Dati bibliografici
Autore: Mario Rossi
Tratto da: Gusto filologico e gusto poetico
Editore: Laterza, Bari
Anno: 1942
Pagine: 112-128
Credere di aver vittoriosamente dimostrato la piena legittimità estetica della allegoria di Virgilio, osservando che essa non può riuscire esiziale al Poema, perché in esso pienamente giustificato nel senso letterale quello che serve all’allegoria , è non rendersi conto in niun modo che questo Virgilio-concetto, è una illusione del poeta e dei suoi critici, un’ombra vana senza soggetto, che ci dilegua dinanzi tutte le volte che stendiamo le mani per afferrarla. Perché la verità è che Virgilio, quale vive di vita immortale nel Poema, non è la ragione umana, e neppure è la ragione di Dante, ma è in tutta la sua complessità e ricchezza uno dei fondamentali aspetti della vita spirituale del poeta, come sopra è stato lungamente chiarito.
Ma il poeta volle significare in esso la ragione. E chi ne dubita?
Ma noi diciamo che, al di sopra delle intenzioni e illusioni del poeta e dei suoi critici, la verità è che dove c'è Virgilio non può insieme con lui esserci l’astratto concetto della ragione; e dove invece quel concetto pare spuntare come realtà, là Virgilio come poetica individualità necessariamente dilegua.
Infatti se io mi risolvo, come è pur necessario fare, ad allontanare da me pazientemente, ad una ad una, le sempre più ricche determinazioni individuali, in cui la immortale immagine si è venuta concretando, sicché io possa trovarmi finalmente innanzi al concetto recondito nascosto sotto la lettera; se io faccio questo, ecco che io m’accorgo che tanto più la immagine poetica m'appare prossima all’astratto concetto in essa allegorizzato, quanto più io la contemplo quale essa mi si rivela ai due punti terminali dell’azione: quando essa s’allontana per le preghiere di Beatrice dal Limbo, per accorrere in aiuto di Dante ai piedi del colle, e quando tristemente discende dalla vetta dell’ Eden, per tornare nel suo doloroso soggiorno al sopraggiungere di Beatrice.
Fra quei due punti estremi è la ricchissima individuazione del carattere di Virgilio, che i lettori del Poema si portano nel cuore come una delle più alte e gentili rivelazioni di umanità che la storia della poesia conosca. Ma al di fuori della zona luminosa compresa fra quei due punti estremi la personalità di Virgilio tende a dileguare nella astrattezza e genericità di quel suo vivere senza speme in disio con i più grandi spiriti dell’antichità.
Pure la dileguante immagine è ancora in qualche modo fermata dal canto del poeta, per solo un istante, prima che vanisca del tutto nell’ombra. Poiché, certo, il poeta può ancora, e noi possiamo con esso, ricollocarla idealmente nel castello luminoso del Limbo, e immaginarla di nuovo nella nobile schiera degli spiriti magni, e possiamo, in pieno accordo con il poeta, immaginare quei nobili spiriti assorti in profondi pensieri e conversanti gli uni con gli altri delle altissime cose che furono loro care nel mondo. Ma anche queste vaste e melanconiche immagini finiscono con il dileguare come inconciliabili con l’astratto concetto che lavora celato dentro di esse, e che non può non finire con il dissolverle. Perché se io debbo veramente provarmi a immaginare quegli altissimi spiriti come in eterno viventi, per divino volere, senza speme in disio, quale altro punto d’approdo resterà al mio spirito salvo quello di un non meno inimmaginabile che impensabile equipararsi di tutte quelle grandi individualità nella immobile uniformità di un unico ed eterno sentimento? Uniformità dissolvitrice della umana individualità, e perciò di poesia e di vita.
È facile obiettare: ma non ha Dante continuamente evitato questo scoglio? e davvero è possibile parlare di annullamento della umana individualità innanzi ai grandi spiriti raccolti nel nobile castello?
Ma è altrettanto facile rispondere che se lo scoglio è stato evitato, esso è stato evitato appunto in quanto la poesia è entrata in conflitto con quella astratta situazione del viver senza speme in disio, come è facile intuire, solo che si voglia fermare, anche fuggevolmente, il pensiero sul contrasto fra quel doloroso stato d’animo e la rappresentazione che il poeta ha fatto della personalità di coloro che non potrebbero, secondo l’astratto presupposto del canto, non annullare completamente la loro individualità nella intensità di quell’unico sentimento, e che sono, invece, ben lungi dall’abbandonarsi a questa dissolvitrice esigenza della struttura.
Come può Cesare con quel sentimento di tragica disperazione che Dio gli ha: piantato nel cuore, andarsene attorno laggiù, con occhi grifagni, chiuso ancora nella sua armatura? E come può Ismene mostrarsi triste nel Limbo piuttosto del fato che perseguitò e disperse la sua sventurata famiglia, che della pena assegnatale da Dio? . E come può egli stesso, Virgilio, il cui cuore si sfa in quella in eterno invocante e vana sete di Dio, trovare ancora in sé la forza di intrattenersi spesse fiate con i grandi poeti dell’antichità a ragionare di poesia? .
E perciò la verità è che queste poetiche immaginazioni non sono svolgimenti e prosecuzioni della iniziale situazione del vivere senza speme in disio, ma sono anzi un tentativo di superarne la astrattezza, entrando in contrasto con essa. La quale, nondimeno, perché continuamente presente ed attiva nelle immagini che tendono a liberarsi da essa, tende continuamente a dissolverle nella propria astrattezza.
Il Limbo dantesco, così quale il IV canto ce lo presenta, è, come abbiamo veduto, un compromesso fra queste due divergenti tendenze.
Ma tutto ciò che siamo venuti ragionando significa che allo stesso modo che, abbandonata alla sua intima legge, la immagine di Virgilio-guida doveva necessariamente disfarsi nella inafferrabile immaginazione di un Virgilio in eterno sospiroso nella tristezza del nobile castello ; così questa stessa immagine, doveva necessariamente dissolversi nella astrattezza di un inimmaginabile stato d’animo. Un accorato piangere in un cerchio infernale insieme con i parvoli innocenti, un ardente e vano anelito a Dio: tale il poetico residuo della grande figurazione di Virgilio.
Giunto a questo punto del suo procedimento creativo, e cioè pervenuto innanzi al totale dileguare della sua forse più alta creatura poetica nella astrazione, il poeta sente disciogliersi la sua personale esperienza, — voglio dire il tentativo di dar vita ad una alta e ricca e dolorosa personalità umana al di là dell’ invalicabile limite fissato dalla speculazione medievale —, sente disciogliersi codesta sua consolante ed alta esperienza in quella dolorosa vanificazione dell’umano, che segna l’inevitabile punto d’approdo del pensiero medievale. Il quale quanto più, vigorosamente travagliato dalle sue contradittorie esigenze, aveva dovuto talvolta far battere l’accento sull’aspetto della eteronomia dello spirito umano, tanto più aveva sentito che la personalità umana gli si sfaceva in un umiliante e doloroso annullamento di sé.
Dopo ogni suo più alto volo esso aveva ripiegato tristemente le ali sul desolato scoglio dell’ascetico disconoscimento della creatività dello spirito umano. La umana personalità, la sua insonne attività, i suoi nobili orgogli, le sue inestinguibili seti si snaturavano in un dolente e smarrito e invano invocante relitto di umanità .
Che può l’uomo per virtutem suae naturae se non facere opera perducentia ad bonum aliquod particulare, sicut laborare in agro, bibere, manducare et habere amicum et alia huiusmodi? (S. Tommaso, Summa Th., 1, 2, q. 109, a. 7).
In verità, anche a voler essere di facile contentatura, non è molto.
E in quanto ratio naturalis che altro può esso se non manu duci per sensibilia? (ibid., 1,1, q. 12, a. 12).
E perciò come può la ragione in quanto tale, non guardare atterrita dentro la propria inanità e non risolversi completamente in essa?
Il Limbo dantesco è il tentativo di tradurre in una vasta e dolorosa immagine poetica questo tragico vanificarsi della ragione innanzi all’assoluto. Ma la immagine poetica, come abbiamo accennato, non è già, in realtà, espressione di quell’ indefinito e perciò inesprimibile contenuto, ma di un contenuto di concreta umanità, di cui quella inafferrabile indefinitezza costituisce la invitta irrealtà e il limite, e che non può perciò espandersi vittoriosamente al di fuori di esso, e che corre perciò continuamente pericolo di essere compromesso e negato, e perciò fatto inimmaginabile per la presenza di quella invincibile astrazione. E, insomma, il compromesso fra la esigenza profonda del vivere, che è sempre in ogni suo momento certezza o invocazione della presenza di Dio, e la irrealtà spirituale del vivere senza speme in disio, se poteva esprimere da sé la immaginazione,— tutta travagliata, come abbiamo veduto, dalle interne contraddizioni, che reca chiuse dentro di sé —, della vita degli spiriti magni nel Limbo, chiudeva però in sé per le ragioni dianzi lungamente discorse la esigenza di un dissolversi della conquistata immagine nell’astratto concetto da cui quella aveva preso le mosse. Di qui il bisogno di una ulteriore realizzazione fantastica, la quale s’allontanasse assai più che non avesse fatto la immaginazione degli spiriti magni del Limbo dalla astrattezza del presupposto iniziale e dal pericolo insito in esso di una dissoluzione della immagine in essa.
Questa più concreta realizzazione è la immaginazione di Virgilio, guida al poeta dalla selva oscura alla selva edenica, immaginazione che è una cosa sola con il pieno espandersi in una così alta e ricca individualità della figura dianzi muta e dolente di Virgilio, prossima a dileguare, insieme con quella dei suoi grandi confratelli del castello luminoso, nella buia astrattezza, dalla quale per un'istante era emersa.
Il sentimento della irrealtà ideale di quel viver senza speme in disio, preso dentro il procedimento da cui è nato Virgilio diventava la sua umana tristezza, la sua logorante sete di Dio, e cioè si trasformava in stimolo ad evadere verso più alte forme di umanità. Ma in quanto quella irrealtà ideale, quella inafferrabile astrattezza era pur sempre presente ai margini del mondo poetico, essa doveva necessariamente tendere a riattrarre in sé ed a spengere dentro la propria inconsistente indefinitezza la stessa individualità di Virgilio-guida.
Ridiscendendo nel Limbo, la immagine di Virgilio, rientrava nella nobile schiera dei grandi spiriti di Grecia e di Roma, il suo nobile volto ridileguava tra gli altri innumeri volti, la sua anima scioglieva la ricchezza della sua nobile e delicatissima vita interiore nella eterna immobilità di quel sentimento di inane desiderio.
È a questo punto, come abbiamo veduto, che la individualità poetica di Virgilio, smarrita ogni concretezza, si adeguava all’astratto concetto della ragione medioevalmente concepita come chiusa dentro un limite invalicabile. Per tal modo il procedimento, in realtà negativo, attraverso il quale la immagine era andata disciogliendosi nel buio concetto da cui era emersa, appariva al poeta per una singolare illusione, come creativo di una assai più alta realtà spirituale: quella del concetto di ragione . Illusione non difficile a spiegare, se si pensa che per questa via il poeta giungeva innanzi alle ciclopiche muraglie che il pensiero medievale non poteva attentarsi a superare.
Obiettare: — ma come spiegate allora la indubitabile presenza della significazione allegorica nello spirito del poeta, anche là dove la immagine poetica è ancora ben lontana da questa sua vanificazione nell’astratto? — obiettar questo sarebbe non rendersi conto che quella astrattezza non è alla fine del procedimento poetico come suo resultato, ma alla fine insieme ed all’ inizio; e che la esigenza di una significazione allegorica non poteva perciò non essere continuamente presente allo spirito del poeta.
Che cosa significa tutto questo? Per noi significa chiarissimamente, ancora una volta, che credere di poter penetrare nel Poema attraverso la significazione allegorica è ostinarsi a picchiare a una porta dipinta sul muro: inutile insistere, nessuno scende ad aprire. E nel caso particolare della genesi e del significato della figurazione di Virgilio, è per noi altrettanto chiaro che il problema che il poeta ebbe innanzi a sé e del quale tentò la ardua soluzione, creando la immortale figura di Virgilio, non era un problema che egli fosse in grado di risolvere in sede filosofica, (perché filosoficamente il poeta era anch'egli, in certo senso, uno sconfitto, se in ultima analisi il concetto di ragione gli si adeguava necessariamente al concetto di vanificazione della ragione stessa); ma era un problema posto e risoluto in termini di sentimento, e cioè come contemplazione della vita alla luce della poesia.
Così il procedimento di sopra chiarito, attraverso il quale poesia e struttura tendono di continuo, reciprocamente limitandosi, ad annullarsi l'una nell'altra, trova piena conferma nella genesi della figura di Virgilio, la quale si muove anch'essa nell’ irrequieto giuoco dialettico di struttura e poesia, in conformità della legge di sopra chiarita. Giacché i momenti del suo poetico realizzarsi e del suo dissolversi non possono, chi ben guardi, essere determinati altrimenti che così:
a) momento marginale ed estrinseco alla poesia, o dell’ indefinito e astratto concetto dello spirito umano come chiuso dentro un limite, che non gli è dato varcare, e perciò invano ed in eterno anelante a Dio;
b) momento della tentata realizzazione fantastica di questo astratto concetto nella rappresentazione di Virgilio avente soggiorno insieme con gli spiriti magni nel Limbo —; rappresentazione recante dentro di sé, come credo di aver chiaramente dimostrato nelle pagine che precedono, la ragione del proprio ricadere e dissolversi nell’astrazione stessa, da cui aveva preso la mosse;
c) allontanamento di questa intrinseca necessità di dissoluzione, mediante il tentativo di una ulteriore realizzazione poetica (Virgilio-guida);
d) la quale nondimeno, in quanto indissolubilmente connessa a quella attuatasi nel momento è non poteva non risolversi in essa;
e) e attraverso di essa non tornare a disciogliersi nella astrattezza del primo momento.
I momenti a ed e aprono perciò e chiudono il circolo ideale del procedimento genetico, da cui sorge il Virgilio dantesco. Due ed uno al tempo medesimo, essi rappresentano il limite prima allontanato, e poi necessariamente ritornante.
I momenti d e d sono, invece, i momenti dell’ambiguo ondeggiare del fantasma fra poesia e astrattezza. L'uno di essi svolge da sé la possibilità in esso implicita del proprio ascendere verso una piena individuazione poetica; l’altro invece svolge la possibilità del proprio discendere verso la vuota astrazione.
La ineliminabilità di questo momento dal procedimento genetico del Poema porta necessariamente con sé la presenza, ai margini del mondo dantesco, di questo impoetico Virgilio, disciogliente in eterno la propria personalità nella astrattezza di un unico sentimento.
Perciò, a differenza di tutte le veramente poetiche creature della fantasia umana e a differenza dello stesso poetico Virgilio, che si allontana silenziosamente, quando la missione a lui affidata è compiuta, questo esangue Virgilio di origine strutturale non può mai risolvere la sua individualità nella realtà del mondo poetico di cui è un momento, dileguando in essa quando la sua opera è compiuta.
Tutte le immortali creature della poesia, — siano il dolore o l’eroica offerta di sé all'idea e al dovere, o il delitto, o la morte che le traggano per sempre lontane dal mondo poetico al quale appartengono, — sempre rivelano con il loro dileguare l’affermarsi delle eterne leggi della vita.
Il fuggevole istante in cui, ancora una volta, don Rodrigo appare nel romanzo, — prima che il poeta lo allontani da sé per sempre, — immoto nel suo giaciglio d’appestato, con gli occhi spalancati, ma senza sguardo, simile già in tutto a un cadavere, ma agitato il volto da una contrazione violenta, testimonio di una vita tenace, e la destra, con uno stringere adunco delle dita, premuta sul petto vicino al cuore —; quell’ istante fuggevole è una cosa soltanto con il pieno rivelarsi allo spirito del poeta della eterna legge della colpa.
Ciò che è per sua immutabile legge il delitto —, tragica impossibilità di accettare la vita e non meno tragica impossibilità di accettare la morte —, il comico nulla innanzi agli eterni valori dello spirito di ciò che parve alla iniquità così grande, il nulla dei suoi oltracontanti orgogli, delle sue superbe ebbrezze, dei suoi miserevoli trionfi, della sua ricchezza e potenza (oh! l’amarissimo sorriso, che sale alle labbra, mentre il cuore s'empie di un sentimento di infinita pietà innanzi a quella cappa signorile stesa sul misero giaciglio dell’appestato!), il senso di muta e impietrata disperazione che sale da quel letto di morte; — tutti questi terrificanti aspetti della ideale irrealtà della colpa, del suo tragico dileguare nei bui abissi della negazione e della morte, con quale tragica potenza sono evocati nella pagina immortale! E nondimeno, come sotto quella tragica disperazione, ignara di sé e di Dio, senza luce di pensiero, senza conforto di parola, — come sotto di essa il poeta ha avvertita la possibilità che attraverso l’orrore del suo nulla, la colpa possa, conforme alla sua intima legge, tramutarsi in disperata sete di Dio!
Quale orrendo e tenace groviglio di oscuri spaventi e di rimorsi vorrebbe strappare dal cuore quell’adunco stringer delle dita premute sul petto?
Il poeta ha guardato con religiosa commozione dentro questa arcana possibilità di perdizione e di salvezza, che la colpa per sua intrinseca natura reca chiusa dentro di sé, e ha sentito in essa la presenza di Dio.
«Tu vedi!, disse il frate, con voce bassa e grave. Può esser gastigo, può essere misericordia.»
Ma i sentimenti di pietà infinita e di trepidante amore con cui ogni umana creatura guarda dentro questi paurosi abissi, che sembrano invocare con tutto lo spavento delle loro tenebre un raggio di luce, il poeta ha espresso nella commovente immaginazione della muta e atterrita preghiera del frate e della stessa vittima per lo sventurato Rodrigo.
La fine dell’episodio, che lascia, per l’allontanarsi di padre Cristoforo e di Renzo, solo di nuovo il morente innanzi al tragico mistero del suo destino, risolleva in alto sulla pagina immortale, che ne è tutta illuminata, il fondamentale motivo d’ ispirazione, sul quale ho richiamato l’attenzione del lettore.
Ebbene quale altro valore può qui riconoscersi al disparire per sempre di don Rodrigo in quelle circostanze dal romanzo, se non quello dell’affermarsi, ancora una volta, iri questo suo nuovo particolare aspetto, della invocazione che sale a Dio da ogni anche più tenebroso abisso?
Perciò quell’attimo fuggevole è, come ogni attimo di vita eterno, eterno non già nel suo particolare ed effimero apparire, ma nella attività creatrice dello spirito, che lo ha espresso da sé per risolverlo in sé.
Se il poeta avesse voluto renderlo eterno nel suo temporaneo apparire, e avesse, per esempio, voluto obbligarci a immaginare don Rodrigo immobile per l'eternità nel suo giaciglio, con gli occhi in eterno sbarrati nel vuoto, con l’anima sospesa in eterno fra misericordia e castigo; noi dovremmo allontanare con un senso di insuperabile disagio questa immagine, e ritorneremmo con inestinguibile desiderio a quella del romanzo, la quale atterrisce ed esalta la nostra coscienza di uomini, perché ci fa sentire, come sempre l’arte ha potenza di far sentire, la impossibilità di avellere un attimo solo della nostra vita dall’eterno; mentre è appunto in una impensabile e non immaginabile petrificazione dell’attimo che si dissolve la creatività dello spirito.
A proposito di quale altra creatura che i poeti, dopo averla lungamente contemplata ed amata, abbiano sentito distaccarsi infine dal proprio spirito, allontanarsi per sempre dal loro mondo poetico, non sarebbero da ripetere considerazioni analoghe a queste fatte a proposito del don Rodrigo manzoniano?
La Didone virgiliana, che fugge torva e sdegnosa la luce, e che pur volge, ancora una volta, gli occhi morenti verso la immensa luce del cielo, e geme - quando la trova; l’Ulisse dantesco, la cui grandezza è il suo stesso disparire nel mare silente e deserto che richiude i suoi flutti sopra di lui; re Lear che s’abbatte fulminato dal dolore, accanto alla sua creatura, fredda ormai come la terra, presso la sua pura e soave Cordelia, la cui voce era così dolce e così commovente, ed è muta ora per sempre; l’Elettra foscoliana, che trasfigura il suo stesso morire in un supremo e sublime atto d’amoroso abbandono; Margherita, sola di nuovo, in presenza della propria disperazione e di Dio, nella solitudine del suo carcere, dopo l’abbandono di Enrico; il principe Andrea di Guerra e Pace, i cui occhi morenti si levano dal campo insanguinato, dove ha infuriato la battaglia, e che sente pienamente svelato da quella profonda, remota, luminosa pace il segreto, del quale aveva invano chiesto lungamente la rivelazione alla vita; il povero soldatino di Nummero vintuno di Salvatore Di Giacomo, una delle più pure e dolorose creature che abbiano mai preso vita in anima di poeta, lo scasato guaglione, un puro numero nell'Ospedale della Trinità; ‘o nummero vintuno, che è solo nel mondo con la sua malattia inguaribile e la memoria e l’onta dei delitti e delle vergogne della sua famiglia e il suo gran cuore umile e puro, assetato di bontà e pieno di tremante tenerezza fraterna per tutti coloro che soffrono, e malato com'è vo’ fa’ o nfermiere, (e anche questo diventa oggetto di incomprensioni crudeli), e si leva di notte e accorre tossendo al letto di chi invoca invano nu surzo d’acqua; e una notte gelida d’ inverno che egli invoca dolorosamente nessuno si muove, e la monaca al mattino
'o truvaie muorto, ‘o truvaie friddo già;
ed egli dispare per sempre con quella gran sete di umana comprensione e di amore, in un atteggiamento di finalmente conquistato riposo:
Finalmente accusì, stiso ’a supina,
s’arrepusava ‘int’a ll’eternità:
ma mmiez’ ’a faccia addelurata e fina
Il’ occhie ancora cercaveno piatà... —;
tutte in varia guisa queste creature della poesia e le altre, che sarebbe facile aggiungere a queste che abbiamo ricordate, dileguano secondo la legge di sopra chiarita, simili in tutto, come del resto le creature tutte non dell’arte soltanto, ma della vita, a poveri sarmenti che si contorcono e spasimano e muoiono nella vorace fiamma, e il cui stesso soffrire ed annullarsi è luce ed è calore.
Ebbene ognuna di queste creature poetiche, se arbitrariamente immobilizzata in un sentimento: unico ed astratto, starebbe sullo stesso piano, in cui ci appare l’impoetico Virgilio, che il presupposto strutturale ci fa obbligo di immaginare tornato dopo il viaggio attraverso i primi due regni nel nobile castello a struggersi in eterno in un desiderio non meno ardente che privo di speranza.
Ma il poetico Virgilio, quello che ha fatto battere il cuore del poeta non è questo che si rifiuta di dileguare per sempre nell’ombra, quando la missione da Dio affidatagli è stata compiuta.
Dante ignora, in quanto poeta, questo impoetico Virgilio di origine strutturale, petrificato in un unico immutabile sentimento, laggiù nella grande tristezza del castello del Limbo. Il poetico Virgilio, quello la cui immagine empie d’ammirazione e di tenerezza il ‘ cuore del poeta e dei lettori, non è questo, ma l’altro, quello che è uscito dai faticosi ozi del Limbo per farsi guida a Dante fino a Beatrice, e che, quando il dovere è compiuto, s’allontana in silenzio, senza strazianti addii, pieno il cuore di virile melanconia, e dispare per sempre nell’ombra. E già è lontano, e il poeta che ancora lo crede presso di sè si volge a lui improvvisamente per dirgli la commozione che ha destato in lui l’apparir di Beatrice, e non lo trova, e il cuore gli si stringe di dolore, gli occhi gli si empiono di lacrime, e gli bisogna nondimeno contenere il dolore, reprimere il pianto, levare l’anima e il volto verso Beatrice che addita più alti ed ardui doveri.
L’altro Virgilio, quello d’origine strutturale, è del tutto dimenticato, muore nella fantasia del poeta, chiusa con austera commozione dentro questo eterno momento di vita che è il disparire dei puri ed alti cuori che ci hanno lungamente illuminato il cammino, e poi improvvisamente ci abbandonano. Giace tristemente a terra, infranta, la lampada che splendeva sul nostro sentiero. Guardano gli occhi pieni di lacrime, ma il cuore sa farsi, sopra il suo dolore, lampada nella quale risplendano con luce sicura il pensiero, la bontà e il dolore di coloro che più non sono con noi.
Ed è invece l’altro Virgilio che sta a cuore al dantismo, quello poeticamente inesistente, che simile a un'ombra inafferrabile appare talvolta solo un istante, e subito dopo dispare, sulle grandi muraglie della struttura.
Quanti inesistenti problemi su questo inesistente Viriglio, agitati da una critica inesistente!
Quale sorte riserbava Dante a Virgilio, ritornato nel Limbo dopo il suo viaggio per l’Inferno e per il Purgatorio? Potè bastargli il cuore di immaginare che il suo Virgilio, il padre suo, il duca, il maestro sarebbe per sempre rimasto laggiù a struggersi in una eterna e disperata sete di Dio? O non pensò piuttosto che la condizione di lui avrebbe potuto, quando che sia, essere migliorata da Dio? Come potè Dante, che non aveva esitato ad aprire a Traiano ed a Rifeo le porte del cielo, immaginarle chiuse per sempre al suo Virgilio, che «aveva anche migliori titoli di costoro per essere salvato»? .
Poletto, Bottagisio, Barone sono per la eterna «condanna . Busnelli e Soldati non sono alieni È dallo spalancargli le porte celesti.
Pietrobono, seguace anche in questo del Pascoli, ritiene che 4utto faccia presagire che egli (Virgilio) e gli spiriti magni e i parvoli innocenti del Limbo verranno un giorno non lontano a godere la felicità nel paradiso terrestre .
Scherillo si domanda, spiritoseggiando, se l'essere Virgilio reputato degno di missioni tanto delicate non possa significare che anche per lui la grazia si trova per via .
Inconsistenti problemi e che si prova fastidio o sdegno a veder rumorosamente agitati in luogo dei veri, grandi problemi che ci vengono incontro dalla poesia di Dante, e spesso esposti e risoluti in una forma che vorrebbe essere arguta, e dovrebbe essere definita con ben diversi aggettivi, e che offende e turba profondamente chi ha senso di poesia e di cui è un pallidissimo saggio la spiritosaggine or ora riferita dello Scherillo .
E nondimeno se problemi e soluzioni di una così ineffabile ingenuità critica sono sorti sul terreno del dantismo con un rigoglio incomparabilmente maggiore di quello con cui sono comparsi in ogni altro dominio della critica letteraria, cosicché a nessuno studioso del Manzoni, per esempio, è mai, che io sappia, saltato in mente di domandarsi se Manzoni propendesse per la eterna dannazione o per la eterna salvezza di don Rodrigo, sul cui giaciglio aveva immaginato preganti con tanto ardore di sentimento padre Cristoforo e Renzo – ; se questa non invidiabile prerogativa par propria quasi esclusivamente del dantismo, la ragione di queste pericolose deformazioni critiche, sarà, ancora una volta, da additare nella presenza della struttura, la quale come perde continuamente consistenza innanzi alla sempre trionfante realtà della poesia ed innanzi alla penetrazione e chiarezza del giudizio critico che di quella vittoriosa realtà si fa chiaramente consapevole; così tende continuamente a riaffermare la sua fallace realtà, dove la fantasia del poeta e il pensiero del critico attenuano o perdono il loro vigore.