Dati bibliografici
Autore: Mirco Manuguerra
Tratto da: Dante e la pace universale. Il canto VIII del "Purgatorio" e altre questioni dantesche
Editore: Aracne, Roma
Anno: 2020
Pagine: 19-21
Ogni esegeta dovrebbe sapere che la più cruciale delle problematiche che si troverà mai ad affrontare nello studio della Divina Commedia non è affatto — come si potrebbe pensare con facilità — l’enigma massimo della Profezia del Veltro (If I 100-102), bensì lo stabilire i limiti precisi che si intendono concedere all’ars retorica dell’Allegoria. È da questa scelta precisa, che ogni studioso necessariamente fa in modo più o meno consapevole, che dipendono i risultati prodotti nell'arco di un'intera vita di studi.
La prima definizione compiuta del termine “allegoria” ci viene da Eraclito, non a caso detto “l’Oscuro”, filosofo del pantha rei (‘tutto scorre’) e immediato precursore di Pitagora. A lui si deve il celebre aforisma: «Dopo la morte attendono gli uomini cose che essi non sperano e neppure immaginano», ripreso in parafrasi in un film di culto come Blade Runner. Ebbene, per Eraclito, «conformemente all’etimologia greca, l’a.[Ilegoria] è una figura retorica consistente nel “dire altro” da ciò che vuol significare» .
La definizione di Eraclito, nonostante alcune riserve sollevate da alcuni, pare a chi scrive del tutto sufficiente: oltre ad esprimere con evidente chiarezza «l’arte del dire una cosa per sottintenderne un’altra», essa vale a separare, di principio, il ruolo dell’Allegoria da quello del Simbolo. Il Simbolo, in effetti, non esprime in sé, giocoforza, un’allegoria. È perciò opportuno salvaguardare l'autonomia di entrambi i termini affermando piuttosto che l’Allegoria può essere attuata sia per verba che per imago e che il Simbolo può essere utilizzato anche a scopo allegorico.
L'uso dell’allegoria presso i filosofi successivi trovò scarso rilievo, se è vero che nella scuola pitagorica la Conoscenza era riservata ai soli iniziati. È con Platone e Aristotele che il concetto torna in auge in forza della distinzione che si fa, sia in Accademia che in Liceo, tra produzioni exoteriche (o “essoteriche”), rivolte cioè a tutti, e produzioni esoteriche, dunque riservate ai soli iscritti .
È soltanto con Dante che pare attuarsi una vera e propria rivoluzione copernicana: nella Divina Commedia verbo e imimagine, tramite l’allegoria, sono portati alla piena coincidenza in quella notissima stranezza fondante di cui a If IX 61-63, per cui le due dottrine, la esoterica e la exoterica, coesistono alla perfezione in un unico dettato. Di più: per esplicita ammissione dello stesso Sommo (Cv II I 2-7; Ep. XIII 20-22), i versi del «poema sacro» (Pd XXV 2) si prestano a ben quattro livelli di interpretazione: letterale, allegorico (in senso stretto), morale e anagogico.
In proposito ci sono due importanti avvertenze. Innanzitutto Dante si è premurato di enunciare con chiarezza la propria scelta cruciale di trattare delle cose del Cielo non secondo la maniera dei teologi, bensì secondo quella dei poeti (Cv II I 3) e che questa affermazione debba valere «più che sul senso allegorico [...], sul senso letterale» è cosa già da tempo posta agli atti dell'ermeneutica contemporanea . In secondo luogo, l’Alighieri precisa che il senso letterale sempre deve precedere quello allegorico (Cv II I 8-14), precetto con cui si vuole evidentemente affermare che il piano della lettera non può basarsi sulla mera fantasia: la lettera deve poggiare su solide basi di verità, intendendo con ciò figurazioni anche fantasiose ma non contraddittorie rispetto alla dottrina o del tutto campate per aria.
Per quanto detto, l’allegoria della Commedia deve sì essere intesa come una dottrina celata sotto il «velo» di una «bella menzogna» (ancora Cv II I 3) — cioè raccontata sulla base di un viaggio attraverso i regni oltremondani di certo mai vissuto –, tuttavia il tema della Fede, su cui poggia l’intero racconto fantasioso, con tutta la Dottrina che attorno ad essa si sviluppa, non può in alcun modo essere posto in discussione.
In un siffatto ordine di idee risulta possibile precisare — dato che tutto nel poema è soggetto ad un evidente processo anagogico (ovvero di elevazione), a partire dallo stesso stile poetico (dalle rime aspre e i termini addirittura volgari dell'Inferno, alle altezze formali del Paradiso) per finire con l'elemento musicale (dal «suon di man con elle» di If III 27 ai cori angelici dell’Empireo) — che il quarto livello, quello denominato per l'appunto “anagogico” (in senso evidentemente stretto), non può che corrispondere al percorso esoterico del poema inteso secondo quel che si dice “pensiero tradizionale” tanto caro ad un fine commentatore come Giovanni Pascoli. Al livello morale, invece (che qui diremo “morale-autobiografico”), andranno ascritti gli elementi di magistero insiti nell'esperienza sociale e politica del poeta, mentre nel piano allegorico (in senso stretto) è riposta l’intera dottrina filosofica, cioè, con precisione, la poetica di Dante.
In generale, ogni passo dell’opera è in grado di soddisfare a ciascuna di queste diverse prospettive. Chi scrive ha sviluppato un'interpretazione allegorica (intesa nel senso stretto) della struttura generale della Divina Commedia in chiave neoplatonica ed è su questa prospettiva che si sviluppa essenzialmente il presente lavoro.