Dati bibliografici
Autore: Giulio Marzot
Tratto da: Dante nella critica d'oggi
Editore: Le Monnier, Firenze
Anno: 1965
Pagine: 180-193
Nel 1956, quando uscì il nostro saggio sul Linguaggio biblico nella «Divina Commedia», il rapporto tra Dante e le sacre scritture era già avviato a ben altro approdo. Tuttavia a noi sembrava ancor utile riprendere i fili di una tradizione più propriamente vòlta allo studio formale di quel linguaggio, che aveva raccolto l'interesse, tra i primi, del Foscolo, e indi e soprattutto del Tommaseo e del Perez (e tra i minori, ma pazienti ed esclusivi ricercatori, del Cavedoni). Poiché gli elementi scritturali da essi considerati, pur minuziosi e corredati di dottrina, giovavano come filologica illustrazione dell’opera dantesca — specie della Commedia — per renderla al suo colore originario, o traevano qualche occasione da concordanze ed analogie tra gli scrittori sacri e il poeta medievale per stabilire particolari quesiti di interesse dottrinario; e lasciavano in disparte (così ci pareva) il tema della motivazione storica e psicologica del biblismo dantesco. Quel nostro libro allora si proponeva di rispondere a queste domande: come la letteratura biblica entri nella cultura dello scrittore e vi si armonizzi; quando abbia potere e ragione di apparire, e in quali forme retoriche e linguistiche, e a quale scopo; infine, nella sintesi del pensiero e del gusto poetico e letterario di Dante, quale importanza il momento biblico assuma. Ed era tema che imponeva attenzione a discriminare luoghi e circostanze; a concertare attorno al punto singole e precise analisi; a ricomporre, sulla trama di una palpitazione emotiva diffusa, una storia particolare e distinta.
A convalidare quel sottile edificio ben soccorreva una tradizione di studî e di osservazioni di retorica e stilistica sul fondo dello spiritualismo biblico e cristiano; e taluni scrittori, dal Seicento al secondo Ottocento, ci parvero affini o prossimi al tono della nostra ricerca: Bossuet, Gravina, Conti, Burke, Chateaubriand, Schlegel, Foscolo, Leopardi, Rosmini, Ozanam, Fornari, Tommaseo, Perez. Poiché dopo il ’70 gli interessi della cultura perdettero familiarità con la tradizione di sensibilità religiosa, anche il dantismo preferì le forme della filologia erudita; e lo studio stilistico del D’Ovidio non più rilevò la caratteristica di quel tema, e solo nel primo Novecento (1902) il Lisio, di scuola carducciana, definì la storia dell'incontro di Dante con la Bibbia, cercando la spiegazione della sua nuova arte di comporre il periodo. Poi il Vossler riprese il tema generale della genesi della Commedia, ma eliminando o limitando l’apporto positivo della letteratura scritturale. E dal Vossler in parte prende avvio la nostra critica dantesca laica-idealistica, di preferenza rivolta allo studio dei valori poetici ed espressivi, ma tenendo questi autonomi nel gran quadro della formazione dottrinale di Dante e dei rapporti tra dottrina e poesia. Tuttavia a qualche carattere del dantismo biblico, secondo la sensibilità dell'Ottocento romantico e cristiano, per quanto riguarda la «risorsa» del primitivismo ci riporta l’Apollonio nella Storia della «Commedia» (1951) e il Flora nella Poesia della Bibbia (1959). L'Apollonio tiene presente la doppia tradizione: la stilistica formale e la dottrinale allegorica, traducendo in una descrittiva colorita e sinuosa il vario manifestarsi e trasparire, entro la medievale sensibilità e figuratività dantesca, l'immagine dell'umanità primigenia: cioè di alcune facoltà segrete e sepolte nella personalità di Dante, che le occasioni del vivere, per contrasto o per analogia, tendono a rimettere in luce. L’Apollonio ha l’attitudine (e l’estro arguto) della transvalutazione: da un reale fisico e corposo a uno metafisico, che conserva qualche fisicità e corposità; da un paesaggio naturale — di forme, di fatti, di clima, di tempo, di opere, di caratteri etnici — ad un paesaggio d’anima e di storia umana, che a quello attinge e di quello si veste, senza per questo perdere la sua verità spirituale; dalla topografia locale alla cosmografia universale; dal tempo ch'è proprio di Dante e del personaggio in cui egli s'incontra, di nitida contingenza, all’eterno che lo rende immobile, esemplare; dalla mitologia alla storia, alimentate l'una della sostanza dell’altra; e, nel suo aspetto più minuto, dalla parola, che è « flatus » e segno, alla cosa di cui la parola è pregna, a notare che, in fondo, per la necessità della economia dantesca, ogni cosa è se stessa e insieme un'altra cosa: cioè che tutto è metaforico e il microcosmo è il macrocosmo rovesciato e viceversa. Dice l’Apollonio: «Nella mentalità cosmografica di Dante, aliena dal considerare l’infinito in divenire, tutto preesiste alla poesia.... L'allegoria e dunque il processo di rifrazione che illumina di nuova luce il mondo prima oscuro...; immagine del mondo, dunque, ancora; e necessaria enciclopedia; ma non descrittività: i miti della parola, gli emblemi in cui la parola si conforma, penetrano nelle sistemazioni simboliche già note e procurano una nuova ese8esi al volume dell’universo» (pp. 272-273).
Anche i libri sacri in Dante sono presenti non come materia su cui il pensiero abbia fatto o vada facendo le proprie esperienze — materia di riscontri, magari straordinari, tra momenti dell'anima lungo la sua storia —; ma come conoscenze che, fatte una volta, annientano ineffabilmente lo spirito, che non più allora si ricerca con chiaro senso del suo stesso procedere e sentire, ma soltanto si riflette, attonito, devoto. Da materia di lettura, la Bibbia diviene materia di esatta, limpida rappresentazione. Dinanzi agli animali apocalittici nel Paradiso terrestre Dante avverte: «ma leggi Ezechiel, che li dipigne»; e l’Apollonio commenta: «la fantasia liturgica salva il narratore dal ridurre la visione ad un giuoco letterario, d'uno che si addormenti in biblioteca: la cultura ecclesiastica, che aveva appunto trasferito i testi sacri dalla lettura alla rappresentazione, gli giova» (p. 768).
È evidente la derivazione di questo metodo di esegesi dal Tommaseo, che scopre Dante poeta cosmico in senso biblico utilizzando indicazioni di altri, ma trovando i moventi etnici di tale sensibilità razionale nella sua stessa natura di greco-slavo. Certo, nell’Apollonio sono entrati anche altri modi di cultura, più legati alla psicologia idealistica-mistica che a quella teologica-sensitiva. Egli perciò, ammodernando il Tommaseo, ci appare sulla scia del Borgese, che aveva teorizzato una sua storia, anzi un «senso della letteratura italiana», dove si muovono i grandiosi simboli del Pantocratore (Cristo vincente) e del suo imitatore (che è il Santo, l’eroe morale) da una parte; e dall’altra l’eroina, Panaghia, la beata Beatrice. Più sottile è il misticismo di G. Manacorda: che specie nelle due opere Poesia e contemplazione (1947) e Delle cose supreme 1950) si erge a maestro di una religiosità metafisica di stile e di sostanza medievale, che egli oppone a salvamento della nostra infelice, corrotta civiltà. L'Ente supremo si rivela nella creazione come numero: l'Uno, l’Uno numerante, in cui l'uomo consegue la sua unità. L'Uno è armonia perfetta di rapporti: di suono, di segno, di moto, di momento d’anima e di pensiero; e tale metafisica porta con sé una gnoseologia, una morale, una poetica, per le quali il Manacorda consulta la Fabbrica dell’universo e le opere degli uomini: «Numeri tutti, di senso, e di soprasenso, davvero mirabilmente ‘sonantes’; attraverso i quali riusciamo ad apprendere essere l’architettura una musica irrigidita, e la musica una architettura disciolta nel flutto della successione. Fabbrica davvero smisuratamente armonica... l'Universo, chiudente nel proprio grembo il doppio inno, minore e maggiore, del canto e del silenzio» . Il silenzio è la parola È di Dio, percettibile all'anima nella vera «solitudo», che sola consente la «similitudo» con Dio.
Nello stato di quiete contemplativa il pitagorico scorge il «numero» — l'ordine dell'universo —; e il mistico celebra le sacre nozze, di cui la tradizione | cristiana-cattolica è traboccante. La prova erudita della sua metafisica il Manacorda l'aveva data in Poesia e contemplazione, toccando con vari esempi il passaggio dal momento sensitivo al mistico e speculativo, nell'opera di Francesco, di S. Ambrogio, del Petrarca: specie sul grande tema della trasfigurazione del dolore in letizia, dove soprattutto il Manacorda scorge la irriducibile antinomia tra il senso della vita cristiana, che eleva limpidamente l'anima all’Uno, e quello idealistico-romantico, che porta ad esperienze torbide ed alla esasperazione dell’egoismo.
L'esempio del Manacorda, anche se non tocca proprio il tema di Dante biblico, aiuta a tener vivo nella nostra cultura un modo di lettura che accoglie l'istanza del teologismo ottocentesco: cioè di una cultura ecclesiastica e monastica che i medievalisti del secondo Ottocento avevano lasciata inattiva, messi come erano alla riscoperta del mondo scientifico della natura e della storia; ma che pure gli idealisti avevano negletto, vòlti all'interesse dialettico del reale-ideale e alla distinzione qualitativa degli abiti spirituali. Modernamente più vivo, e senza segni di sottigliezza dottrinale, si riaffaccia nel pensiero del Buonajuti il tema di Dante, profeta apocalittico (1936): tema già agitato dalle passioni politiche nel tempo che preparò e accompagnò il Risorgimento; ma che anche nel Buonajuti si colora di una larvata polemica anti-curiale e di qualche fastidio per la preminenza della argomentazione teologica sui grandi fatti della vita religiosa, togliendo importanza alla manifestazione delle genuine virtù mistiche ed evangeliche. Similmente nell'anima di Dante si avvicendano e talora contrastano due culture, ch'egli apprese da due cattedre: dalla scolastica-domenicana, in Santa Maria Novella, e dalla mistica-francescana, di cui gli fu maestro il frate Paolo Olivi, in Santa Croce. E l’Olivi portava a Firenze il messaggio di Gioacchino da Fiore, che dichiarava imminente la palingenesi della società cristiana, corrotta nel costume e indebolita nella vera cultura sapienziale. Poiché la cultura cattolica si era ormai ridotta in termini di conoscenza (fisica, naturale, razionale), ponendo in discredito la cultura in termini di amore (estatica, mistica, irrazionale). Per il prevalere della prima, «la grande tradizione cristiana fu colpita a morte. Ma Dante rimase testimone sovrano del memorando duello,... espressione suprema della grande crisi apocalittica del Duecento» . E proprio «la grandezza del dramma dantesco, la permanente vitalità del suo messaggio,... sgorgano appunto dal fatto che il poeta si porta in cuore le due visioni antitetiche, che hanno travagliato e squassato la nostra spiritualità del Duecento» (p. 30). Quel messaggio prorompe dalla coscienza, che Dante ebbe, della propria dignità e capacità di assurgere a profeta fra gli uomini: profeta, cioè interprete e maestro religioso e morale delle grandi realtà della vita: l’amore, il dolore, il rimorso, il senso della morte. Tutta l’opera dantesca, di prosa e di verso, è improntata di questi segni, che appaiono per confessione autobiografica, ma più per allegoria; e poiché il poeta acquista alla fine la figura del martire innocente, il pallio dell’innocenza consacra gli atti, i modi, i sentimenti, i pensieri suoi, che diventano supremamente esemplari; e allora l’idea-figura di Cristo sì riflette in S. Francesco, e quella di Francesco, raccomandata dalla calda esegesi di frate Olivi, si riflette in Dante. Poiché, fin dall'inizio della sua esperienza umana, l’amore e il dolore son presenti allo spirito del poeta «con immagini e accenti attinti dalla tradizione profetica» (p. 56), innalzati ad una ispirazione religiosa, anche se di radice umana. L'amore umano diventa dolore nel rimorso di Dante «per la infedeltà della memoria santa di Beatrice» (p. 73): che è il tempo della Vita Nova; ed indi, dopo l’infruttuosa esperienza alla scuola di Santa Maria Novella (il tempo segnato dal Convito), inetta a lenire il primo dolore, il nuovo rimorso si accresce per la coscienza di aver preferito al sogno apocalittico le fredde attrattive della speculazione razionale. In questo momento il dramma spirituale di Dante rivela il gran segno della sua predestinazione profetica. In Dante peccatore pecca insieme tutta l'umanità; e nel peccato dell’umanità Dante stesso è peccante, per la solidarietà dell'universo con ogni gesto e con ogni vibrazione spirituale dell’uomo. E pecca la Chiesa nel peccato di ogni fedele; e il singolo fedele, e perciò Dante cristiano, deve rispondere «per la defezione della Chiesa ufficiale dai santi e puri principj del Vangelo» (p. 86): poiché anche la Chiesa ha traviato, come Dante, per «aver preferito il mondo delle realtà empiriche al mondo delle realtà trascendenti» (p. 85). Ma Dante, nella Commedia, assistito dalla Grazia, ha risentito tutta l’ambascia della propria colpa, e ne ha fatto penitenza, e ad esso sono rimesse le colpe; e morto a se stesso, cioè al senso doloroso della colpa, è chiamato alla contemplazione diretta di quella realtà trascendente, a cui nel suo cammino mortale si era avviato con l'esercizio, iniziato e poi sospeso, dell'amore estatico: cioè francescano e gioachimita. Solo attraverso il distacco da se stesso gli è concesso entrare nella vera vita dell'anima; egli non deve guidarsi al passo della sua piccola ragione, ma lasciarsi guidare dalla voce interna, attraverso mirabili passaggi, per iniziazione, per rivelazione. In questo modo Dante è profeta e poeta: come i mistici antichi, che «solo serrando occhi e labbra vedono le più lucenti cose e pronunziano le più vivifiche parole» (p. 109). L’apocalisse della Commedia ha il suo centro nella figurazione della Chiesa, che sul seggio del carro tornato vuoto attende l’annunziatore di una nuova apocalisse. E l’annunziatore nuovo, vagamente indicato nello scriba antico, che sogna «con la faccia arguta», pare Dante stesso.
Lo sviamento dal cristianesimo messianico nel medioevo avvenne, secondo il pensiero del Buonajuti, quando il rapporto dell'io e del non io, anziché in termini d'amore, si pose in termini di conoscenza. In direzione contraria si delinea invece l’esegesi di alcuni recenti dantisti stranieri: l’Eliot (1929), il Fergusson (1953), il Singleton (1954), l’Auerbach (1942 e 1945), che hanno trovato accoglienza in Italia, specie nella scuola napoletana del Toffanin (R. Montano e G. Vallese), ove il dottrinarismo e le ragioni della retorica prevalgono sull’eruditismo positivistico e sui modi interpretativi desanctisiani e crociani, oltre che sulle forme di analisi stilistica condotte senz’altra regola che la pura sensibilità. Quelle manifestazioni di razionalismo sistematico potremmo anche ricondurle alla radice d’Arcadia: al Gravina, al Conti, per i quali poesia era filosofia e scienza, poste in immagini. Ma il dantismo d’Arcadia faceva pur conto della psicologia, estenuando o riducendo la forza della ragione per risolverla in fantasia; così come l’espressione toglieva autorità alla retorica per darla alla elezione del gusto. Solo nel cattolicesimo della Restaurazione lo studio di Dante ritrova i razionalisti mistici e dottrinari (il Rosmini, il Tommaseo, il Fornari), con i quali risorge e si fa acuta la ricerca dell’allegoria, del simbolo, della metafora, e l’idea che la sostanza poetica dell’opera di Dante coincide con le ragioni specifiche della loro ricerca. Ma oggi l’idealista metafisico Eliot afferma nel testo di Dante il caso di una emotività impersonale, effetto di una organizzazione di verità-idee giacenti nella natura stessa dello spirito umano e rivelantisi in forma di visione: visione tutta pregna di vitalismo, metafisico, che balena al pensiero ed è appena percepibile ad esso, ma non si traduce mai in netto pensiero. Situazione dello spirito superiore, semplice, intelligibile per assorta comunicazione interna; che tocca l’uomo, senza stimolarne ed affacciarne la personalità. Sicché Dante poeta comunica la sua Visione all'uomo, agendo su di esso come una potenza medianica, un segno luminoso del passante spirito del mondo lungo il corso del tempo.
Concezione metafisica e insieme mistica, recante il paradosso cristiano che per veramente vivere (o in Dio o nella poesia) è necessario sapere o poter morire a noi stessi; che fa dell’uomo un tramite di comunicazione divina, ma non si ferma nell'uomo per caratterizzarlo e segnarne la singola storia. Poiché, dice l'Eliot passando dalla teorica alla psicologia, «impressioni ed esperienze, che sono importanti per l’uomo, possono avere nessuna parte nella sua poesia: e quelle che sono importanti nella poesia possono avere una parte del tutto trascurabile nell'uomo» . Tale paradosso psicologico è analogo al paradosso estetico, per cui ciò ch'è oscuro intellettualmente diviene chiaro poeticamente. L'originalità della dantologia eliotiana viene non tanto dal concepire quella poesia come una serie di «chiare immagini visive», ma dalla definizione di tale Visionarismo; ch'è ora allegorico, ora simbolistico (cioè ora presenza di uno «Stato», ora traduzione di una «percezione»). Ma l’Eliot non esclude che l’intelligenza di ciò che l’allegoria reca in sé rimanga imperfetta. Invece «quel che deve essere compreso è la struttura emotiva entro questa impalcatura Stessa. Questa struttura è infatti un’ordinata scala graduata delle emozioni umane..., allargate nel significato secondo il posto che occupano nel sistema» . In questo veder chiaro e intendere oscuro è il fondamento del profetismo di Dante e della sua poesia; e ad esso corrispondono l'energia e la risolutezza con cui il poeta-profeta tocca i fondi e i vertici, i più degradanti e sublimanti, dell'umano. In questa proiezione, fuori dei limiti delle usuali esperienze, Dante è più spazioso poeta di Shakespeare, e più vicino agli scrittori biblici. L'interesse biblico di tale critica è là dove l’Eliot scioglie la poesia di Dante da ogni cosmologia e teoria dell’anima (siano esse tomistiche o aristoteliche) e riporta la forza della poesia e della emotività religiosa a impulsi irrazionali; i quali però, ci si accorge, hanno il loro nutrimento da una remota sorgente dottrinale. Sicché la poesia di Dante viene dal pensiero, ma la sua sostanza non è il pensiero: essa può « dare una emozione poetica perfino prima che se ne possa comprendere il testo» (p. 26).
L’altro metodo, del Fergusson , considera il viaggio oltremondano di Dante secondo un duplice interesse: l'uno «letterario» — cioè narrativo, diretto, dinamico, incessante, aperto all'avventura delle cose che portano al peccato e poi alla redenzione —; l’altro «comprensivo», che approfondisce e stringe in termini di legge universale l’esperienza di un uomo. Lo strumento che decanta il materiale soggettivo è il mito: un tessuto di «figurazioni fantastiche delle esperienze del momento, che lo spirito del pellegrino riceve mentre la vita morale si dipana». E «il senso ultimo della vita morale, come quello della stirpe nella storia, è visto nella Incarnazione e nel sacrificio di Cristo. E questa narrazione, naturalmente, guida il vero modello di Mito religioso» . Non è più lecito dunque svuotare una sembianza della sua essenza per riempirne un’altra. Ma le due forme, la reale e la figurata, sussistono insieme: come nella rappresentazione del mito della «femmina balba», che diventa incantevole Sirena, per mostrarsi alla fine nella sua reale sozzezza: ove il significato allegorico-morale non toglie alla figura una specie di esistenza. Dante non segue il metodo concettuale, che toglierebbe quella prima illusione di piena, perfetta realtà alla fantasia: ma serba quindi e quinci la stessa credenza di realtà. Dice bene il Fergusson, incorporando nel suo ragionamento lo spirito della religiosità biblica di Dante: «Il processo per cui un mito è riportato a vivere in una fantasia umana corrisponde a quello per cui Cristo rivive nello spirito dei fedeli, per mezzo della fede, della concentrazione, dell'amore e di un moto spirituale imitativo. Le forme mitiche che tentano lo spirito umano possono essere, nello schema di Dante, fanciullesche o ingannevoli. Ma il loro significato per noi, e il processo per cui noi le reincarniamo nel nostro essere, sono da comprendersi per analogia con la figura umana di Cristo e con la sua imitazione. E perché Dante crede così completamente nella realtà di questo fondamentale Termine Analogo, egli può sia partecipare alla vita di molte specie di miti, sia d’altra parte anche superarli, per considerarne il significato di altri termini ed in relazione l’uno con l’altro. La sua fede nella realtà primeva, più grande e più importante della narrazione cristiana, gli dà una chiave per entrare nel retaggio del mito, lo rende padrone (probabilmente l’unico padrone) dei modi mitici di comprensione» (p. 15).
Ta sostanza sacrale (e storicamente biblica) del mito viene ampiamente riconosciuta anche dal Singleton: i cui Studî su Dante (1954) sono un assiduo invito a considerare la Commedia nella sua cornice religiosa e nel riflesso del simbolismo e della allegoria. Nella Commedia c’è il senso storico, reale, che viene dal viaggio di Dante, uomo vivo, nell’aldilà. L’altro senso è della stessa natura che hanno gli avvenimenti narrati nella Bibbia e significanti le Vicende spirituali dell'anima. Ad es., il racconto dell'esodo degli Ebrei dall'Egitto rivela misticamente la salvazione dell'anima dal peccato. Dio scrive direttamente la sua parola nelle azioni degli uomini: il senso scritturale, sacro, è quello storico, per sé stante, che esclude l'intervento del poeta, cioè la «fictio», poiché questa cela la verità, rifacendola per altra via. Dante, come poeta, può imitare il modo con cui Dio scrive; come scrittore biblico, vede direttamente nelle cose che racconta per «intellezione di fede». Dante ha «la conoscenza diretta dello stato delle anime dopo morte, come l’autore del Genesi, per es., ha conoscenza della vergogna sentita da Adamo e da Eva dopo il peccato. È conoscenza che, partendo da un moto di fede, culmina in visione.... La fede precede la comprensione, e precede la visione a cui sottostà» (p. 61). L'unico e legittimo modo di entrare nel santuario dell’opera dantesca è l’intuizione per atto di fede, che esclude la possibilità della semplice illusione e il piacere naturale, e insieme còlto, del Bello.
Ma se ogni potenza dello spirito di Dante conspira ad unicità di visione, incarnata e pur intellettivamente persuasiva, la materia della Commedia è volta distintamente in tre direzioni, che valgono come tre dimensioni: l’allegoria, il simbolismo, lo schema di analogie. L’allegoria è «l'imitazione della struttura dell'altro libro di Dio, la Sacra Scrittura»; il simbolismo è «l’imitazione della struttura del mondo reale» (p. 63); l'analogia vale come l’occhio critico a stabilire le relazioni tra fatti storici distanti, ma essenzialmente uguali, perché tutta la storia è opera di Dio. E la sintesi suprema di queste tre direzioni è la visione del carro, al sommo del Purgatorio, cioè «al centro del poema»: ove la processione che segue le luci è «una processione della Sacra Scrittura stessa secondo una precisa indicazione temporale — nel tempo avvenuto, che avviene, che verrà —, con la presenza di tre figure giudicanti: il Cristo dei Profeti (il già venuto), il Cristo dell'Apocalisse (che verrà per il giudizio terminale); e Beatrice, secondo la interpretazione attonita del Singleton, assisa sul carro vuoto, si fa giudice dell'umanità presente, peccante nella persona del Poeta che le sta ai piedi.
Quegli stessi che, in Italia, si fecero mediatori dell’opera del critico americano (tra i più vivaci il Vallese) rimangono perplessi su alcune conclusioni: per es., sulla analogia di funzione di Cristo con Beatrice; e sul punto che elimina dal sistema spirituale di Dante ogni riguardo ed uso del sentimento del bello estetico . Ed a noi questo, del Singleton, con tutta la sua finezza intellettuale, appare un esempio di misticismo esoterico, che esclude ogni fecondo innesto, entro, il nostro più recente dantismo nazionale: poiché oggi, proprio al contrario, la critica stilistica tende a restringere il gran tema di Dante, Scrittore simbolista o figurale, a ricerche di specifiche formazioni sensitive ed espressive. Ora siamo rientrati in un clima di naturalismo, fuori dell’assideramento della misteriosofia medievale. Auerbach, Curtius (e in parte Sapegno, Contini) lavorano nel pieno o in margine di un interesse esegetico, secondo un metodo che potremmo dire induttivo: dal particolare al generale, dal realismo naturale a quello concettuale, con la coscienza che, staccandosi via via dal centro, ch'è l’uomo storico nella sua condizione psicologica, nella sua formazione retorica, nella sua partecipazione ambientale, si entra tra le ombre dell'imponderabile. L’Auerbach oppone alle correnti spiritualistiche-allegoriche del dantismo ottonovecentesco le correnti figurali. Quelle svuotavano il carattere reale dell’«accadere», in esso vedendo soltanto simboli e significati extrastorici (e invero nella Commedia non mancano tracce dell'uso che Dante pur faceva di esse, ma scarse, casuali). Per l’Auerbach la concezione dantesca è di tendenza figurale; perciò soltanto l’interpretazione di questa specie è idonea a serbare all’avvenimento del viaggio dantesco un significato letterale e storico: dunque di fondo realistico, perché tiene Dante nella sua umanità e in quella del suo secolo, da cui è espresso e che egli a sua volta esprime. Tale figuralismo è incentrato nella antropologia cristiana di S. Tommaso, che considera l’uomo nella sua apparizione terrena una realtà, che indi, dopo la morte e il giudizio universale, avrà il suo compimento. C'è dunque un passaggio di gradi, dall’«imperfectior» al «perfectior», ma in modo che quest'ultimo raccolga e potenzi tutto il reale che è dell’uomo in natura. Realismo «creaturale», per cui l’umano tende a una superiore autorealizzazione; e lo scenario umano, e l’uomo che vi s’insedia come attore, rimangono a porre la condizione della rappresentazione ultima: dove l’uomo è pur sempre l’attore-persona della sua medesima storia, diventata più perspicua e vivida, al pari della personalità che, giunta al suo compimento, acquista virtù di perfetto sentire e intendere . Per analogia, il valore poetico, che la terrestrità ha nutrito di affetti e passioni secondo la particolare vicenda umana, serba la sua immediata forza di evidenza empirica. Non c'è contrasto, anzi intima partecipazione, tra poesia e religiosità, poiché la forza dell’ispirazione cristiana va tutta a vantaggio del realismo. L’uomo terrestre ha il carattere che la funzione divina gli ha attributo: perciò «quale sulla terra è figurato, nell’al di là è realizzato» . L'idea di Dante sul compimento dell’anima dopo la morte spiega l'uso letterario che Dante scrittore fece dei sacri testi. A quel grado superiore di esistenza, sia nel bene sia nel male, corrisponde una essenzialità. di linguaggio, quale appunto la Bibbia ha presentato nella sua specie più illustre, perché più antica, più radicale: una immediatezza di modi, talora taglienti e bruschi, come appunto vuole il carattere dell'anima lasciata scorrere con i propri moti originali; diversi dunque da quelli rifatti entro la «civilitas» del paganesimo greco- latino, che riescono più elaborati e prevedibili . Ma il linguaggio poetico di Dante ridiventa sacrale solo «post fatum», cioè fuori del ciclo psicologico e temporale dell’essere; e Dante non lo ricerca studiosamente per i tramiti del magistero letterario; perché esso invece diviene dotazione dello spirito quando, per Grazia, la immanenza si esalta in trascendenza. Infatti l'umano non potrebbe conservarsi salendo al sopraumano se non a condizione che il corpo, facendosi seguace della «visione» dell'anima, tragga con sé anche il linguaggio suo proprio, che nel nuovo stato riuscirà più esemplarmente espressivo.
L'Auerbach umanista pone attenzione anche alla dialettica spirituale dei moti e modi danteschi. Il Curtius (1947) considera soltanto il fatto della cultura letteraria: cioè le disposizioni retoriche della mente di Dante, quali gli «auctores» con lezione diretta, ma nella maggior parte dei casi la tradizione penetrata nella società letteraria, gli presentavano. Dante legge le Sacre Scritture con la persuasione che esse costituiscano anche il primo testo delle «arti liberali»: le quali dunque possiedono «ab aeterno» il sigillo della sapienza divina. Le arti liberali diventano strumenti necessari alla fondata intelligenza della Bibbia, che come opera letteraria si pone naturalmente a confronto con le opere della «gentilitas». Ma lo spirito della «lectio» biblica di Dante non viene da semplicità di cuore. S. Girolamo, nella introduzione della Vulgata, presenta la Bibbia come breviario dell’umanesimo cristiano, stabilendo la piena concordanza della tradizione cristiana con la pagana: sicché il libro IV di Mosé contiene «i misteri di ogni aritmetica»; il libro di Giobbe «tutte le leggi della dialettica»: e David salmista è «il nostro Simonide, Findaro, Alceo, Orazio, Catullo». La Bibbia è innanzi tutto documento sacro, ma anche opera letteraria, che può rivaleggiare col «thesaurus» dei pagani . Certo la perfezione letteraria delle Sacre Scritture si apprende soltanto sulla lingua originaria, di prosa e poesia; la Vulgata presenta invece segni di rozzezza («simplicitas et quaedam vilitas verborum»). Il cristianesimo anglosassone, che conosce i pagani attraverso l'insegnamento della Chiesa, dichiara (con la parola del Venerabile Beda) che la Bibbia invece «praeminet positione dicendi»: perciò acquista piena autorità di testo retorico, entro cui il santo maestro poteva esercitare la sua ricerca, stabilendo un esatto sistema di leggi sulla interpretazione del linguaggio figurato. Durante l’età carolingia «l'argomento secondo il quale le figure della retorica erano indispensabili allo studio della Bibbia diviene la pietra angolare della cultura letteraria» (p. 58). Donde l’arricchimento della espressione poetica dal secolo XI in poi, sotto forma di fioritura di metafore. Secondo il Curtius, la civiltà letteraria in cui si educa il gusto di Dante è emanazione della «rinascenza carolingia», con gli incrementi più recenti della lezione di Albertino da Mussato e di Giovanni del Virgilio: nel pensiero dei quali la Bibbia diviene una poetica teologica, il cui linguaggio è la metafora. Ma l’umanesimo biblico-pagano di Dante non è tanto il prodotto di specifiche predilezioni del suo gusto letterario, che si prenda a modello or l’uno or l’altro degli «auctores», quanto della forza della tradizione, entro cui gli elementi della espressione perdurano, disseminati e anonimi. Il Curtius intende di provarlo, classificando alcune famiglie di metafore dantesche , ripercorse lungo un sottile tramite di rapporti che accomunano la immaginazione biblica con l'Oriente e l'Occidente. Perciò la filologia del Curtius è volta ai piccoli fatti germinali, condotti a caratterizzare i vari momenti delle tradizioni ambientali e i trasferimenti delle varie esperienze di stile e dei modi di lettura da luogo a luogo, osservati con attenzione di storico naturalista, cioè facendo poco conto dei valori puramente spirituali – ed anche della forza della personalità — e di quelli derivanti dalla vicenda delle dottrine filosofiche e teologiche .
Ma per voler naturalizzare gli elementi dei testi sacri e della Commedia, che a quelli si riferisce, si mettono in disparte i sensi messianici e, della personalità di Dante, la coscienza profetica. Che più vivacemente sono invece riguardati dagli studiosi anglosassoni, quasi incuranti o del tutto inesperti della esegesi lentamente formatasi entro la cultura europea, specie in quella italiana, e del tutto sciolti dalle remore che al dottrinarismo medievale pose la nostra critica ottocentesca. Ma in difesa di quelli, e con acerbità polemica verso questa, specie nei suoi derivati più moderni, si pone ora R. Montano, in più saggi raccolti sotto la mite voce di Suggerimenti per una lettura di Dante (1950). D'accordo col Curtius sulla formazione umanistica-retorica del gusto dantesco, egli tende a stringere in unità i diletti del gusto col sentimento religioso e reintrodurli nel tessuto dottrinale, cioè nella scolastica, del testo dantesco, che per virtù di quelli si ravviva sensibilmente. Retorica, estetica, teologia concorrono a dare sostanza, colore e senso al visionarismo dantesco, che è la «summa» della sua spiritualità, così come la Commedia è il luogo di confluenza di attenzioni spirituali che nella Vita Nova e nel Convito già respingevano ogni idea di letteratura realistica, mediante una «contaminatio», lì, di realtà biografica e di esaltazione mistica; qui indagando nelle canzoni dottrinali il senso «ascoso sotto bella menzogna». Il visionarismo del poema rappresenta l'ultima ascesa della spiritualità medievale di Dante, possibile solo quando egli riuscì a liberarsi delle astrattezze allegoriche, dapprima trattate come sottile, dilettoso gioco di complicatezze psicologiche. Poi, maturata l'esperienza del naturalismo aristotelico, — che segna lo sviamento della sua vocazione idealizzante, e perciò della sua fede — e scoperto il passaggio da Aristotele a S. Tommaso — cioè dal reale di natura al vero di pura ragione –, nella Commedia la natura (cioè Dante uomo e con lui la storia degli uomini) viene portata alla comunicazione del vero assoluto: della storia inverata nel disegno della provvidenza divina. La natura e la condizione di tale visionarismo dantesco sono precisate così: «La visione, la contemplazione assorta, religiosa di una realtà già data, resa intelligibile nella sua varia sostanza, si pone allora come un momento vitale per la stessa vocazione artistica. Per essa viene a rendersi più puro, più libero da interessi praticistici, da distrazioni sensibili, da intromissioni sentimentali; più capace di penetrare a fondo l'atto con cui ogni poeta vede e si impadronisce di una realtà e si fa insieme più sottile, più autonomo... lo sforzo proprio dell’arte dell’abilità tecnica per rendere la materia» . Dante fu scrittore biblico, non solo perché ebbe una sensibilità religiosa, pur comune allora ad altri; ma perché la forza della persuasione dottrinale divenne in lui capacità di vedere, e questa sentimento della cosa veduta. Procedimento per fasi, che va a ritroso di quello comunemente seguìto, anche se altri l'avevano già indicato. Dottrinalmente B. Nardi (Dante e la cultura medievale, 1942) e prima il Pietrobono ; ma con nuova sensibilità di pensiero, l’Eliot. Ora potremmo dire che il Montano riporta la linea romana-cattolica della dottrina dantesca a coincidere con l’esile, ma acuto, sorprendente profilo della psicologia e sensibilità anglosassone.
Teologia, religiosità, poesia entrano nel discorso di F. Montanari (L’esperienza poetica di Dante, 1959), ma in modo che il terzo aspetto diventi lo scopo della ricerca. Dante si ritrova nella condizione del re Ezechia: che sul punto di morire e in istato di peccato domanda a Dio la revoca della condanna e una aggiunta di tempo per fare giusta penitenza. Perpetrata la grazia per intercessione del profeta Isaia, si fa poi banditore della misericordia divina. Anche Dante, peccatore salvato, diviene strumento di salvezza per gli altri uomini: «ma la situazione originale di Dante (rispetto a Ezechia) sarà questa: che, condannato giustamente all’Inferno, miracolosamente salvatone, all’Inferno andrà ugualmente, ma solo per tornare ad annunziare al mondo le vie del Signore con la forza della testimonianza oculare» (p. 166). E il miracolo della Grazia, che fa di un peccatore un profeta, è in questo sublime paradosso: «che Dante debba essere profeta proprio perché è stato peccatore..., acciocché sia chiaro che non l’uomo salva se stesso, bensì la misericordia divina in trionfante lotta con la recalcitrante volontà umana» (p. 178). Dante, destinato all’ufficio di nuovo profeta, tenta di sottrarsi all’invito di Virgilio, messaggero di altri, superiori messaggi: come «nell'Antico Testamento i profeti accumulano obbiezioni contro la vocazione divina, e cercano di sottrarvisi: Mosè, Geremia, Giona» (p. 179). Nella fantasia di Dante poeta la concezione teologica e l’antropologica sono drammaticamente annodate. Lo stato dell'umanità che ha peccato in Adamo, e dell’umanità intera che seguita a peccare nel peccato di un uomo, spiega la sovraeccellenza dell'impresa di Dio-uomo e l’enormità, di portata sovrannaturale, di chi, recalcitrante all'invito della Grazia e recidivo nel male, muore fuori della legge di salvazione. Se la natura fosse «meschina e insignificante, troverebbe nella dannazione uno sviluppo piano e insignificante.... Ma la dannazione è tremenda, sovrarazionale, misteriosa» (p. 190). Da questa idea del «mysterium iniquitatis» deriva la « maestà sacrale » del dannato, che nella rappresentazione di Dante diventa alta tensione poetica. Perciò la poesia dei dannati dell’Inferno dantesco non vive «in forza di una pura visione naturale della grandezza terrena; ma in forza della tensione spirituale che sorge dalla intuizione teologica del contrasto tra la magnificenza naturale e la sua insufficienza alla salvezza eterna» (p. 195).
L'interpretazione cattolica-teologica del Montanari è un buon esempio del modo con cui la critica dantesca può muoversi in sezione distinta da quella umanistica estetica, senza offendere la sua funzione. Del pari, qualche giova- mento allo studio di Dante biblico può venire da chi si volga alla liturgia: dalla quale, più che dalla teologia stessa, sembra essersi straniato il dantismo critico novecentesco. Sulla liturgia si fonda la rappresentazione apocalittica, che, si è visto, nel pensiero del Vossler diviene sinonimo di non-poesia. Ora l'italo-tedesco Romano Guardini (1962) indica lo spirito edificante della liturgia come «gioco dell’anima» che si umilia dinanzi a Dio, sentendosi, nella con- vivenza dei credenti, parte viva del corpo mistico di Cristo. «Agire liturgicamente significa diventare, con il sostegno della Grazia, sotto la guida della Chiesa, vivente opera d’arte dinanzi a Dio,... significa compiere la parola del Signore e diventare bambini.... rinunziando ad essere adulti, per decidersi a giocare, come faceva David quando danzava dinanzi all’Arca dell’Alleanza» . Il Guardini non si intrattiene sulla idea liturgica di Dante; ma il suo lettore ne trarrebbe materia di suggestive e limpide indicazioni. Sicché, ad es., lo spirito di letizia che tocca, ancora mestamente, le anime del Purgatorio e in cui si esalta chi ormai partecipa del terzo regno, e tutta la serie degli atti di stupefatta infantilità, troverebbero nella illustrazione del Guardini una sottile grazia dottrinale .
E qualche stimolo a risentire Dante nella sensibilità fisiologica e psicologica dell’uomo biblico può venire anche dalla sintesi del Flora La poesia della Bibbia (1959). Il Flora legge la Bibbia «vichianamente»: cioè fa sentire il piacere di una moderna lettura come effetto di un ideale ritorno, pur con la coscienza di quel che si è fatto ormai diverso nel senso e nel pensiero del lettore di Oggi. La Bibbia è il libro dell'infanzia delle cose, che trova riscontro spontaneo nello stato d’innocenza dell’uomo: di qui il segno della caratterologia umana, offerto dallo scrittore biblico nei diversi momenti della vicenda del popolo d’Israele, sul fondo perenne di una natura e psicologia immaginosa e pronta, straordinariamente aperta ad accogliere tutto come reale, e perciò trasportata agli estremi del sentimento e del pensiero e rapida nell’azione. Di ogni libro della Bibbia il Flora segna il tono poetico, ma esclude ogni illustrazione della simbologia, perché tali indagini «la lettura poetica le ignora o le dimentica». Tuttavia noi sentiamo che nelle sue impressioni di lettore passano insieme le immagini del testo dantesco, per un consenso indefinibile del suo stile e anche per l’idea, ch'egli ha, del «mito delle parole», entro le quali «errano tutte le allusioni e le memorie del passato» , e per l’idea dell’arte, alla quale l'unità della sostanza universale è «sempre palese nella segreta verità delle similitudini e delle analogie» (p. 125). Idea, l’una e l’altra, che si illumina (e il Flora stesso la illumina) con l'esempio di Dante e degli scrittori biblici, che il Flora legge con semplicità di cuore, riscoperti al suo gusto come gli fossero contemporanei. Ma appare evidente che, alla luce di tale poetica, egli può assaporare la lirica quando essa è «lo sviluppo di una esclamazione» (e lirica, in questa condizione, può essere anche la teologia, quando divenga sentimento e visione); ma non «la macchina dei sillogismi» (p. 282). Sicché per il Flora Dante e Bibbia recano, dentro, non una specifica allegoria o simbolo o altro segno che riporti ad una particolare cultura e religione; ma soltanto la sostanza, ineffabile e senza storia, di un altro «vero» che è proprio della poesia universale, della parola appresa, e fatta nuovamente valere, nella sua accezione mitica. Al vichianesimo del Flora in Dante, scrittore biblico, interessa soltanto la presenza dell'atomo biblico, che ha virtù di concrescere in svolgimento lirico per germinazione di metafore e di analogie; e in questo modo convoglia la materia che in altra sede e con altra sollecitazione spirituale il pensiero abbia preparato.
La «poetica» del Flora vale come stimolo indiretto alla lettura di Dante, poeta idealmente primitivo e scrittore «tropico», ma non presenta corredo filologico e tecnico. Noi quel suo pensiero lo potremmo corredare con qualche opera di chi seguita, oggi, le ricerche che già piacquero agli eruditi filologi del Settecento (al Lowth, al Mattei) e al Gabrieli, al Minocchi, nel primo Nove- cento: autori di prospetti e di guide per la conoscenza di tutto ciò che è pertinente al mondo ebraico; e perciò anche dei sensi e modi di linguaggio e delle forme letterarie e di manifestazione religiosa che gli erano proprie. Oggi indi- chiamo i vari studi compresi nell'opera Alla scoperta della Bibbia (1955), a cura di G. Rinaldi, ove ci è offerta una lezione elementare, per problemi tipici e per esempi, su uno dei versanti del nostro tema; poiché tutto lì è riportato accortamente al carattere etnico della nazione ebraica, e le varie sezioni sono ordinate in modo da mostrare le concordanze tra psicologia, costume, manifesta- zioni spirituali. Elementi di studio utili a chi voglia oggi riprendere il nostro tema, alla luce soprattutto ch'è venuta dai critici del gruppo mistico-dottrinale. Questo, come si è accennato, ritiene aberrante la nostra critica idealistica (più in uso nella nostra scuola) e inadeguata quella umanistica, che non sia agguerrita di dottrinarismo cattolico medievale. Noi diremmo che da una parte c’è Spirito di sottigliezza con qualche perdita di buon senso; e che dall’altra — cioè degli idealisti, tornati sensibili all’umanesimo della parola — si levi un’aria di laicismo profano, che sgombrando il cammino al diletto di una limpida lettura, finisce col sostituire alla poetica dantesca l'estetica moderna, radicata su altre esperienze della storia umana. Lì c'è un abito di esattezza testuale, che pare sempre sovraeccitare le linee del verbo dantesco per cavarne fuori, Lazzaro sepolto, lo spirito genuino; e fa tormento al pensiero, senza giungere a mieducare insieme la sensibilità del gusto. Qui c'è una snellezza di atteggiamenti spirituali, che viene anche dal discarico di ogni problema estraneo al piacere di quella lettura. Dei due metodi che ora si scontrano, ma senza fare teorico colloquio, il dottrinale-mistico è più prestigioso e imperioso, anche perché si arroga il diritto di parlare in nome della poesia; ma il vero è che la poesia, in questi nuovi esegeti, diviene solo occasione di illustrazione problematica. Quegli stessi che, in Italia e fuori, reclamano l'osservanza della categoria della poetica teologico-mistica per ben valutare la poesia dantesca non hanno dato di essa quel commento analitico nuovo, pur necessario a prove l’idea che nella Commedia liturgia, teologia e poetica medievale valgono come estetica. I critici «dottrinali» possono pretendere che gli «estetici» li ascoltino, ma non pretendere di sostituirli. Dante biblico ha trovato espressione limpida e insieme misteriosa nella postillazione del Tommaseo: l’unica, fin ad oggi, che sia dottrinale, senza urtare la condizione poetica che in quelle citazioni e note filtra sottile. E di qualche sensibilità biblica è percorso ora commento del Momigliano, che senza propositi polemici e con sommesso discorso fa sentire il momento biblico della poesia nella piena manifestazione tematica del poema. Sicché il testo qui rivela la sua nota sacra, come misteriosa, ineffabile aderenza ad una materia dottrinale, non come segno di applicata sapienza di principi. Alla poesia di Dante, ed anche a quella che qui abbiamo indicata nella sua varia, recente fortuna, si va meglio con una virtù che i critici rigorosamente sistematici non possiedono: con la delicatezza.