Dati bibliografici
Autore: Marco Rustioni
Tratto da: Allegoria. Storia e interpretazione
Editore: Pacini Ed., Pisa
Anno: 2016
Pagine: 77-90
Quando Benedetto Croce pubblica nel 1902 l’Estetica, già da alcuni anni la polemica contro la scuola storica lo aveva condotto ad una negazione dei suoi valori e a criticarne il metodo di ricerca. Ne è testimonianza, come è noto, il suo primo scritto filosofico, La storia ridotta sotto il concetto generale di arte (1893), dove viene messo in discussione lo statuto delle discipline storiche, allora avvicinate nel pieno del positivismo al campo scientifico. La scelta del filosofo italiano è evidente: al contrario della scienza, che assume il particolare sotto il generale, la storia è una forma di narrazione che riproduce il particolare nella sua concretezza, ed è per questo motivo che deve essere classificata entro il campo dell’arte. Questo slittamento racchiude in sé l’inizio della successiva sistemazione teorica che lo porterà a distinguere l'ambito dell’Estetica da quello della Logica. Per Croce infatti, tra le attività dello Spirito, l’arte è l’unica fondata sull’intuito e che matura nell’animo dell’artista senza l'apporto della sfera razionale. Pur non essendo riducibile alla semplice immediatezza del sentimento, essa resta pertanto una forma di conoscenza pre-logica, tanto che per esprimere il proprio linguaggio non ricorre ai concetti, bensì alle immagini. E questo, a ben vedere, uno dei fondamenti principali dell’idealismo crociano e che notevole influsso ebbe sulle scelte di metodo compiute dal filosofo anche in ambito letterario. La critica, infatti, per interpretare i testi, non deve in alcun modo ricorrere a cause esterne, ma deve immedesimarsi nel processo creativo e contemplare l’oggetto artistico ; nient'altro deve concorrere alla realizzazione del senso. Il giudizio estetico ha il compito di rendere manifesta l’essenza di un’opera, di coglierne l’intima appartenenza all’ideale della poesia e l'interprete, come ricordato da Tramontana, può avvalersi di un unico atto conoscitivo, che consiste nel dichiarare semplicemente l’esistenza del Bello . Per Croce, dunque, l’azione del critico si risolve in una tautologia ed è sufficiente scorrere qualunque suo testo per avvertire la presenza di un simile approccio, contraddistinto da ampie e appassionate descrizioni dell’opera in esame, filtrate dalla soggettività del ricevente, chiamato a riconoscerne il valore universale. E questa sensazione traspare, anche, dalla Poesia di Dante, opera che merita di essere considerata con attenzione perché riapre, dopo oltre mezzo secolo, il dibattito intorno all’allegoria.
Se per Croce la poesia è, come ricordato da Gennaro Sasso, contemplazione del sentimento , non deve certo sorprendere l'atteggiamento fortemente critico riservato dal filosofo all’allegoria e l'occasione scelta per esprimere il proprio dissenso non poteva che essere il volume dedicato a Dante, pubblicato nel 1921. Si tratta di un anno piuttosto significativo per l’esegesi della Commedia, visto che l’uscita del saggio avviene nel sesto centenario della morte del poeta ed è coeva all’edizione critica curata per la società dantesca da Barbi, rappresentante della scuola storica e filologica . A ben vedere, infatti, mai approccio testuale poteva essere più diversificato e fin dalla parte introduttiva Croce definisce «allotria» la tradizione di studi incentrata sulla ricerca delle fonti, dei concetti filosofici e scientifici presenti nel testo di Dante. Essi appartengono ad indagini che nascondono un difetto di metodo, e cioè quello di voler giungere «al significato riposto per acume di intelletto o industrie di raziocinio» . La frase esemplifica bene l'orientamento critico teorizzato dal filosofo, che per pervenire al senso dell’opera non considera necessario ricorrere alla ragione, strumento della logica e non dell’estetica. Peraltro tale tendenza di ricerca, che rende inconcludente e poco fruttuoso l’esame della Commedia è più sviluppata, secondo Croce, proprio negli studi dedicati all’allegoria. Ed è a questo punto che l’analisi è diretta a spiegare i limiti di questo procedimento:
L’allegoria non è altro [...] se non una sorta di criptografia, e perciò un prodotto pratico, un atto di volontà, col quale si decreta che questo debba significare quello, e quello quell’altro [...]. E quando l’autore di quel prodotto non lascia un espresso documento per dichiarare l’atto di volontà da lui compiuto, porgendo al lettore la ‘chiave’ della sua allegoria, è vano ricercare e sperare di fissarne in modo sicuro il significato: la «vera sentenza non si può vedere, se l’autore non la conta», come anche si dice nel Convivio .
Alla diffusione di questo errore metodico, da classificare nel campo dell’allegoresi, si accompagna un altro difetto: la sopravvalutazione dell’elemento allegorico entro la Divina commedia. Con uno stile argomentativo abbastanza usuale, teso a distinguere dall’obiettivo primario le questioni poco pertinenti, il discorso di Croce procede identificando tutti i campi del sapere che non meritano, nel giudizio estetico, alcuna attenzione. E così vengono ritenuti inessenziali alla conoscenza dell’opera tanto l'orientamento filosofico e politico espresso da Dante nel De monarchia quanto le ricerche sul pensiero e sulle dottrine che possono aver influito sulle sue scelte di contenuto; ma pure lo studio della riflessione compiuta dall'autore sulla lingua nel De vulgari eloquentia risulta per Croce poco rivelante, visto che si tratta di un documento fra i tanti che possono rendere conto della formazione artistica di Dante, ma che poco esprimono della poesia trasmessa dal testo. A maggior ragione, dunque, il discorso vale per le minuziose ricerche di coloro che perseguono le allegorie dantesche , visto che a conclusione del percorso interpretativo nulla di nuovo viene scoperto, se non «piccole varietà di concetti e di credenze e di disegni e di aspettazioni» .
Ma ciò che Croce sta cercando di eliminare dal suo discorso filosofico non è la legittimità di questi studi, bensì la dialettica che intercorre tra orizzonte storico e giudizio estetico. Affrancare il secondo dal primo significa ribadire l’estraneità della poesia dalla sfera razionale. Per il filosofo, chiedersi se Dante attinga o meno ad una determinata dottrina scientifica vuol dire interrogare la Commedia in modo errato. Ogni riferimento extratestuale può distrarre dalla lettura e rendere meno efficace la comprensione estetica.
[...] nella storia della poesia come nel semplice leggere o gustare la poesia, tutto ciò non solo non importa, ma, se vi fosse introdotto, disturberebbe; perché quelle dottrine vi stanno non in quanto pensate ma solo in quanto immaginate, e perciò non si dialettizzano nel vero e nel falso. Importa conoscerle, ma allo stesso modo in cui si conosce un mito, una favola, un fatto qualsiasi, cioè come elementi o parti della poesia, dalla quale, e non dalla logica, ricevono impronta e significato .
Non sarà inutile osservare come nel brano sopracitato sia avvenuto un rovesciamento alquanto paradossale dei rapporti tra realtà e immaginazione visto che per il filosofo dell’idealismo sono i riferimenti storici a dover essere considerati alla stregua di un mito e di una favola. Ma al di là di questo, è la pertinenza dei valori documentari che viene separata dall’atto interpretativo. Una poesia, per Croce, non è un evento storico, per il quale sarebbe necessario ricostruire i concetti economici e giuridici ad esso correlati; al contrario l’afflato lirico si eleva dal contesto e presenta caratteristiche proprie, valutabili entro la cerchia dell’estetico. In questa opera di rimozione Croce coinvolge tutto l’allegorismo medievale, classificato in tre tipologie. Nel primo caso, l’allegoria risulta collegata ad un momento di effettiva poesia e come tale non vale la pena giudicarlo perché nulla aggiunge alla bellezza della parte esaminata. A titolo d'esempio, Croce si sofferma sulle figure di Beatrice e di Matelda, nelle quali possono rivivere numerosi sovrasensi figurali, ma ciò non toglie che il vero valore estetico sia determinato, rispettivamente, dalla bellezza della donna amata e dalla gioia della fanciulla che canta la sua giovinezza . Nel secondo, l’allegoria prevarica la poesia e dà origine, in modo deteriore, «ad un complesso d’immagini discordanti, poeticamente frigide e mute» . Secondo Croce, nella Commedia un tale errore si verifica una sola volta e cita la questione del Veltro che Dante raffigura nel primo canto. In questo caso, per il filosofo non è neppure necessario intraprendere l’attività critica, perché non si tratterebbe di immagini, ma di semplici segni, da cui trapela il fallimento del poetico. Viene posta infine, anche se solo in via teorica, una terza possibilità, e cioè che l’allegoria si identifichi completamente con l’immagine di riferimento, sino a fondersi con la sua essenza. Ma tale ipotesi non è sostenibile perché deriva da un principio considerato assurdo da Croce, che sostiene di non poter «vedere una accanto all’altra due cose, di cui una appare quando l’altra dispare» . Naturalmente, per quanto riguarda l’ultima tipologia non viene indicato alcun esempio, ma il filosofo non perde occasione per confermare il proprio disprezzo per le forme dell’allegoria, definite delle inutili e dannose distrazioni . Confinata ai margini del suo pensiero, essa viene perciò rimossa dall’analisi del poema perché parte di quella interpretazione allotria che circoscrive la Commedia senza però riuscire a coglierne il senso ultimo.
Questa suddivisione posta da Croce tra le due interpretazioni, quella propriamente estetica e quella storicizzante, ha creato però al filosofo qualche imbarazzo di tipo teorico: sostenere infatti che vi siano due modelli ermeneutici applicabili al corpus dantesco significa venir meno al criterio dell’unità, concetto che tanta parte riveste nel suo sistema filosofico. In realtà Croce prova a risolvere l’aporia introducendo la nozione di struttura, sorta di schema pratico che congiunge le parti poetiche a quelle concettuali e didascaliche . Ma quando affronta l'argomento ricorre alle medesime motivazioni negative espresse nei confronti dell’allegoria. La struttura è certo necessaria, perché consente di divulgare la visione del mondo ultraterreno ma si tratta, al fondo, di un polo dialettico privo di finalità estetiche, di un'impalcatura su cui innalzare l’istituto della poesia. A ben vedere questa soluzione, che avrebbe dovuto mettere fine ai dubbi e alle incertezze, lasciava invece aperto il campo ad ulteriori congetture. L’unione tra allegoria e struttura, sebbene implicitamente stabilita dal filosofo, verrà infatti ripresa dai critici che vorranno opporsi al suo modello interpretativo. Tutto ciò che era stato escluso dall’indagine crociana perché non rivestiva alcun interesse estetico tornerà così al centro della verifica testuale. Ma questo rinnovato orizzonti di studi non poteva non filtrare che dalla lettura dei geroglifici allegorici così vilipesi dal filosofo, il cui ruolo, come comprese l’esegesi dantesca successiva, non era solo quello di esercitare una certa compressione sulla vena poetica, «resa più vigorosa e intensa dall’ostacolo che le frappone e che essa sorpassa» . E a questa dimensione interpretativa concorrono le tesi di Auerbach e di Singleton, che hanno fatto dell’allegoria il dispostivo più importante della loro esegesi.
Che il termine struttura ricorra nell’approccio teorico di Auerbach e Singleton non può dirsi certo casuale e tradisce il medesimo rifiuto delle posizioni crociane. Contrariamente a quanto affermato dal filosofo, la struttura non è un supporto secondario ma il fondamento da cui ricavare la poetica di Dante, e l'interesse dei due autori si sposta verso quegli elementi contestuali che permettono di spiegare il testo, di collocarlo entro coordinate storiche predefinite, di ricostruirne la dimensione filosofica. In questo senso, per entrambi gli autori esercita un ruolo decisivo la relazione che sussiste tra il poema e le fonti sacre. Diverso semmai, è l'approdo a cui pervengono quando si misurano con il testo.
Già nella prima parte del volume mi sono soffermato sul concetto di figura, coniato da Auerbach per definire il modo in cui Dante ha costruito l’universo della Commedia. Ma a ben vedere anche il metodo del critico tedesco è di tipo figurale e procede, nei saggi danteschi del secondo dopoguerra, verso un modello interpretativo di tipo allegorico. Il movimento esegetico ha infatti origine da un personaggio o da un’immagine, contenuta in un numero ristretto di versi. Questo frammento serve al critico per avviare una stratigrafia delle fonti e per ribadire la presenza di un duplice livello di significazione. Da un lato infatti, Auerbach sottopone l'estratto ad una esplicazione che mira a rendere visibili le relazioni sintagmatiche e di superficie, in modo da lasciar trasparire il senso letterale del brano prescelto. Dall'altro, invece, la sua analisi si orienta verso l’asse paradigmatico, da ricercare nella tradizione esegetica delle Sacre Scritture. Questo modello di interpretazione, definita da Auerbach tipologico, non riguarda solo Dante, ma può valere per descrivere il metodo perseguito dall’autore in Mimesis, anche se in questo caso l’esercizio critico condotto sugli estratti prelude alla ricomposizione diacronica. Ma per quanto riguarda la questione dell’allegoria alcuni criteri generali vengono enunciati da Auerbach, oltre che in Figura, nel successivo Motivi tipologici nella letteratura medievale (1953). In questo saggio l’autore individua le differenze che sussistono tra l’allegoria tipologica da lui rinvenuta nella Commedia e l’allegoria astratta che si diffonde, in parallelo, all’interno della cultura medievale.
Mi sembra metodologicamente importante separare chiaramente l’allegoria astratta, che oltre tutto conosce numerose varianti, da quella tipologica e intrinsecamente storica. Spesso, all’atto pratico, operare questa distinzione non è facile, non solo perché da sempre domina una certa confusione terminologica, [...] ma anche e prima di tutto perché nella pratica dell’esegesi biblica compaiono continuamente forme miste, specialmente nell'interpretazione dei libri profetici e del Cantico dei Cantici. E tuttavia, le due correnti della tradizione vanno chiaramente e nettamente distinte, non solo concettualmente, ma anche per le conseguenze che producono nell’interpretazione delle opere .
Per spiegare questa differenza, Auerbach paragona l’Anticlaudiano alla Commedia ed osserva che nella prima opera le astrazioni personificate rinviano ad un modello filosofico e moraleggiante ed arrivano ad esprimere un solo significato, perfettamente compiuto, mentre i personaggi della seconda non si lasciano racchiudere in un unico concetto perché si tratta sempre di figure storiche che nella loro vita «hanno palesato qualche tratto che si è prestato nella Commedia a diventare figura» , Ed è proprio questo riferimento alla storia che risulta decisivo per definire la specificità del modo tipologico.
[...] il modo di considerare tipologico si riconosce, e in questo, come ho già ribadito, si distingue da quello allegorico astratto, per il fatto che possiede una precisa concezione della storia o, ancora meglio, del complesso degli avvenimenti storici. Noi siamo abituati a vedere ciò che avviene nel tempo come una catena composta da molti anelli, intrecciata da un punto di vista causale e mai interrotta nel flusso temporale; l’interpretazione tipologica, al contrario, collega due avvenimenti lontani nel tempo e nelle relazioni di causalità, li separa dal loro contesto originario e li collega attraverso un senso comune a entrambi .
L’allegoria tipologica è un modo conoscitivo che va ad interrompere il continuum diacronico per congiungere eventi tra loro distanti, e ciò è possibile perché tutta la storia è considerata entro il cammino dell’umanità verso la redenzione. I fatti narrati nelle Sacre Scritture non sono solo un deposito di fonti, cui Dante avrebbe attinto per restituire in modo adeguato il suo itinerario nei regni ultramondani. Essi rappresentano per il critico degli avvenimenti storici che possono trovare una forma tipologica di compimento in quelli successivi. Analogo è il funzionamento allegorico della Commedia, dove tutti gli aspetti che riguardano la figuralità sono determinati da questa visione prospettica.
Non dissimile è l'approccio esegetico elaborato da Singleton e che muove dal medesimo tentativo di congiungere la poetica di Dante alla dimensione religiosa della sua epoca. Come ha rilevato Caputo , agisce su questa prospettiva dell'autore americano il metodo logologico promosso da Kenneth Burke, che punta sulla intercambiabilità fra categorie linguistiche e teologiche. Ma soprattutto, è convinzione di Singleton che compito del critico è quello di ricostruire la dimensione del significato a partire dalla prospettiva del poeta. Per giungere a un simile esito, l’esegeta deve saper comprendere dall’interno il suo mondo e compiere un’azione di recupero della sua profondità. Con il termine mondo, il critico non intende solo i fatti accertabili che concorrono a popolare l'universo rappresentato nel poema, ma tutte le forme del pensiero e della sensibilità medievali, gli schemi della mentalità e dell'immaginario cristiano . Ecco perché l’atto interpretativo si imbatte, da subito, «nelle cose che sono fuori dalle parole» , e tale incontro avviene sotto il segno dell’allegoria biblica. Singleton sostiene infatti che l’allegoria di Dante, in quanto imitazione di quella contenuta nelle Sacre Scritture, è esplicitamente radicata nella teologia del suo tempo. Da qui deriva la necessità di applicare alla Commedia le stesse modalità interpretative proprio perché l’opera rappresenta una mimesi dei contenuti e del linguaggio della Bibbia. Per riprendere una formula del Convivio, utilizzata assieme all’Epistola a Cangrande per stabilire i principi ermeneutici di riferimento, Singleton ritiene che la Commedia sia fondata sull’allegoria dei teologi e non su quella dei poeti. Anche in questo caso, la distinzione operata dall’autore americano si incrocia con la separazione elaborata da Auerbach.
Nel caso di un primo significato fittizio, quale si ha nell’“allegoria dei poeti”, qualsiasi interpretazione parlerà sicuramente di un significato esterno e di un significato interno — di un secondo significato trasmesso ma anche, in qualche modo, deliberatamente nascosto dall’“involucro”, dalla “scorza”, dal “velo” di un significato fittizio che lo avvolge .
Questa modalità compositiva prevede, secondo Singleton, una chiave di lettura già prestabilita ed il passaggio tra i due significati viene poi assimilato ad uno scambio di proprietà, avvenuto all’interno di una determinata immagine. L’allegoria che permea la struttura della Commedia, da lui definita scritturale, si sviluppa secondo criteri formali completamente diversi.
Ma la specie di allegoria a cui rinvia l'esempio scritturale fornito nell’Epistola a Cangrande è un’allegoria consistente non in “questa cosa per quella”, bensì in “questa cosa e quella” .
Singleton invita qui il lettore a considerare i versi della Commedia da due prospettive separate che concorrono comunque a determinare la verità del messaggio trasmesso. In modo analogo a quanto accade con il testo biblico, da un lato ci sono le parole, che hanno un significato reale perché si riferiscono ad un avvenimento considerato come effettivamente accaduto in quanto rivelato. Dall’altro ci sono gli eventi, portatori di un significato ulteriore e spirituale perché sono opera di Dio. Da qui deriva, ad esempio la centralità attribuita a Beatrice e alla descrizione dell’Eden contenuta nel trentesimo canto. Il critico infatti riconosce nella sua immagine, accompagnata dalla processione trionfale, la figura di Cristo, e considera il paradiso terrestre il vero punto di arrivo del poema, costruito non tanto come un viaggio verso Dio ma come un viaggio verso Beatrice.
In questo senso, dunque, il critico americano considera allegorica la Commedia e la sua esegesi scritturale è tesa all’appropriazione del senso teologico contenuto nei versi danteschi. Non c’è elemento dell’opera, fino alla scelta metrica della terzina, simbolo della trinità, che non possa rinviare ad un sovrasenso. Questo non vuol dire, secondo Singleton, che non si possa parlare per l’opera di Dante di simbolo; esso però si manifesta solo quando il processo di imitazione riguarda l’universo naturale ed è immagine pertanto del rapporto diretto tra Dio e l’universo creato. Questo aspetto lo differenzia notevolmente da Auerbach, più sensibile alla dimensione storica evocata dalle figure dantesche. Resta evidente, comunque, la distanza con le posizioni di Croce, verso il quale entrambi manifestano il loro aperto dissenso. Ecco perché risulta di un certo interesse esaminare, in ultimo, la difesa crociana compiuta da un autore per certi aspetti insospettabile e che contribuisce ad alimentare la querelle tra simbolo e allegoria.
Con l’esaurimento dell’interpretazione crociana non si può certo dire che venga meno la sua visione filosofica, soprattutto nel campo dell’esegesi dantesca. Ad uno sguardo attento, anche nelle discipline emerse in opposizione a Croce sono evidenti alcune tracce del suo pensiero e della sua azione critica. Mi riferisco in particolare a quegli orientamenti che si definiscono scientifici e che, come tali, contraddicono in modo significativo l’impalcatura teorica del filosofo. Tale paradosso si avverte innanzitutto nella pratica testuale promossa dalla Stilkritik. Da un lato, infatti, è evidente lo iato che separa questa tendenza dai precetti crociani: il favore attribuito sia all'espressione che agli aspetti linguistici è in aperto contrasto con quanto teorizzato in proposito da Croce, che considera l’espressione già verificata e assorbita all’interno dell’intuizione. D’altra parte, però, l'indagine del particolare non allontana l’esigenza di ricomporre entro una prospettiva unitaria l’esito dei sondaggi compiuti, ed è quando si rivela necessario determinare il principio creativo che affiora, in termini ideali, il riferimento all'anima dell’artista. Ad ulteriore comprova, vale la pena ricordare il giudizio ampiamente positivo riservato da Croce agli studi danteschi di Vossler, ritenuto capace di cogliere il tono fondamentalmente lirico della Commedia, sorto «dall’animo o dal sentire (Gemut)» del poeta.
Ma per verificare questa ipotesi, intendo soffermarmi sulla figura di Gianfranco Contini. La presenza di Croce nel suo sistema teorico è stata oggetto di ampio dibattito, alimentato dai saggi a lui dedicati dal filologo, oggi raccolti nella silloge einaudiana Altri esercizi . Prima di inoltrarsi in questo discorso vale la pena, però, ricordare la distanza di metodo che li separa: diametralmente opposta si rivela, infatti, la prassi testuale e nulla potrebbe essere più lontano dall’orizzonte filosofico di Croce della critica degli scartafacci, o dello scandaglio semantico e lessicale che accompagna certe letture di Contini. Non si può dire altrettanto, invece, delle concordanze filosofiche, anche se su questo punto è condivisibile quanto affermato da Mengaldo, che limita il campo delle analogie alla avversità manifestata da entrambi per la classificazione dei generi letterari . E tuttavia, vi è un punto di tangenza forse ad oggi trascurato e che riguarda proprio l’analisi della Commedia e l’allegoria . In realtà Contini ha dedicato ampia parte dei suoi interessi alle Rime di Dante e all’attribuzione del Fiore, per poi soffermarsi sul poema in modo meno assiduo. Gli esiti, comunque, di questa lunga fedeltà, del tutto simile a quella destinata a Gadda e a Montale, sono racchiusi in Un’idea di Dante, uscito in prima edizione nel 1970, a circa mezzo secolo dal volume crociano. Si tratta, dunque, di un punto di riferimento imprescindibile della vicenda critica della Commedia, e fra i testi d'occasione raccolti in appendice figura un contributo insolitamente polemico, dal titolo Un libro americano su Dante. Il testo è un’ampia e ragionata recensione apparsa nel 1956 su «Romance Philology» e relativa a Dante Studies I. Commedia. Elements of Structure, di Charles Singleton, pubblicato in America nel 1954 e che insieme agli altri lavori del critico venne poi stampato in Italia in un unico volume, La poesia della Divina Commedia (1978). Sin dalle prime pagine, Contini manifesta dei dubbi non tanto sull’impostazione complessiva dell’opera, incentrata sul riconoscimento dell’allegoria dantesca, quanto sul rifiuto del modello interpretativo elaborato da Croce. A ben vedere, infatti, egli non esprime solo una certa diffidenza per il modo in cui viene articolata la questione dell’allegoria, ma pure qualche riserva per la posizione anticrociana assunta da Singleton. La difesa dei valori estetici comincia da una netta separazione tra filologia e critica. Se, da un lato, l'accumulo dei dati testuali che precede il giudizio di valore è comunque fondato sulla «stereoscopia storica» (e in tale prassi viene inclusa la storia del testo e delle sue interpretazioni) questo ragionamento non riguarda il momento ermeneutico, di cui Contini rileva la contemporaneità (concetto caro a Croce) allo sguardo del critico, che «attira alla sua modernità» tutti i dati raccolti per determinare il valore dell’opera in esame. In questo senso l’autore trova poco pertinente la polemica svolta da Singleton per esprimere i fondamenti del proprio approccio critico visto che la sua interpretazione, di per sé legittima, non avrebbe bisogno di stabilire alcuna antitesi col recente passato.
Ma ad attirare l’attenzione sono i rilievi critici mossi dal filologo alle interpretazioni offerte da Singleton. Anche in questo caso, il modello discorsivo impiegato da Contini nella sua recensione tradisce un’inequivocabile ascendenza crociana. Esaminando alcune delle proposte esegetiche avanzate dall’americano egli le giudica inessenziali, ed altrettanto prive di senso sono le chiavi allegoriche ad esse collegate. Si tratta, a ben vedere, di un’affermazione che ricorda da vicino il modo di procedere di Croce nei confronti della tradizione allotria, da lui ripudiata in nome di una lettura estetica dei valori letterari. Vale la pena soffermarsi su un esempio.
Nella fiumana non letterale di Inf. II 108, identica o allusiva per il Singleton al mare che circonda la montagna del Purgatorio, si potranno o non si potranno riconoscere, secondo il suo suggestivo accostamento, le acque della concupiscenza di cui parlano Agostino e Ugo: la sua tesi generale non ne risulta né confortata né smentita .
Non stupisce, dunque, che in un saggio di poco posteriore, Dante come personaggio-poeta della «Commedia» (1958) Contini ritorni sulla divisione tra simbolo e allegoria proposta da Singleton nel suo volume e che la consideri «troppo meglio segnata in linea di diritto che di fatto» . Ancora una volta l’autore riprende le tesi esposte dal critico americano per confutarle in nome della loro irrilevanza sul piano ermeneutico. Secondo Contini, infatti, tale distinzione è più teorica che pratica e andrebbe usata maggiore cautela nel definire e classificare i rispettivi campi di appartenenza. Il rischio corso da Singleton è quello di sovrapporre una pur ingegnosa costruzione di metodo all’effettiva poetica di Dante. La soluzione da lui proposta si rivela, per Contini, di tipo congetturale, ed è da includere in quella tendenza alla glossa che lo studioso del Medioevo deve riuscire a contenere.
Un’aquila è... (oltre che un’aquila simpliciter): simbolo. E un’aquila che cala ed esegue la tale operazione è (oltre che quel fatto storico): allegoria. Il vantaggio è limitato. E giova precisarne la causa. Quell’abito così rapinosamente interpretativo che l’uomo del Medioevo, s'intende quando interpreta, sovrappone alla realtà, non è aderente, e così la realtà non muore asfissiata .
Il guadagno interpretativo proveniente dalla separazione tra simbolo e allegoria non è tale da giustificarne il ricorso. Il principio qui evocato è quello della soluzione più economica e che Contini ha sempre perseguito nella ricostruzione degli stemmi e nella critica delle varianti. L'impiego dei principi selettivi adoperati nel campo della filologia non implica necessariamente, come dimostra la precisazione contenuta nel brano citato, che l’influsso crociano sia del tutto scomparso. L'immagine dell’abito troppo stretto mi pare sia un chiaro riferimento alla rigidità convenzionale dell’allegoria e che nasconda una predilezione da parte di Contini per la teoria del simbolo, la quale permetterebbe di stabilire una dialettica più aperta tra i termini messi in relazione.
In ultimo il duplice magistero esercitato nel campo dell’esegesi dantesca dal filosofo e dal filologo, così diversi nell'approccio e nelle convinzioni critiche, perviene ad un esito comune, quello di relegare ai margini dell’interpretazione l’aspetto dialettico della rappresentazione, laddove essa può aprirsi alla storicità referenziale del testo. Anche per Contini, in fondo, la letteratura è un assoluto lirico a cui si accompagna, separata, la profondità diacronica e materiale della lingua, da lui peraltro difesa e restituita con incontestabile genialità; e sotto questo aspetto la distanza da Croce resta abissale. Ma che vi sia una analoga sordità per la dimensione allegorica della Commedia è un dato altrettanto indiscutibile e denuncia i limiti di un certo tipo di indagine formale che difficilmente riesce a spiegare, lontano dalla metafisica del testo (sia essa il prodotto di una forma di idealismo o di scientismo poco importa) la dialettica tra realtà e allegoria presente nella Commedia. Un'analisi più approfondita potrà nascere solo quando questo nesso, assieme a quello più ampio che lega arte e società, processi economici e produzione intellettuale, prenderà forma nel dibattito culturale e filosofico d’area marxista.