimé», che si trovano nei più noti commenti e che ci sembrano linguisticamente accettabili. Il Porena, invece, che parte dal presupposto di un Pluto «alleato e quasi fratello di Bonifacio VIII» , in quanto simbolo dell’avarizia, e quindi nemico di Dante, ritiene possibile spiegare l’apostrofe del guardiano infernale con le parole «primo nemico del papa», rivolte oltraggiosamente all’incauto visitatore del mondo ultraterreno.
Altre due cruces, tra loro direttamente connesse come le tre fiere e il Vel- tro, ricorrono nel canto IX, allorché il poeta rappresenta il suo difficile ingresso nella città di Dite, e precisamente quelle di Medusa (e delle tre Furie: Megera, Aletto e Tesifone) e del «messo» celeste. A proposito di Medusa va ricordata l'opinione di molti commentatori (antichi e moderni), che vi hanno ravvisato «la disperazione del peccatore», ritenuta dai teologi «gravissimo pericolo di perdizione» , risalendo così al mondo religioso e morale di Dante, il quale si sarebbe giovato, come del resto in altri casi analoghi, di un personaggio della mitologia classica, caricandolo di un nuovo significato allegorico. Altri studiosi, invece, o hanno rinunciato ad attribuire all'antico mostro anguicrinito un particolare valore simbolico (ma questa volta in palese contraddizione con l’avvertimento del poeta: «Oh voi ch'avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani»), affisandosi alla lettera del poema e scorgendo nell'apparizione di Medusa e delle Furie una grandiosa, terrificante coreografia infernale; o hanno ravvisato in Medusa la custode del sesto cerchio (per ovvie ragioni di simmetria con quanto avviene negli altri cerchi) e, quindi, ne hanno fatto il simbolo dell’eresia, o, meglio, di un particolare tipo di eresia, quella che Dante chiamava «epicurea», volta a posizioni materialistiche e atee, cioè a considerare «l’anima» morta «col corpo»: che è la tesi del Porena .
Circa il messo celeste si è venuto stabilendo tra gli studiosi una specie di accordo, nel senso che vi si suol ravvisare (ed è d’altronde difficile pensare altrimenti) un angelo. Ma non è mancato chi, come il Toffanin , ha parlato, come già altri in passato, di Enea, inclinando a un'interpretazione di stampo ghibellino dell'allegoria dantesca e osservando che, poiché la città di Dite simboleggia «il mondo disertato dalla giustizia in quanto disertato dall’Impero» e poiché Virgilio è simbolo della «Ragione ‘da ciel messa’, poeta della giustizia e dell'Impero», chi apre le porte della città infernale può ben essere «il giusto / figliuol d'Anchise». Tale tesi è accolta da Ugo Zannoni , il quale vede rappresentate nelle tre Furie «le tre male disposizioni contenute nella città di Dite: violenza, frode, tradimento, col conseguente rimorso dei peccati che a quelle disposizioni si riferiscono», e in Medusa la «disperazione». L'identificazione del messo celeste con Enea è sostenuta pure da uno studioso appartenente alla linea pascoliana della critica dantesca e vicino alle idee del Valli e del Pietrobono, che quella linea hanno continuato, ossia da Alfonso Ricolfi , secondo cui spetta al «giusto» Enea «debellare» nel «poema cristiano» di Dante «l'ingiustizia, sgominando i felli, e, come tale, giungendo armato dell’aurea verga che un tempo gli aveva consentito di proseguire nel cammino fatale verso l’Eliso». Mentre Giovanni Severini ritiene le tre Furie «l’antitesi del volere e dell'operato delle tre donne benedette» e sostiene che il messo è l’arcangelo Michele.
Uno scoglio nel quale si sono sempre imbattuti i commentatori e gli studiosi della Commedia è costituito dall’enigmatico Veglio di Creta, anche se i più si trovano concordi nel riconoscerne la fonte biblica (Dan., II, 31-33), e cioè la statua vista in sogno da Nabuccodonosor, e, per tale via, nel ravvisarvi un simbolo della storia dell'umanità, concepita pessimisticamente come una progressiva, fatale decadenza, dopo il felice stadio iniziale della mitica età dell’oro; e si rammentino in proposito almeno le due più recenti letture del canto XIV, quelle del Paratore e dell’Apollonio . Tuttavia Salvatore Santangelo ha sostenuto, con argomenti, a nostro parere, non del tutto persuasivi, che il Veglio raffigurerebbe «l'Impero romano e la sua storia», «da Augusto ai tempi di Dante»; e che il piede di terracotta significherebbe «la fragilità non già di tutto l’Impero, ma di una sola delle due parti di esso», e cioè dell’Impero d'Occidente, il quale, dopo la sua separazione dall’Impero d’Oriente, ebbe «breve vita perché abbattuto dai barbari» e, «risorto poi con Carlo Magno», nell'epoca dell’Alighieri «mostrava gravi segni di fragilità e rischiava di cadere», compromettendo così «l’esistenza stessa della società civile di tutta l'Europa».
Anche sulla misteriosa «corda» del canto XVI con la quale Dante aveva pensato «alcuna volta / prender la lonza a la pelle dipinta» e di cui si giova, su comando di Virgilio, per attirare Gerione, si è discusso di questi ultimi anni, specialmente dopo la comparsa della lettura del canto XVI dell'Inferno di Silvio Pasquazi . Il quale, affiancandosi al Torraca, al Momigliano, al Figurelli e al Caretti , vi ravvisa il «simbolo della giustizia legale, della legge formulata e applicata, della forza della legge»; e osserva che «Dante si è cinto della corda perché fedele dell’Impero, della saggezza umana, delle virtù umane». Quanto a Gerione, il Pasquazi pensa che simboleggi l’Anticristo, di cui la legge romana, secondo Sant'Agostino, impediva l’avvento: pertanto con il getto della corda Dante avrebbe fatto credere a quell’ingenuo bestione (e sarebbe stata questa una «lecita astuzia di guerra») che ogni impedimento fosse in via di eliminazione e l’avrebbe così indotto a salire dal fondo del baratro. Tale interpretazione, che al Pasquazi sembra confermata da alcuni testi sacri ben noti al poeta, come l’Epistola ai Romani e la seconda Lettera ai Tessalonicesi di S. Paolo e l’Apocalisse, viene ribadita, in polemica col Vallone, in uno scritto successivo su La famosa «corda» dantesca e una nota anestetizzante (appendice al commento del XVI canto dell’«Inferno») . Dal canto suo il Vallone, dapprima in una lettura del canto XVI, 106-14 , ha asserito che la corda «non può essere che una virtù», e precisamente «l’umiltà», e va identificata con il «cordiglio francescano» o con «la cinta di cuoio dei terziari»; mentre il Sacchetto vi ha ritrovato «il segno della dirittura virtuosa e insieme di quella superiore grazia che piegano alla loro invitta potenza anche il genio del male».
Nell'articolo Novità sul «getto della corda» e su Gerione Bruno Nardi si è risolutamente opposto alla tesi del Pasquazi; e ha osservato che la corda dantesca, come appare di derivazione biblica per il suo significato letterale di «cingolo» o di «cintura», di cui si giovano i pellegrini per tenere la tunica alzata e camminare più speditamente, così lo è ancora per il suo valore simbolico, essendo in essa rappresentate la «continenza» e la «castità»: ben si comprende, dunque, perché in tal modo il poeta sia riuscito «a prender la lonza, cioè ad accalappiarla e assoggettarla alla ragione». Il fatto poi che tale corda venga usata anche per chiamare Gerione è spiegato dal Nardi sia con il rapporto, già istituito da Aristotele e noto a Dante, tra la lussuria e la frode (le quali hanno in comune l'inganno, l’insidia, il raggiro), sia con il valore «sacramentale» peculiare della corda, simile ad «altre cose sacre», come «l’acqua benedetta, la croce, l’ulivo della Domenica delle Palme», di cui il diavolo ha sempre avuto (e Gerione, non si dimentichi, è per il poeta, come tutti gli altri mostri della mitologia pagana, un demonio), «nella tradizione popolare cristiana, terrore, come di cose che lo soggiogano» .
Passando ora alle cruces della seconda cantica, accenneremo alle «quattro stelle», che Dante ammira commosso, dopo essere giunto, assieme a Virgilio, sulla state spiaggia del Purgatorio. A proposito di tali stelle, che il poeta dice essere viste soltanto dalla «prima gente», è stata dibattuta la questione se si tratti di astri autentici (identificabili con la costellazione della Croce del Sud), e quindi suggeriti all’Alighieri dalla scienza dell’epoca, o se, invece, ci si trovi in presenza di una mera invenzione poetica, di esclusivo valore simbolico. Il Porena, per esempio, sempre attentissimo a simili problemi, ha escluso la conoscenza, da parte di Dante, dell’anzidetta costellazione, ignota all’astronomia medievale; e spiegando «prima gente» come ‘umanità primitiva’ o, meglio, come un'allusione ad Adamo e a Eva abitatori del Paradiso terrestre, ha scorto nelle «quattro stelle» il simbolo delle «quattro virtù cardinali» , della cui visione avrebbero goduto, prima del peccato, gli antichissimi progenitori . Tale interpretazione, che era già stata data dal Proto ed è stata successivamente ripresa, e drammatizzata, dal Singleton , viene riproposta, nella sua suggestiva lettura del canto I del Purgatorio, da Ezio Raimondi , secondo cui «poiché le virtù cardinali infuse, perdute in seguito al peccato originale, non possono essere riacquistate con la redenzione se non su un piano personale, e non più su quello della natura, ciò che Dante rimpiange rivolgendosi a tutta l'umanità» (e cfr. vv. 25-27) «non è solo uno stato di corruzione, ma una perdita irrimediabile, iscritta per sempre nella storia dell’uomo, per cui nessuno potrà mai far ritorno al Paradiso terrestre con la stessa innocenza e la giustizia onde Dio aveva fatto dono nella persona di Adamo alla natura umana». Il problema delle quattro stelle è stato affrontato anche da Fulberto Vivaldi , il quale, pur propendendo a trovare nella «prima gente» un riferimento agli uomini dell'età dell'oro o del «secol primo» (Purg., XXII, 148), ha dichiarato che l’allusione rimane oscura e costituisce uno di quegli «enigmi nascenti dall’allegoria», per i quali «la critica dantesca, pur ammirevole, non è riuscita a dare spiegazione».
Una difficile questione è stata per gli studiosi di ogni tempo quella di Matelda: questione resa anche più ardua dal fatto che in essa vengono a inserirsi o a intrecciarsi due distinti ordini d’indagine, relativo il primo all’identificazione della «donna soletta» con un personaggio storico o letterario, e il secondo al suo palese significato simbolico. Qui ci limiteremo a citare soltanto alcuni dei contributi più interessanti, e precisamente il saggio di Bruno Nardi , per il quale Matelda «rappresenta... tanto la vita attiva quanto la contemplativa, ossia la filosofia, i philosophica documenta per mezzo dei quali si giunge alla beatitudine di questa vita, secundum virtutes morales et intellectuales operando», ed è tutt'uno con Matilde di Canossa poiché nessuno meglio di questa potrebbe raffigurare «la perfetta signoria del volere in un mondo libero dalle passioni»; la nota del Porena , il quale, d'accordo col Nardi, vede in Matelda l’inveramento del sogno di Lia e Rachele, avuto da Dante, e ne fa il simbolo insieme della vita attiva e della vita contemplativa, ossia della felicità terrena, mentre rinuncia a porsi il problema del personaggio storico adombrato dal poeta in quella figura; lo scritto del Natali , che fa di Matelda di simbolo della felicità terrena, che è premio della perfezione della vita attiva in quanto è preparazione alla vita contemplativa»: «di quella felicità terrena, che fu goduta nella sua interezza soltanto da Adamo e da Eva nello stato d Innocenza, quando fregiavano la loro faccia ‘li raggi de le quattro luci sante’, e alla quale, dopo il peccato originale, l’uomo è avviato da quei documenta philosophica di cui Matelda è maestra»; e, per quanto concerne l’identità di Matelda, pensa alla «donna gentile» della Vita nuova trasformata nel Convivio, nella Filosofia, osservando che la «bella donna» del Paradiso terrestre verrebbe a essere l’«ancella di Beatrice», cioè della Teologia e della Sapienza divina e costituirebbe non «un duplicato», ma «un superamento» di Virgilio; il saggio del Singleton , a parere del quale Matelda, ispirata all’Alighieri dal genere letterario della «pastorella», simboleggia la «Giustizia originale» perduta per sempre con la colpa di Adamo e non più ricuperabile dall’ uomo; e quello di Tilde Nardi , in cui, mentre per il valore simbolico di Matelda è accettata la tesi di Bruno Nardi, viene ribadita con nuove argomentazioni la candidatura della contessa di Canossa, ritenuta ben adatta a «rappresentare quella signoria di sé che il saggio raggiunge in questa vita operando secondo virtù», ovvero quell’«esercizio simultaneo delle virtù etiche e di quelle per cui il sapiente, libero dalla stretta delle passioni terrene e ritornato arbitro e signore di se stesso, può, attraverso l’opera della creazione, elevare la mente all'intelligenza di Dio». Sta a sé, invece, l’articolo di Jacques Gould , il quale si ricollega a taluni esempi di critica arcanistica e criptografica verificatisi nel passato e oggi per lo più trascurati, data la parziale o totale gratuità di simili procedimenti, presupponenti nell’Alighieri una sapienza enigmistica o un’abilissima ars combinatoria di astratte rispondenze di numeri o di lettere, che mal si conciliano col pur cosciente e sorvegliato abbandono fantastico del poeta. Il Gould, dunque, ritiene di dover anagrammare il Misterioso nome di Matelda, ricavandone l’espressione «Ad Laetam» (‘verso la Gioiosa’), in cui verrebbe indicata la funzione a lei assegnata: Matelda, cioè, condurrebbe a Beatrice (che è, insieme, datrice di felicità e lieta e gioiosa per se Stessa), della quale, allegoricamente, costituirebbe un aspetto o una prefigurazione.
Circa il «Cinquecento diece e cinque» si è già avuto modo di fare qualche rilievo a proposito della questione del Veltro, cui evidentemente si connette. Qui aggiungeremo, ai lavori citati, quello di Adolfo Moretti , per cui il «Cinquecento» (e così pure il Veltro) è identificabile con un imperatore capace di ridare la pace e la giustizia e di far ritornare sulla «diritta via» l’«umanità sbandata»; e quello di Franco Lanza , che scorge del pari nel «Cinquecento» un Imperatore, o anche il medesimo Arrigo VII, se la cronologia del poema lo consente.
Per quanto riguarda il Paradiso, nel quale non ricorrono generalmente cruces del tipo di quelle sinora esaminate, mentre sono numerosi i passi dottrinali di ardua interpretazione (sia per talune incertezze di lezione, sia, obiettivamente, per la differenza tra la scienza medievale e quella del nostro tempo), ci tratterremo brevemente sui « quattro cerchi » e le «tre croci » del canto I, di cui ha scritto Pietro Cuscani Politi . Premesso che per spiegare il verso bisogna prendere in considerazione il «punto di stazione... occupato da Dante, sulla vetta della montagna del Purgatorio», egli nota che «da tale posizione la visuale dell'osservatore (Dante) rileva l’orizzonte proiettato in linea retta ed intersecato simultaneamente» in un punto «dall'equatore celeste, dall’eclittica e dal coluro... Sicché la prima croce è formata dall’orizzonte con l’equatore, la seconda dall’orizzonte stesso con l’eclittica e la terza dall’orizzonte ancora col coluro. Si tratta quindi di tre cerchi immaginari aventi la linea-orizzonte in comune».
Se, ora, dopo aver passato in rassegna i principali studi sulle cruces dantesche (ma di altre cruces ancora si sarebbe potuto parlare; e può anche darsi che ci sia sfuggito qualche lavoro meritevole di essere citato), volessimo trarre le conclusioni del nostro discorso, rileveremmo in linea generale che nel nostro tempo non si sono per lo più verificate, in questa direzione d’Indagini dantesche, quelle intemperanze e quelle esagerazioni che sono riscontrabili soprattutto nella seconda metà del secolo passato, allorché, anche per effetto dell’imperante clima positivistico, gli enigmi della Commedia hanno dato occasione a molti improvvisati «dantisti» di cimentarsi nel campo, loro altrimenti vietato, della critica letteraria. Non si sono verificate, aggiungiamo, né sotto l'aspetto della quantità, dato che gli scritti sulle cruces rappresentano oggi una parte comunque secondaria della critica dantesca, né sotto quello dell’arbitrarietà dei procedimenti e delle conclusioni: infatti, quasi tutte le contemporanee ricerche di tale indirizzo non si sono allontanate da un consapevole impegno storico, partendo dall'idea che nella delucidazione delle questioni dantesche conta non già il brillante sfoggio d’ingegno, sì invece il proposito di restare il più possibile aderenti alla personalità e al mondo dell’Alighieri e di utilizzare tutte le possibili risorse dell’intelligenza e della cultura senza mai perdere di vista quella personalità e quel mondo e, insomma, la struttura totale del poema. Onde il significato sostanzialmente positivo e meritorio di siffatte ricerche.
Ché se poi qualcuno dovesse rimanere un po’ deluso di fronte ai risultati conseguiti da tale settore della critica dantesca e qui compendiosamente indicati, e deplorasse l’assenza di soluzioni strabilianti e rivoluzionarie, occorrerebbe rilevare, in primo luogo, che una complessa tradizione ermeneutica, venuta a costituirsi lentamente ma saldamente nel corso dei secoli, ha pur sempre un suo non eliminabile peso (ed esercita, di sua stessa natura, una funzione tenacemente conservatrice), e che, del resto, in siffatta medesima tradizione sono tutt'altro che rari i punti rimasti oscuri, le incertezze destinate, e forse per sempre, a essere tali, resistendo ai più agguerriti e vigorosi sforzi interpretativi; e in secondo luogo che, essendosi Dante proposto di giovare al «mondo che mal vive» e di dare all’umanità d'allora (e di sempre) un «vital nutrimento» con la sua «parola brusca», se «digesta», il messaggio allegorico contenuto nella Commedia e le molteplici allusioni e rispondenze simboliche non potevano essere eccessivamente complicati e dovevano al contrario consentire, a un lettore adeguatamente provveduto, una più o meno precisa comprensione e penetrazione. Ecco perché le soluzioni più semplici delle diverse questioni (e la loro Interna organicità e coerenza) hanno maggior probabilità, a nostro parere, di cogliere nel segno, che non quelle astruse e complicate: «La mia scrittura è piana», dichiara a un certo punto Dante, «se ben si guarda con la mente sana»; e questi versi, oltremodo significativi, possono essere insieme una dichiarazione di poetica e un avvertimento di carattere metodico, che non va scordato dagli studiosi delle cruces dantesche. Proprio per aver tenuto presenti questi principî essenziali, le migliori e più serie indagini del nostro secolo, qui da noi ricordate, ci sembrano non solo degne di attenzione, ma utili e valide nell'àmbito della critica dantesca (nella quale d’altronde rientrano, e sono sempre rientrate, con pieno diritto); e, soggiungiamo pure, storicisticamente feconde se, come si è procurato di far vedere, anch'esse contribuiscono in qualche modo a una più sicura intelligenza critica (cioè, appunto, storica) della figura e dell’opera del nostro maggiore poeta.