Dati bibliografici
Autore: Adriana Mazzarella
Tratto da: Alla ricerca di Beatrice: il viaggio di Dante e l'uomo moderno
Editore: In/Out, Milano
Anno: 1991
Pagine: 49-57
Il documento più prezioso per comprendere i diversi significati dell’opera dantesca è l’epistola scritta dal poeta a Can Grande della Scala, con la quale Dante dedicava al Signore di Verona il Paradiso; altri spunti interessanti si trovano in alcuni brani del Convivio.
Portando l’esempio del Vangelo e della Bibbia che, oltre al significato letterale, ne hanno uno simbolico-anagogico, Dante afferma esplicitamente che anche la sua opera è “polisensa”, ha cioè più significati. È facile notare che questi significati potrebbero corrispondere per analogia alle quattro funzioni della psiche indicate da Jung e cioè:
— il significato letterale, corrispondente alla funzione della sensazione;
— il significato allegorico, corrispondente al pensiero;
— il significato morale, che corrisponde al sentimento;
— il significato anagogico, che corrisponde in parte all’intuizione; lo chiamiamo anche “simbolico” (dal greco symbolon, unione) in quanto comprende, in una sintesi superiore che li trascende, anche gli altri significati.
Non è facile penetrare questi significati, perché la materia trattata da Dante è di per sé ermetica ed esprime una verità che non si può “spiegare” e il cui senso ognuno può percepire a modo proprio. Dato che il poeta si attiene alla tradizione cristiana, è tutto il significato collettivo e simbolico di tale tradizione che emerge dall’opera dantesca: pur basandosi sulla verità rivelata, Dante tuttavia la trascende in uno spazio più universale, al di là di ogni forma storica, mitica o rivelata.
Dei quattro significati è il quarto, l’anagogico, che sembra essere sfuggito ai più: “anagogico” (dal greco anagogos) significa “che porta in alto, spirituale”; Dante lo chiama anche “sovrasenso”. Fiumi di parole sono state scritte in tutto il mondo sulla Commedia, per metterne in rilievo i contenuti filosofici, teologici, politici, storici, sociali; ma queste interpretazioni non penetrano quasi mai il significato più nascosto dell'opera dantesca.
Meglio di qualsiasi interpretazione, sono proprio le parole del poeta a metterci sulla strada della ricerca:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani.
[Inf. IX, 61-63]
Questa terzina ha fatto molto riflettere i ricercatori più valenti. Qual è la “dottrina”, l'insegnamento che il poeta ci vuole trasmettere? E perché proprio lì, in quel punto dell’opera, egli ci invita ad alzare il velo che la copre per contemplarla?
Ritorniamo alle parole di Dante:
Ad intelligenza pertanto delle cose da dirsi, è da sapere che il senso di quest'opera non è semplice, che anzi essa può dirsi polisensa, vale a dir di più sensi; perciocché altro è il senso che si ha dalla lettera, altro è quello che si ha dalle cose per la lettera significate. Il primo si chiama letterale, il secondo allegorico o morale o anagogico. [Epistola X, 7]
È molto difficile esprimere le esperienze interiori; tutti i poeti, antichi e moderni, i mistici, gli iniziati di tutte le tradizioni confermano questa difficoltà. A volte — come fa Beatrice nel XXXIII canto del Purgatorio — la forma “ermetica” è usata proprio per evitare che l’uomo pensi di “aver capito” in modo semplicistico: questo precluderebbe definitivamente il processo di sviluppo interiore.
Nel Convivio il poeta è ancora più chiaro:
Le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera delle parole fittizie, si come le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritate ascosa sotto bella menzogna. [...] Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, si come appostare si può nello Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici apostoli, menò seco li tre; in che moralmente, si può intendere che a le secretissime cose, noi dovemo avere poca compagnia.
Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quanto spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziando nel senso litterale, per le cose significate, significa de le superne cose de l'etternal gloria, si come vedere si può in quello capitolo del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d’Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno vero è quello che spiritualmente si intende cioè che nell’uscita dell'anima dal peccato essa sia fatta santa e libera in sua potestate. [Convivio, II, I]
Dante ci dice quindi che prima è necessario intendere il significato manifesto, letterale dell’oggetto di cui si parla, e poi cercarne il significato nascosto, che non è dicibile, ma va scoperto da ciascuno dentro di sé. Ci consiglia inoltre di procedere “dal noto all’ignoto”, seguendo le seguenti tappe:
— il soggetto,
— la forma,
— la finalità,
— il modo d'’ascolto.
[...] è manifesto che duplice dev'essere il soggetto, intorno al quale i varii sensi altamente discorrano; e però è da vedere dapprima del soggetto di quest'opera preso alla lettera, e poi del soggetto stesso, preso secondo la sentenza allegorica. Adunque il soggetto di tutta l’opera, secondo la sola lettera considerata, è lo stato delle anime dopo la morte preso semplicemente; perché di esso e intorno ad esso il processo di tutta l’opera si rivolge. Se poi si consideri l’opera secondo la sentenza allegorica, i/ soggetto è l’uomo, in quanto che per la libertà dell’arbitrio meritando e demeritando, alla giustizia del premio e della pena è sottoposto. [Epistola X, 8]
Allegoricamente il soggetto è dunque l’uomo; ma, anagogicamente, a quale uomo allude il poeta? Dante non ci dice nulla. Il significato delle pene infernali e del Purgatorio, nonché della beatitudine del Paradiso, va ricercato da ciascuno oltre il significato letterale e allegorico.
La forma poi è duplice, la forma cioè del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è triplice secondo la triplice divisione. La prima divisione. è questa; che tutta l’opera dividesi in tre Cantiche; [...] La forma, ovvero il modo di trattare, è poetico, fittivo, descrittivo, digressivo, transuntivo, e oltre, a questo, definitivo, divisivo, probativo, improbativo e positivo d'esempii. [Epistola X, 9]
Dante usa dunque un linguaggio contradditorio, paradossale — per certi aspetti alchemico — e non dà giudizi, ma esemplificazioni. Egli parte da una determinata situazione storica e ambientale, o da un certo personaggio, ma li ricrea a mo' di simbolo per esprimere un’esperienza interiore, come afferma esplicitamente nel suo colloquio con Cacciaguida:
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
chè l'animo di quel ch’ ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’ aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia.
[Par. XVII, 136-142]
Sempre nell’Epistola a Can Grande, Dante spiega quanto sia difficile esprimere ciò che l’uomo esperimenta quando “trascende l’umano modo?” (noi diremmo: quando riesce a percepire il linguaggio dell’inconscio). Per queste esperienze le difficoltà espressive sono inimmaginabili. Di qui la necessità di usare un linguaggio particolare, come quello da lui sopra descritto:
Ad intelligenza delle quali cose è a sapersi, che in questa vita l'intelletto umano, a cagione della connaturalità e affinità che tiene colla sostanza intellettuale separata, allorquando si eleva, si eleva tanto che la memoria dopo il suo ritorno vien meno, per aver trasceso l’umano modo.
[Dante riporta qui l'esempio di Paolo rapito in cielo, dei mistici tra cui Riccardo di S. Vittore, Bernardo, Agostino, Daniele].
Molte cose infatti coll’intelletto vediamo delle quali mancano i segni vocali: illche bastantamente dimostra Platone nei suoi libri per aver fatto uso di forme traslate; poiché pel lume intellettuale molte cose conobbe, le quali con proprio discorso non valse ad esprimere. [Epistola X, 28-29]
È bene ricordare che l'intelletto di cui parla Dante è una funzione umana distinta dalla ragione; non corrisponde quindi al significato che diamo oggi a tale termine. Questa distinzione esiste in tutte le tradizioni esoteriche. Per “ragione” si intende quella funzione analitica ragionativa che simbolicamente ha sede nel cervello, che quindi appartiene all’Io e che la tradizione indù chiama manas, cioè il luogo dove si formano le immagini e dove risiede la memoria.
L’intelletto per Dante è “l’intelletto d'amore” (personificato in Beatrice), l’“intelletto attivo” della scolastica, la “madonna intelligenza” degli gnostici, la “sapienza santa” dei Fedeli d'Amore, la Sophia del Vecchio Testamento. È una facoltà particolare che risiede nel cuore e dà una conoscenza totale, immediata, non razionale; essa permette di trascendere i limiti dell'Io e mette l’uomo in relazione diretta con la Rivelazione senza altre mediazioni (psicologicamente col mondo dell'inconscio). Nella tradizione indù è la buddy, nella qabbalah è la shekina, teologicamente è la grazia.
È Dante stesso che ci sollecita a non fermarci al senso letterale e a quello allegorico, ma ci incita a penetrare il terzo significato, quello di ordine morale:
Il genere poi di filosofia, sotto il quale nel tutto e nella parte qui si procede, è operazione morale ossia etica, poiché non alla speculazione ma alla pratica è stato il tutto intrapreso. [Epistola X, 16]
Occorre cioè portare la ricerca su di sé e cercare di sperimentarla nella vita pratica, non per speculazione filosofica astratta né per tornaconto personale. Dopo aver affermato che lo scopo per cui ha scritto la Commedia è di ordine pratico ed etico, Dante continua:
Il fine del tutto e della parte può essere molteplice, cioè prossimo o remoto. Ma lasciata ogni sottile investigazione, è a dirsi brevemente che il fine del tutto e della parte si è rimuovere coloro, che in questa vita vivono, dallo stato di miseria e indirizzarli allo stato di felicità (removere viventes in bac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis).
[Epistola X, 15]
Ma a quale “stato di miseria” allude il poeta? È la miseria spirituale dell'uomo costretto a una vita senza senso. Dante vuole aiutare coloro che si lasciano vivere dalla vita in un puro attivismo o abbandonandosi a una pura ignavia o accidia, trascinati — per dirla con l'Oriente — dalla ruota del Samsara, in qualche modo equivalente all’inferno dantesco.
Afferma Jung:
In prospettiva storica non è difficile capire di quale carenza soffrisse l'antichità, e lo stesso si può dire del Medioevo, ove le sentenze crudeli e inattendibili e i rapporti feudali rendevano precari i diritti e la dignità umani: si dovrebbe pensare che in tali circostanze l’amore cristiano per il prossimo fosse più che mai opportuno. Ma che accade se esso è cieco e privo di giudizio? [...)] L'amore da solo non serve a nulla, se non è sostenuto dalla ragione. [...] Per questo il Cristianesimo, nella sua realtà storica, non si è accontentato di esortare gli uomini all’amore per il prossimo, ma ha svolto un’opera spirituale di civiltà che non giungeremo mai a sopravvalutare educando l’uomo a una più alta presa di coscienza e responsabilità. Sicuramente anche l’amore è necessario, ma un amore che si accompagni al giudizio e alla ragione. [...] Più l’amore è cieco e più esso è preda dell’istinto, e portatore di minacce distruttive, poiché esso è una potenza che necessita di forma e direzione. Per questo ad esso è congiunto un Logos compensatorio, come una luce che brilla nelle tenebre. L'uomo che non è cosciente di sé stesso agisce in preda all’istinto ed è ingannato da tutte le illusioni che egli stesso si crea: ciò che in lui è inconscio gli si para davanti come se venisse dall’esterno, ma è in realtà la sua stessa proiezione sul prossimo. (Jung, L'albero filosofico, in OP, XIII, pp: 318-319]
[E necessario che] l’uditore sia reso benevolo, attento e docile; e questo massimamente richiedesi [...] in un soggetto di genere meraviglioso. La materia infatti, intorno la quale il presente trattato s’aggira, essendo meravigliosa.
[Epistola X, 18]
Si potrebbe avvicinare questo passo di Dante a quanto molto più estesamente dice Jung sull’opera visionaria in Psicologia e poesia:
[Nell'opera visionaria] nulla si spiega più da sé e il lettore è chiamato di verso in verso a far uso delle sue proprie capacità interpretative. [p. 362] [Nell'opera visionaria) tutto si capovolge; il tema o gli eventi che formano il contenuto della rappresentazione artistica non sono più materia conosciuta; la loro essenza ci è estranea e sembra provenire da un remotissimo sfondo di epoche preumane o da sovraumani mondi di luce o di tenebre; l'argomento ci sembra un evento primigenio al quale la natura umana rischia di soggiacere, spossata e sbigottita. L'impressione violenta che ne riceviamo poggia sulla mostruosità dell'evento che emerge, freddo ed estraneo o significativo e sublime, da profondità senza tempo; sia che scintillante, demoniaco o grottesco mandi in pezzi valori umani e belle forme [...] sia che si riveli di altezze e profondità insondabili dall’intuito umano, ovvero di una bellezza che vanamente le parole tenterebbero di afferrare. [...] L'esperienza visionaria [...] strappa dall'alto al basso il velo, sul quale sono dipinte le immagini del cosmo. [...] Visioni primigenie incontriamo nel Poimandres, nel Pastore di Erma, in Dante, nella seconda parte del Faust. [...] Dante e Wagner [...] hanno [...] reso il compito un po’ più facile, poichè nel primo un evento storico, nel secondo un evento mitico ricoprono l’esperienza primigenia e possono quindi essere considerati “argomento”. In entrambi, però, la dinamica e il significato non risiedono né nel materiale storico né in quello mitico, ma nella visione primigenia che essi esprimono. [pp. 363-364]
Il Pastore di Erma, così come la Divina Commedia e il Faust, sono carichi di echi e di risonanze dell’esperienza d'amore primigenia. [...] La personale esperienza d’amore [...] è [...] subordinata alla più importante esperienza visionaria. [p. 367]
Questa testimonianza è significativa perché dimostra che [...] all’interno dell’opera d’arte la visione rappresenta un'esperienza più profonda e più forte della passione umana. In opere d’arte di questo tipo [...] la visione è un’autentica esperienza primordiale [...] “simbolo vero, cioè espressione di un’essenza sconosciuta”. [p. 367]
L’esperienza primigenia non ha né voce né immagine; è una visione “in uno specchio oscuro”, una poderosa intuizione che cerca di esprimersi, un vortice che afferra tutto ciò che gli si offre e, vorticando, acquista forma visibile. Ma siccome l’espressione non raggiunge mai la pienezza della visione, né esaurisce mai la sua immensità, il poeta ha spesso bisogno di un materiale quasi mostruoso per riprodurre, sia pure approssimativamente, ciò che intuisce; né può rinunciare a espressioni difficili e contraddittorie se vuole esprimere il conturbante paradosso della sua visione. Dante dispiega la sua esperienza attraverso le immagini dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. [p. 369]
Quel che compare nella visione è un'immagine dell'inconscio collettivo [...], matrice e presupposto della coscienza [...]. Le manifestazioni dell'inconscio collettivo hanno carattere compensatorio. [p. 370]
Dobbiamo domandarci quale sia il rapporto tra un’opera simile e la “coscienza dell’epoca”. [...] La grande creazione poetica scaturita dall’anima dell'umanità [...], riguarda l'epoca intera. [...) Perciò la gloria di Dante è immortale. [...] Un poeta o un veggente esprime l’inesprimibile della sua epoca e dà vita nell'immagine o nell’azione a ciò che il bisogno incompreso di tutti attendeva, nel bene o nel male, per la salvezza di quell'epoca o per la sua rovina. È pericoloso parlare della propria epoca. [p. 371]
Ognuno di questi poeti parla con la voce di migliaia e decine di migliaia di uomini, profetizzando una mutazione della coscienza del tempo. [...] Il mistero della creatività è, come quello del libero arbitrio, un problema trascendentale, che la psicologia non può risolvere, ma soltanto descrivere. [p. 372]
L'essenza dell’opera d’arte [...] consiste [...] nel fatto di innalzarsi al di sopra di ciò che è personale e di parlare con lo spirito e con il cuore allo Spirito e al cuore dell'umanità. [...] La scuola freudiana sostiene che ogni artista possiede una personalità ristretta, infantile, autoerotica: questo giudizio può valere per l'artista in quanto persona, ma non per il creatore che è in lui. [...) Ogni artista rappresenta una dualità o una sintesi di proprietà paradossali. Da un lato è un essere umano-personale, dall’altro un processo umano-impersonale. [pp. 373-374]
L'arte è innata in lui come un impulso che lo afferra e ne fa il suo strumento. [...] Come artista è nel senso più alto “uomo”, è “uomo collettivo”, portatore e rappresentante della vita psichica inconscia dell’umanità. Questo è il suo officium, il cui peso è spesso così preponderante che gli vengono fatalmente sacrificate la felicità personale e tutto ciò che di solito rende all’uomo comune la vita degna d’essere vissuta [...] Egli è soprattutto spinto e guidato dall’inconscio, il misterioso Iddio che abita in lui. [...] Raramente si dà il caso di un artista che non debba pagare cara la scintilla divina che è in lui. [p. 375]
La psicologia della creatività è propriamente femminile, poiché l’opera creativa erompe da profondità inconsce, cioè proprio dal regno delle Madri. [...] Questa immagine è radicata nell’inconscio da tempi immemorabili, e lì dorme finché [...] un grande errore [...] faccia deviare il popolo, dalla retta, via [...]. Quando si aprono [...] strade false, esso ha bisogno del condottiero, del maestro e del terapeuta [p. 376].
Egli è uno strumento [...] sottoposto alla sua opera [...]. Egli ha compiuto, esprimendola, la sua più alta possibilità e deve lasciare l’interpretazione [...] agli altri e all’avvenire. [...] Siamo noi che dobbiamo trarne le conseguenze. [...] Ce ne accorgiamo soltanto quando lasciamo che l’opera d’arte agisca su di noi come ha agito sul poeta. [...] Bisogna lasciarsi plasmare da lei come essa ha plasmato il poeta. [...] Allora comprendiamo anche quale sia stata la sua esperienza primigenia [p. 377].
Non è più in causa il singolo soltanto, ma la collettività, e qui non si tratta più del bene o del dolore del singolo, ma della vita della collettività. Perciò la grande opera d’arte è obiettiva e impersonale e ci tocca nel più profondo. [p. 378]
Queste parole di Jung, così cariche di passione, veramente ci aiutano a penetrare l’opera di Dante. I due maestri di vita, pur così diversi e così lontani, sono collegati da un sottilissimo filo conduttore. Entrambi hanno avuto come soggetto della loro opera l'Uomo, quello che vive in ognuno di noi e che sempre si ricostella quando le dominanti collettive della coscienza si disgregano, ai nostri giorni come in quel lontano Trecento in cui visse Dante. In questi momenti difficili compare la “gnosi”, ossia la conoscenza di sé, la ricerca — sia pure in forme diverse — della luce interiore andata perduta. In questo senso, Dante è anche uno gnostico.