Dati bibliografici
Autore: Enrico Malato
Tratto da: Dante
Editore: Salerno Ed., Roma
Anno: 2009
Pagine: 270-278
Nella Commedia, ha osservato Michele Barbi, «Dante intese a far opera poetica [...] secondo le idee del tempo, che consentivano di pensare a poesia che non escludesse fini pratici d'ammaestramento e d'apostolato». In realtà, il problema del fine didascalico o pedagogico della poesia è molto più remoto dell'età di Dante e affiora già nell'antica opposizione Esiodo-Omero, per cui nel Certame (Agon) tra i due poeti la vittoria viene infine concessa al primo, che «chiamava gli uomini a dedicarsi alla pastorizia e alla pace [...] e non a colui che trattava guerre e stragi». E Orazio, nell'Ars poetica - ben presente a Dante -, aveva sentenziato (vv. 333-34):
Aut prodesse volunt aut delectare poetae
aut simul et iucunda et idonea dicere vitae.
Per precisare subito dopo (vv. 343-44):
Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci,
lectorem delectando pariterque monendo.
Più grave imputazione era stata mossa, tuttavia, ai poeti, e tra essi al più grande, Omero, da Senofane e da Platone (nella Repubblica: libri II e III), cioè di avere «composto per gli uomini favole false» (Repubbl., II 17, 377 d), non veritiere e diseducative: ragione di censura del fùosofo al poeta. Ma nel conflitto tra filosofia e poesia, tra logos e mythos, rileva E.R. Curtius, la soluzione era stata trovata «nell'interpretazione allegorica di Omero». L'allegoria, cioè la rappresentazione di un diverso e più profondo significato oltre quello espresso dalla lettera (conformemente al valore etimologico, dal greco allos, 'altro', e tema di agoreuo, 'parlo'), aveva fornito la "chiave di lettura" del testo poetico e un modo per superare l'obiezione che la poesia dicesse cose non vere e perciò anche non utili. Un'opzione che, osserva Curtius, «rifletteva una caratteristica basilare del pensiero religioso greco, la convinzione cioè che gli dèi si manifestassero [nell'opera dei poeti] in forma enigmatica, come negli oracoli e nei misteri»: di qui «l'idea secondo cui la poesia non solo contiene, e deve contenere, una sapienza segreta, ma anche una conoscenza universale delle cose», che è compito degli interpreti ricercare e scoprire. In questo senso Virgilio viene chiamato «famoso saggio». L'interpretazione allegorica dei testi si diffuse quindi nel mondo antico, e ancor più nel Medioevo, con intenti didascalici, applicandosi non soltanto ai testi poetici, ma anche e in primo luogo alle Sacre Scritture. Si sviluppò un’allegoresi biblica ebraica, dalla quale derivò un’allegoresi cristiana dei Padri della Chiesa, vòlta soprattutto a cogliere nell'Antico Testamento una rappresentazione tipica, cioè un'anticipazione, un preannuncio, per simboli o per figure, delle verità del Nuovo Testamento: per cui, ad esempio, Adamo fu indicato (già da san Paolo, Epist. ad Romanos, 5 14) come tipo di Cristo, e l'esegesi biblica fu definita esegesi tipica o tipologica. La ricerca di una sentenza, di un insegnamento occulto sotto il velo del discorso letterale, divenne prassi costante, non sempre distinguendosi con precisione tra metafora e allegoria, analogia, simbolo, figura, speculum, enigma, tipo, benché la tradizione retorica - da Quintiliano a Tertulliano, da Isidoro a Riccardo di San Vittore - avesse tentato di definire categorie precise.
Nella tarda età antica «il paganesimo ormai declinante applica anche a Virgilio l'interpretazione allegorica (Macrobio). Durante il Medio Evo l'allegoresi biblica e quella virgiliana si fusero in una sola; l'allegoria divenne perciò l'elemento assolutamente fondamentale per l'interpretazione di ogni testo; è alla base di tutto ciò che si indica come "allegorismo medievale"». La ricerca e interpretazione dei significati nascosti fu cosi estesa e generalizzata, che non solo di Virgilio e di altri scrittori pagani si mise in atto, per mezzo dell'esegesi allegorica, il recupero nell'àmbito dei nuovi valori cristiani (esemplare di questo impegno l'Expositio vergilianae continentiae, 'Esposizione del contenuto di Virgilio', di Fabio Fulciade Fulgenzio, forse da collocare tra la fine del secolo V e gl'inizi del VI), ma anche degli stessi dèi ed eroi, personaggi e mostri del mito pagano, assunti come simboli di concetti più alti e comunque coerenti con il nuovo credo. Le medesime tecniche ermeneutiche vennero poi applicate nella "lettura" dei fenomeni dell'universo, visto come un grande «libro» della natura scritto da Dio, in cui pietre, erbe, animali sono soltanto simboli o allegorizzazioni di verità più profonde comunicate agli uomini attraverso il creato, perciò indagate e illustrate nei vari lapidari, erbari, bestiari che circolano ampiamente nella cultura medievale.
S'intende come a questa tradizione culturale non possa non essere legato Dante, e ad essa necessariamente si adegui, prima ancora che nell'opera poetica, nella definizione teorica della possibile polisemia del testo. Già nella Vita nuova egli aveva osservato che «se noi vedemo che li poete [latini] hanno parlato a le cose inanimate, si come se avessero senso e ragione, e fattele parlare insieme [...]; degno è lo dicitore per rima [= il rimatore volgare] di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna […]» (xxv 8): cioè non senza dare un senso, un significato, al suo parlare «sotto vesta di figura o di colore rettorico» (ivi, 10), che vada oltre la finzione letteraria. Così la facoltà di dare al discorso poetico una valenza multipla, metaforica o allegorica, al di là di quella letterale, viene reclamata alla poesia volgare, come da tempo è stata riconosciuta alla poesia latina, e subito messa in pratica, in quelle che Barbi ha classificato come «Rime allegoriche e dottrinali»: in cui, dirà più tardi nel Convivio, «la vera sentenza [...] è nascosa sotto figura d'allegoria» (r 2 17). Sarà poi compito dell'interprete «ritrarre la figura a veritade» (iv 28 14), se non sia l'autore stesso, come fa appunto con le canzoni inserite nel trattato, a fornirne l'interpretazione. Ma l’"autoesegesi" risulta piuttosto l'eccezione che la regola (e tale sarebbe anche se fosse dimostrata con sicurezza l'autenticità dell'Epistola a Cangrande, che comunque svolge in minima parte la complessa allegoria della Commedia), mentre si arricchisce concettualmente il rapporto fra la lettera e i significati sottostanti. Si è visto che nel Convivio vengono indicati e definiti (ii 1 2 sgg.) «quattro sensi» delle «scritture», il «litterale», l’«allegorico», il «morale» e l'«anagogico», tra i quali il primo viene dichiarato preminente, in aderenza al precetto di san Tommaso per cui il senso spirituale - cioè la somma dei sensi, oltre quello letterale - è sempre fondato sopra quest'ultimo e procede da esso («sensus spiritualis semper fundatur super litteralem et procedit ex eo»: Quaest. quodlibet., xii, q. 6 art. 19). È però nell'allegoria che si nasconde la «vera intenzione» dell'autore, quella che «non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento» al lettore (Conv., I 1 18, 2 17), conciliando le antiche esigenze oraziane del «delectare» e del «prodesse»: ed è quindi in essa che si esprime il senso autentico del messaggio poetico, che il poeta potrà intenzionalmente rendere più o meno oscuro, e perciò più o meno accessibile al lettore, in una gamma che può andare dalla metafora alla figurazione simbolica, all'enigma. Secondo Quintiliano, l'allegoria, che può consistere in una serie continuata di metafore (Instit., viii 6 44 sgg.), quando acquista una certa oscurità diventa enigma («allegoria, quae est obscurior, aenigma dicitur»: ivi, 52). Isidoro di Siviglia, che definisce l'allegoria «alieniloquium», cioè un 'parlare d'altro', coglie la differenza tra questa e l'enigma in ciò, che la forza dell'allegoria è duplice, in quanto esprime qualche cosa sotto finzione di altre cose, mentre l'enigma è soltanto un senso oscuro, benché adombrato sotto certe immagini(«Inter allegoriam autem et aenigma hoc interest, quod allegoriae vis gemina est et sub res alias aliud figuraliter indicat; aenigma vero sensus tantum obscurus est, et per quasdam imagines adumbratus»: Etym., I 37 22, 26). Si tratta di "gradazioni" e forme diverse in cui si può esprimere il discorso allegorico, corrispondenti a diverse figure, per altro non sempre nettamente distinte nell'uso antico e medievale. In ogni caso, l'oscurità che si ispessisce fino a diventare un enigma, che difficilmente si può intendere se non venga svelato, come avverte Isidoro («que difficile intelligitur nisi aperiatur»: Etym., I 37 26) - e basti pensare all'«enigma forte» del «cinquecento diece e cinque, / messo da Dio» di Purg., XXXIII 43- 44, 50 -, non esclude il senso, tenuto intenzionalmente nascosto; che può altrimenti essere più scoperto nel simbolo, definito da Riccardo di San Vittore un complesso di forme visibili dato a dimostrazione di cose invisibili («Symbolum est collectio formarum visibilium ad invisibilium demonstrationem»: In Apocal., I 1, in Patr. Lat., 196 col. 686).
Da tecnica ermeneutica dei testi antichi e delle Sacre Scritture l'allegoria evolve dunque a principio di poetica, nel quale è da vedere non tanto - o meglio, non affatto - un modo artificioso, e magari capriccioso, di fare poesia, e tanto meno, come ritenne Croce, «una sorta di criptografia, e perciò un prodotto pratico, un atto di volontà, col quale si decreta che questo debba significare quello, e quello quell'altro»; per darne una netta condanna e concludere che, «nella poesia, l'allegoria non ha mai luogo». Al contrario, ben altrimenti che «il fare a nascondino, il proporre e sciogliere indovinelli» - sono ancora parole di Croce -, magari per il puro gusto di fare e «decifrare […] i criptogrammi allegorici» (ivi), l'allegoria corrisponde a un atteggiamento culturale tipico del Medioevo, a una sua visione enigmatica e problematica della realtà, che tende a cogliere significati nascosti in tutte le manifestazioni del creato, ad attribuire valori simbolici alle cose e alle parole, di cui si deve anche con fatica indagare e non sempre è possibile scoprire il senso profondo. «Essa presuppone […] - scrivono Bruno Basile ed Ezio Raimondi - un abito di pensiero, una mentalità emblematica che si associa a un'ontologia metafisica in cui è possibile rappresentarsi l'universale come se fosse una cosa concreta, e s'inquadra in una visione critica dell'universo secondo cui il libro della natura riceve luce di continuo dal testo sacro, che è il libro di Dio». Coerentemente con questi principi, la Commedia sviluppa una complessa allegoria, in cui "sotto figura" di fatti ed eventi che rientrano - o s'immagina che possano rientrare - nella sfera dell'esperienza sensibile sono rappresentate verità e proposti insegnamenti che vanno al di là di questa. I «quattro sensi» che nel Convivio vengono attribuiti alle «scritture» poetiche, in analogia con quelli che l'esegesi biblica aveva indicato nelle Sacre Scritture, si possono riconoscere anche nel poema, anche se non è certo che tutti Dante intendesse effettivamente attribuire alla Commedia, come non tutti sono espressi e illustrati nelle canzoni del trattato. Il senso letterale, che «sempre [...] dee andare innanzi, si come quello nella cui sentenza li altri sono inchiusi» (ii 1 8), consiste nella pura e semplice narrazione della vicenda di cui Dante immagina di essere stato protagonista, dallo smarrimento nella selva all'ascesa all'empireo. Il senso allegorico consiste nel significato generale che è nascosto sotto il velo di quella narrazione e che, intrecciato con altre mille allegorie particolari, metafore, simbologie, enigmi più o meno impenetrabili, si riassume nella rappresentazione dell'anima umana che dallo stato di colpa e di peccato, attraverso il pentimento, perviene alla salvezza e alla beatitudine eterna. Il senso morale, o tropologico, si può ritrovare nell'insegnamento che dalla vicenda narrata deriva al lettore, stimolato da quel caso esemplare a passare dalla condizione di peccato allo stato di grazia. Infine, il senso anagogico (dal greco anagogé, latino anagoge, 'elevazione', formato da ana, 'sopra, in alto', e agein, 'condurre'), definito anche «sovrasenso», sarebbe da riconoscere nel profondo significato spirituale della scrittura, che illumina sull'escatologia e consente l'accesso alle verità universali della fede. Ma questo, si legge ancora nel Convivio, «è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora eziandio ['anche'] nel senso litterale» (ii 1 6): è dunque nei testi sacri, che uniscono la verità della lettera alla verità del messaggio, non anche nelle «favole» dei poeti, in cui «è una veritate ascosa sotto bella menzogna» (ii 1 3). Perciò - se si esclude che Dante, si è detto, possa credere di aver rappresentato nella Commedia un'esperienza mistica realmente vissuta, fino a far coincidere allegoria poetica e allegoria teologica, la verità della fabula con quella del messaggio che vi è sotteso -, sembra da ritenere che, come propone l'Epistola a Cangrande, il significato didascalico, edificante e morale, dell'opera, sia assorbito e venga a confondersi con quello definito genericamente allegorico, inteso «secondo che per li poeti è usato».
L'allegoria comprende dunque ed esprime tutte le valenze del discorso poetico della Commedia, oltre quella letterale, nonché tutte le possibili forme di espressione figurata, e in tutte le possibili gradazioni di trasparenza o di oscurità. Un paio di volte è Dante stesso che esplicitamente richiama l'attenzione del lettore, o sulla complessità del discorso allegorico che va svolgendo (in Inf., IX 61- 63):
O voi ch'avete li 'ntelletti sani [= capaci di capire],
mirate la dottrina [= l'insegnamento morale] che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani [= misteriosi, enigmatici];
o altrimenti sulla trasparenza dell'allegoria (in Purg., VIII 19-21):
Aguzza, qui, lettor, ben li occhi al vero [= al significato autentico del mio discorso, quello allegorico],
ché 'l velo è ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro è leggero [è facile oltrepassarlo].
Mentre nel caso appena visto del «cinquecento diece e cinque» è dichiarato che si tratta di un'«enigma forte», perciò difficile da penetrare. In ogni caso, avverte Michele Barbi, «strettamente connessa col senso letterale e insieme con esso concepita, [l'allegoria] contribuisce a chiarire gl'intendimenti del poema; onde merita che si ricerchi con ogni cura»: ma non deve questa prevalere sull'esposizione letterale. Come non bisogna enfatizzare la componente di «misticismo del "poema sacro". Affaticato Dante dai travagli materiali, dalle delusioni morali, assetato di verità e di pace, ripiega talvolta il capo nel misticismo; ma è una quiete apparente, e la terra pone mano al poema non meno che il cielo. Per ben confessare a Beatrice di aver fallato nell'amore delle cose terrene e credersi "puro e disposto a salire alle stelle", può compiangere l’”insensata cura de' mortali" e sorridere del "vil sembiante" della terra; ma a questa terra troppi ricordi e troppi desideri lo legano ancora; e il poema stesso egli lo scrive per amore vivo ed intenso a quelli che in essa vivono "tutti sviati dietro al malo esemplo"; e il suo sdegno prorompe più libero nella corte del cielo che nel regno dei dannati. Chi non vede e non sente questa intima e continua contradizione del cuore di Dante, non può intendere la sua poesia».
La figurazione allegorica, del resto, corre parallelamente, ma strettamente, intimamente connessa con la figurazione istoriale, cosi che i due piani tendono spesso a confondersi: e se non mancano i casi in cui, per scelta più o meno intenzionale dell'autore, restano incerti o anche oscuri i valori simbolici - a volte univoci, a volte polivalenti - attribuiti a figure e cose che entrano in vario modo e con diverso rilievo nella narrazione (dalle tre fiere al veltro, alle furie, al Veglio di Creta, a Gerione, ecc., fino a Virgilio, a Catone, alla stessa Beatrice); se non di rado anche la lettera indulge a una voluta oscurità o ambiguità semantica, giocata sull'allusione sfuggente o sulla consapevole e senza dubbio ricercata polisemia verbale; non ne viene tuttavia compromessa la coerenza e la compattezza della rappresentazione poetica, tutta costruita intorno alla figura dell'attante, che è insieme narratore, protagonista, simbolo.