Dati bibliografici
Autore: Ferdinando D. Maurino
Tratto da: Italica. The quarterly bulletin of the American Association of Teachers of Italian (Evanston, Ill.)
Numero: XLIX
Anno: 1972
Pagine: 508-511
Pompeo Giannantonio: Dante e l’allegorismo. Firenze, Leo S. Olschki, 1969. Pp. 429.
Siamo davanti a uno studio sodo e profondo che sa avvincere il lettore che non lo lascia facilmente. L’esegesi dell’allegorismo quale tema fondamentale, sia del lungo saggio, sia del poema dantesco, che va dai primordi allegorici alla Divina commedia e da essa fino agli studi odierni sulla questione, fa di questa monografia un’opera indicibilmente pregevole del Giannantonio, professore e studioso all’università di Napoli, già conosciutissimo per i suoi vari scritti critici ed eruditi.
I riferimenti bibliografici, con postille pertinenti ai distinti soggetti irradianti dalla stessa tematica, non sono da escludere dal riconoscimento perché inerenti al corredo di un simile studio ermeneutico, né da riconoscere per condiscendenza olimpica. Sono invece da applaudire apertamente perché qui, come non sempre, fanno parte coesiva, estesa ed integra del lavoro. Il critico infatti esamina il campo letterario di quasi otto secoli di allegorismo (dal secolo VI a.C. fino all’Alighieri) e da punti prismatici, idonei al complesso ch’è l’allegoria, fonde criticamente un’unità artistica che sarà per lui l’allegoria medievale. Essa sarà spirito e fantasma naturali per l’uomo di quell’epoca simboleggiato da Dante nella sua armonica galassia del Medium Aevum (un termine anacronistico se non oggi ancora, senza dubbio domani).
Il suo linguaggio si fa prolisse, un po’ barocco, eppur piacevole e poetico, anche se, per noi, lo studio piacerebbe, in vero, ancora di più se sotto certi aspetti fosse più ristretto; né perderebbe il gran merito che indubbiamente gli spetta. Ma è forzoso aggiungere che l’autore ha intrapreso un lavoro non comune; la problematica della materia non consiste per lui in una semplice spiegazione narrativa cronologica, seppur con dei riferimenti e rimandi critici; certo non doveva esserlo e difatti non lo è. Essa è immensamente un’esegesi completa sull’allegorismo e in particolare su quello dantesco che pur vanta tanti eminenti studiosi dal Boccaccio e Pietro Alighieri a dantisti odierni sparsi per il mondo, inclusi chiarissimi critici che sono fra di noi in terra americana.
Fin dal principio, pur tenendo nel sub coscientia la tesi contrastante che verrà più tardi sull’allegoria fuori l’ambito poetico oppure quella che reclamerà i suoi diritti dentro quello stesso ambito, il Giannantonio fissa i termini del suo studio che per forza maggiore si appoggerà, con una certa ambivalenza, alle correnti estetiche postcrociane. Sarà subito chiaro che l’acre dibattito, da anni dichiarato e non davvero ancora solto dai critici esteti sorti dopo la condanna del Croce contro l’allegoria, afferra il nostro autore fin dal principio, molto prima di venire al capitolo magistrale “L’esegesi,” perché la parola allegorismo sta nel titolo ab inizio a preavvisare la polemica che verrà e non sta a mero senso storico, linguistico o cronologico. Quindi si giungerà all’assioma crociano che l’allegoria, disegno intenzionale e criptografico, non può essere mai poesia per sé, “e se invece [l’allegoria] è davvero dentro la poesia, fusa ed identificata con lei, vuol dire che l’allegoria non c’è, ma unicamente immagine poetica ...” A noi sembra che da questa sentenza crociana non si sfugge! Il Croce ha inesorabilmente incatenato qualsiasi altra definizione che sempre sarà eccepibile in cospetto alla sua.
Il Giannantonio, seguendo il Croce, e il Battaglia in certi riguardi, si farà pure gentiliano nell’asserire che l’allegoria fa parte dello spirito del poeta e aggiunge che come tale farà parte dell’intuizione dell’epoca, e per quel dato momento diviene esteticamente storicista.
Il Giannantonio allora porta la sua propria tesi che si allaccia, seppure lontanamente, al pensiero pre-storicista anticipato dal Foscolo che colloca il poeta nel suo tempo in cui vive e vibra; similmente nel caso dantesco egli interpreta l’allegoria filologicamente ed “epocamente.” Ma il Giannantonio non esclude la definizione crociana; l’accetta “valida,” seppur non per il Medioevo. Ecco quindi il fulcro del nostro critico: per l’uomo medievale, immerso nei sentimenti escatologici di una vita tutta mirante ad un’altra vita immortale perché immortale è l’anima, l’allegoria si fonde nella sua anima e nel suo spirito, come per legge naturale palpita il cuore. Dunque per il nostro l’allegoria non è sostanza intenzionale come lo è per altre epoche o per altri scrittori, perché in questi ultimi casi darà ragione al Croce. L’allegoria crociana, quale negazione della poesia, nei termini del Giannantonio, “è valida in linea generale” e pertanto può essere o non può essere trasferibile in certe epoche, però nell’età medievale, che capta lo spirito e l’alito di quella gente devota, essa “non è trasferibile” perché l’allegoria “non rientra nel mondo intenzionale del poeta, ma è linfa ed anima del suo mondo fantastico: l’espressione di conseguenza, ubbidisce a questa visione medievale dell’universo. Proprio questa realtà medievale veniva trascurata dal Croce ...” E subito dopo continua: “ma l’allegoria medievale, di cui si discorre, vive intrinsicamente nell’opera d’arte e palpita della stessa vita della poesia ...” Si sente che il critico con uno sforzo fecondo è conscio “di aver saputo ricamare trapunti nuovi intorno a una tela già nota eppur vasta e difficile, Infatti il Giannantonio insiste più di tutti e con passione sulla poeticità dell’uomo o cosmos medievale ritratto nell’allegoria quale veicolo di detta poeticità.
Ma non direbbe il Croce, con il suo inflessibile assioma, come mai v'è un’eccezione nel caso medievale, che detta tesi “non è trasferibile nell’età medievale” anche con tutte le buone ragioni che adduce il Giannantonio? Se essa fa parte intima dell’uomo medievale, non faranno eco le proterve parole crociane? Esse ci ritornano nella mente come un ammaliante ritornello: “vuol dire che allegoria non c’è ...” Non si tratta di negare la logica e penetrante tesi del Giannantonio che vede l’uomo del Medioevo interamente allegorico per sua stessa natura anagogica; è piuttosto ribadirla e per l'appunto detta ontologia mostra che l’intenzione nell’allegoria dantesca non esiste e così l’allegoria semplicemente svanirà “e o si scioglierà nella poesia perché essa “non è una forma di espressione,” bensì può essere “ unicamente immagine poetica ci dice ancora il Croce. Ecco perché nella Commedia, il più delle volte, la poesia si fa arte appunto perché quella che sembrava, od era, allegoria si dissolve come per incanto ... nell’al di là incosciente del momento creativo del divino poeta.
Così lo storicismo idealistico crociano combattuto da molti critici, con il loro storicismo materialista, è, per così dire, dimezzato dal Giannantonio davanti alla realtà storica presente nella Divina commedia e la sua età. Ma è da notare che in fin dei conti imperturbabile rimane solo il nostro Dante: nessuno gli nega che, o con l’allegoria “allotria” all’arte o con l’allegoria non-intenzionale e come linfa per il Medioevo del nostro Giannantonio, la sua poesia è pur sempre poesia e quindi arte. La teologia con la sua allegoria gli forniva la sostanza escatologica, ma essa non viveva se non del soffio del Poeta e quindi da essa “sorgeva la forma corporis,” come ben dice G. G. Meersseman. Anzi noi seguendo il pensiero del Giannantonio, ma cambiando una sola parola, diremmo che la teoria crociana è valida eccetto e per l’appunto, nell’allegoria dantesca, non medievale.
Se il capitolo magistrale dell’opera del professor Giannantonio è per noi “L’esegesi,” pur non vogliamo significare che gli altri capitoli non abbiamo valevole acume; al contrario, i riferimenti estesi e oculati in altri capitoli sul Bembo, Vico, Foscolo, De Sanctis, Pascoli e la parte sugli “Allegoristi” romantici sono pagine magistrali anche se, a rigore della tematica, detta parte non le è strettamente germana essendo piuttosto un questito sulla grandezza della Divina Commedia. Tuttavia la problematica su un’opera di tale vastità richiede all’uopo anche simili ramificazioni interpretative.
Ci troviamo definitivamente, dunque, davanti a una monografia che può dirsi immane, concepita e svolta con criterio e perspicacia pari all’amore e alla fatica che l’autore vi ha messo con generosa genialità ed intelligenza: uno studio critico fra i migliori.