Dati bibliografici
Autore: Claudio Mésoniat
Tratto da: La Scrittura infinita. Bibbia e poesia in età medievale e umanistica
Editore: SISMEL - Edizioni del Galluzzo, Firenze
Anno: 2001
Pagine: 5-14
Si parla nel titolo di questa sezione del convegno di «estetica cristiana». Devo subito rilevare in proposito che in una concezione cristiana la possibilità di una categoria autonoma di estetica, non incardinata nell’ontologia, è problematica. E in questo la posizione antica, patristica e medievale, viene ripresa con semplicità ed efficacia da Urs von Balthasar nel suo Gloria. Un'estetica teologica. La percezione della forma: «La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto» .
D’altra parte il tema del conflitto, cui si accenna nel titolo della relazione che mi si è fatto l'onore di assegnarmi, è di grande vastità: Bibbia e poesia, conflitto (vero o presunto, inconciliabile o componibile) che si inquadra — nell’ottica del periodo medievale-umanistico che accomuna i nostri studi — in più vasti dualismi: storia sacra/storia profana, civitas Dei/civitas hominis, e che allude al grande tema della comprensione e dell’utilizzo della cultura non cristiana, poesia inclusa, in epoca cristiana. Citare sant'Agostino è d'obbligo, con la sua fondamentale distinzione di atteggiamenti di fronte alla cultura precristiana o a quella biblico-cristiana: uti da una parte e frui dall’altra. Ma patristica e scolastica aggiungeranno una grande varietà di sfumature, poiché il dibattito permane e si acutizza in determinati periodi corrispondenti a importanti recuperi del materiale letterario classico. Potremmo d'altronde citare, per alludere al nodo più teoretico della questione, le correnti ostili all’arte (come tale) che accompagnano tutta l’epoca patristica ed esplodono nel conflitto bizantino del periodo iconoclasta: al di là di questa forma polemica esasperata, sarà sempre presente nella storia della Chiesa il richiamo a non permettere che l’immagine di sé agro manifestato al mondo (suo Figlio) venga confusa con altre immagini che, per quanto rilevanti religiosamente, appartengono alla sfera artistica. È insomma l’inesauribile tensione tra l’istanza di recupero della positività dell'essere (tutto è positivo, omnis creatura bona) e l'istanza della specificità, della identità del cristianesimo.
Cercherò innanzitutto di affrontare il tema di questo conflitto, odi questa tensione, in termini concreti, restando nell’ambito dei miei precedenti studi, quelli sul Dominici e sulle polemiche letterarie tardomedievali: primoumanistiche . Studi ormai ‘antichi’; da parecchi anni mi dedico a occupazioni diverse, quale operatore massmediale. Ebbene, sono molto grato a chi, con questa magnanima chiamata, mi ha permesso un ritorno e un ripensamento su quegli studi, in vista di un approfondimento, di spero, quel mio impegno.
Giovanni Dominici non è certamente un pensatore di grande originalità, e patisce un po’ tutte le debolezze della teologia del suo tempo. Anche È proposito della discussione su Bibbia e poesia il suo ruolo è quello di un diligente sistematore della questione, che ha però la lucidità di ripensare gli aspetti essenziali del problema vedendoli attraverso le vicende culturali di tutto il secolo che lo precede e, indirettamente, di un intero millennio di storia culturale cristiana. Mi riferisco in particolare alla sua opera più nota, e più pertinente ai nostri interessi, la Lucula Noctsi, un trattato che mantiene la forma esteriore della quaestio scolastica (più precisamente dell’articulus tomista) come fondamentale struttura testuale, anche se di tale forma tradizionale smarrisce la stringatezza e la sobrietà.
Va subito osservato che motore dell’intervento dominiciano è una seria preoccupazione di natura pedagogica, eticamente connotata sin dall’interrogativo che regge l’intera quaestio: An fedelibus Christianis licitum sit litteris Saecularibus uti. Gli interlocutori suoi, che noi chiamiamo «primi umanisti», sono i protagonisti delle cancellerie (tra i quali l'interlocutore prima- rio e diretto Coluccio Salutati) e degli Studia universitari, «maestri e sono quei di grammatica e retorica, insegnanti di figli di principi o lettori di scuole ben ordinate o di basse scolette, ora valorosi e ora mediocrissimi» così realisticamente dipinti dal Billanovich . E va ricordato che proprio le letture estese dei classici e il nuovo orientamento critico del loro studio sono alla base del rinnovamento dell’insegnamento e dei programmi promosso da questi primi umanisti. Il Dominici non nasconde invece la sua nostalgia per i metodi scolastici tradizionali. Già prima di scendere in campo con la Lucula, nella Regola del Governo di cura familiare il teologo domenicano lamentava come si stessero rivoluzionando i sistemi tradizionali di insegnamento: la lettura dei classici latini nelle loro versioni integrali si andava sostituendo a quella della sacra Scrittura e di testi enciclopedici e antologici collaudatissimi (i celebri auctores octo). Conservatorismo, passatismo? Non me la sentirei di liquidare a buon mercato la posizione del Dominici (che peraltro osservo dall’interno di un medesimo orizzonte cristiano). Il problema pedagogico è problema centrale di ogni culturologia, se correttamente leggiamo la pedagogia come comunicazione intergenerazionale, o meglio come processo di autoriproduzione della cultura. In quest'ottica va pur visto il problema del canone degli autori, la cui fissità non è di per sé sintomo di sclerosi culturale, se è vero, com'è vero, che dalla scuola degli auctores octo vien fuori tra gli altri anche Dante Alighieri.
Ma tornando alla questione portante della Lucula, ossia il quesito metodologico riguardante il trattamento da riservare, in regime di sapienza cristiana, al patrimonio della cultura classica, il Dominici, nella parte centrale del suo trattato (il respondeo dell’articulus tomista) non farà che ripescare il criterio risolutore già contenuto nel deposito più antico della tradizione patristica. Esso consiste nell’affermazione di una finalità superiore, ovvero, secondo il linguaggio scolastico, nella subalternanza delle discipline profane alla sapienza divina. Il Dominici svolge il criterio secondo la variante agostiniana cui accennavo poco fa: quella della distinzione tra uti e fri. È lecito «frequentare», «servirsi» — ma lasciamo l'originale 45 — della cultura o delle scritture secolari, ma il frui è operazione pertinente alle sole scritture sacre. Giova subito accennare una sottolineatura, che ci consentirà di entrare meglio equipaggiati nelle successive considerazioni che dedicherò al nodo centrale dei rapporti tra poesia e sacra Scrittura. La fruitio è da considerare l'atto centrale della teologia come scienza. E cioè l'atto proprio dell’interpretazione della sacra Scrittura che ne coglie, attraverso la historia (o littera), il sensus spiritualis (o intellectus fidei). Lascio qui la parola ad Hans Urs von Balthasar: «La teologia vera e propria comincia nel punto esatto dove la “scienza esatta della storia” trapassa nella scienza della fede propriamente detta (la quale presuppone l’atto di fede come proprio luogo dell’intendere); questa teologia deve essere considerata, nel senso di san Tommaso, come scienza autentica, in un’accezione della scienza che è tuttavia specifica e che conviene solo analogamente con quella delle altre scienze (ivi compresa la filosofia); in virtù cioè di una partecipazione di grazia — immediatamente nell’atto di fede personale, mediatamente però attraverso la Chiesa a motivo della proposizione autentica della fede — alla conoscenza intuitiva di Dio stesso e della Chiesa gloriosa. Solo in questa dimensione è possibile scoprire la ‘forma’ teologica distintiva e la sua bellezza specifica e solo in essa è possibile quell’atto che la tradizione agostiniana descrive come fruitio, che solo è capace di aprire il contenuto teologico ed è specialmente un’anticipazione escatologica verificantesi nella fede e da questa esigita» (fin qui Balthasar) . Resta da notare che il Dominici, in una pagina della Lucula che intesse una sorta di «dialogo» con il venerandus Boccaccio, avalla, senza chiosa alcuna, la distinzione — fondamentale, come vedremo — riproposta dal Boccaccio e già implicita in tutta la tradizione patristica e medievale tra poesia pagana e poesia cristiana. Si delectat poetas legere — scrive il domenicano — (...) legantur primo Torquatus, buccolicum Petrarche Dantisve, Prudentii, Sedulii, Aratoris, Iuvencii.
Veniamo ora al nucleo centrale del «conflitto». Come ben sapete la teologia cristiana (lo abbiamo appena riudito dalle parole di Balthasar) ha sin dalle origini affermato la natura unica del testo biblico nella sua particolare polisemia. Si parla dei «quattro sensi» della Scrittura, un sistema semantico che ha la sua scaturigine nel nesso fondamentale tra senso letterale e senso spirituale (o allegorico). La tradizione Cristiana, patristica e medievale, seguendo san Paolo, ha infatti chiamato «allegoria» quel processo che regola nella Bibbia il rapporto tra i due Testamenti, tale per cui personaggi, avvenimenti e istituzioni dell'Antico Testamento sono altrettanti «tipi» che prefigurano la persona e l’opera salvatrice di Gesù. Non solo le parole, dunque, ma i fatti e le cose, significati dalle parole, adombrano nuovi significati per volontà del loro Creatore: res accomodatae ad significandum. Sant’Agostino, per distinguere questa allegoria da quella letteraria, l'allegoria dei poeti, o allegoria in verbis, ha coniato l’espressione allegoria in factis, e i semiologi nostri Contemporanei parlano, con pertinenza, di «simbolismo dei referenti». Qui sta l'originalità assoluta della sacra Scrittura, e ben si comprende come tanti teologi medievali guardassero con una certa preoccupazione gli accostamenti tra poesia e Bibbia che poeti e letterati instancabilmente suggerivano, fondandosi sulle analogie tra l’uso del linguaggio figurato nella poesia e l’uso biblico di un’allegoria sui generis. Accostamenti che — va pur detto — non forzavano mai l’analogia sino a corromperla in identità, anche se spesso giocavano sull’ambivalenza del termine «allegoria», che manteneva, nel linguaggio comune a teologi e letterati, la doppia accezione di «tipologia» biblica e di figura retorica (tropus quo aliud significatur quam dicitur). L’accostamento, com’è evidente, nobilitava la creazione poetica umana, ma al tempo stesso poteva far insorgere qualche insidioso equivoco. Il Dominici, ad esempio, si mostrò molto sensibile alle ricadute adombranti che l'operazione poteva comportare per la verità del senso letterale della sacra Scrittura. Vera est tota divina Scriptura de virtute sermonis, tuonava il domenicano di Santa Maria Novella, allarmato da certi paragoni che Coluccio Salutati arrischiava forse con troppa leggerezza, laddove ad esempio il Cancelliere affermava che l’intero corpo delle sacre Scritture faceva uso di linguaggio figurato ed era perciò, de virtute sermonis, aliquid fictum o, addirittura, falsum. Ma non mi addentrerò qui nel ginepraio delle dispute sul senso letterale della Bibbia che, come ho mostrato altrove, videro gli stessi teologi più rappresentativi del tempo (il Dominici ed il Gerson, ad esempio) litigare tra loro durante tutto il Concilio di Costanza, a conferma del fatto che, nel tardo Medioevo, il significato profondo della dottrina ermeneutica dei quattro sensi era ormai smarrito tra gli stessi dottori della sacra Pagina (il giudizio è di Henri de Lubac) .
Più interessante, per avvicinarci al fondo della questione, è osservare come il «caso» della Divina Commedia dantesca tenga banco in queste discussioni su poesia e sacra Scrittura per tutto il Trecento. Lo zampino ce l'aveva messo l’autore stesso del poema sacro, che nell’epistola a Cangrande aveva calato abilmente il dispositivo dei quattro sensi nel bel mezzo di una dissertazione sulle chiavi esegetiche della propria poesia. I commentatori della Commedia, e tra gli altri il Boccaccio, ne presero ovviamente spunto per innumerevoli e a volte contorte variazioni sul tema. A frenare ogni velleità confusionaria sembrava comunque averci già pensato lo stesso Dante, che nel Convivio aveva forgiato le due espressioni «allegoria dei poeti» e «allegoria dei teologi», fissando chiara la distinzione tra i due procedimenti testuali.
Ma mettiamo da parte per qualche istante la riflessione degli esegeti e l’autocoscienza dei poeti tardomedievali e vediamo se la semiologia contemporanea ci consente di fare un passo avanti nella comprensione del problema. Come ho accennato, l’originalità della Bibbia è stata condensata nella formula semiotica del «simbolismo dei referenti», ossia dei fatti e delle cose — cui i segni verbali rimandano — che diventano a loro volta segni di altri fatti e cose.
Ma guardiamo più da vicino questa formula. Segni: la concezione codicocentrica che ha dominato a lungo la riflessione linguistico-semiotica contemporanea ci ha indotti a ridurre la segnicità al momento del codice, deontologizzando radicalmente il segno. Nella prospettiva antica e medievale il segno era anzitutto il segno reale, e solo secondariamente il verbo. Nella semiotica agostiniana, ad esempio, il linguaggio originario e l’automanifestazione dell’Essere non è ciò che noi, dopo Lutero, ci siamo abituati a designare come la «Parola di Dio», la Scrittura, bensì Gesù Cristo, nel suo rapporto con l’uomo e con il cosmo. È lui la Parola, ed anche l’Esegesi di Dio. Forse per questo il tema di una testualità in cui il referente diventa segno può sembrare a noi oggi quasi esoterico: fatichiamo a comprenderlo. E in questo non ci è d'aiuto, mi pare, la posizione strutturalista che assolutizza il testo come ‘attività autonoma’ e non come atto/evento di cui occorre rimettere a fuoco la causa umana; atto, prima che «attività», che discende da una volontà libera e ha come rispettivo (nel fruitore) una responsabilità. Da questa posizione, che ho per intenderci denominato «strutturalista», il ritorno ai nostri autori e al loro discorso semiotico mi sembra impossibile, e l’interlocuzione falsificante.
Il ritorno e l’interlocuzione diventano possibili, semmai, nella prospettiva della teoria testuale contemporanea nel senso più stretto della parola. Essa mi pare caratterizzata da questi fatti: primo: l’autentico segno è il testo nella sua totalità; secondo: il testo crea un senso solo nel suo rapporto con tutti i fattori contestuali, ossia mittente, destinatario, referente; terzo: solo un rapporto reale degli interlocutori tra loro e con la realtà consente l’originarsi di un senso e quindi una testualità in senso pieno. Il recupero dell’ontologia piena del segno, il recupero del rapporto tra testo € ciò che non è testuale (mi sono riferito ad autori anglosassoni come Austin, Grice, Sperber e Wilson e, in qualche modo, al loro antecedente filosofico Peirce), questo recupero dei correlati ontologici del testo ci potrà offrire un quadro più adeguato per mettere a fuoco l’originalità del testo biblico, e quindi per ricentrare la questione del suo rapporto con la testualità umana? Vediamo.
La prima specificità del testo biblico, quanto al suo assetto comunicativo, è quella per cui il mittente (come già abbiamo visto) è autore, prima che della narratio, del narratum (o referente, se volete). Perciò l'evento, ogni evento diventa segno, ponendosi come mediazione tra Dio e la sua creatura.
La seconda specificità è quella per cui il referente, il narratum risulta essere una concatenazione di avvenimenti, una storia (un dramma) in cui il senso della totalità degli avvenimenti (e di ognuno di essi) è uno fra gli avvenimenti stessi, secondo una struttura che ha due momenti: promessa e compimento.
La terza specificità è quella per cui il referente è il rapporto stesso tra mittente e destinatario. Concretamente è la storia della salvezza, dove il mittente-Padre salva il destinatario-uomo inviando il Figlio. Qui voglio fermarmi un istante perché l'affermazione «il referente è il rapporto stesso tra mittente e destinatario» mi sembra — ai nostri fini — di una portata enorme. Significa insomma che il referente del testo biblico è perennemente aperto, in fieri. Significa che io stesso, in quanto mi riconosco destinatario (in forza solo di una domanda di senso ultimo della mia vita) contribuisco con la mia esistenza al completamento del referente del testo biblico. E infatti, di converso, nel testo biblico riconosco, come credente, il senso di quanto mi è accaduto, mi accade e mi accadrà. Vedremo tra poco una possibile conseguenza di questa ‘inerenza’ del destinatario al referente del testo biblico. Importa intanto aggiungere un’annotazione. Il testo biblico condivide con ogni tipo di testo la necessità della congruità tra messaggio e destinatario. In altre parole il testo comunica se il destinatario ha in sé la domanda di questo testo, del suo messaggio. Mi spiego: se mi raggiunge una notizia del tipo «è uscito un nuovo francobollo in Cina», non posso dire che avvenga, per quanto mi concerne, una vera comunicazione di cui io sia il destinatario, perché non c'è da parte mia alcun interesse, alcuna domanda. Se però fossi un filatelico la comunicazione avrebbe luogo. Nella mia stessa esperienza comunicativa attraverso la televisione — se mi è concesso — so che per attuare una vera comunicazione con chi sta al di là dello schermo debbo almeno toccare un aspetto che riguardi i miei telespettatori. Ma se in nessun tipo di autentica comunicazione il destinatario è inerte rispetto al messaggio, a maggior ragione questo dovrà valere per un testo, quello biblico, che riguarda il senso della vita in quanto tale.
Questa notazione ci consente di affrontare — ricchi peraltro delle prospettive che la griglia semiotico-pragmatica ci ha permesso di guadagnare circa l’originalità del testo biblico — la testualità umana nella sua dimensione poetica. Potremmo dire che il testo poetico di cui è mittente e autore l'uomo è sempre una messa a tema del destino, della salvezza, e quindi, consapevole o inconsapevole, è messa a tema di quel rapporto che della Bibbia costituisce il referente. Consentitemi di citare in proposito alcune illuminanti considerazioni, quasi confessioni, di un anglista, Luigi Sampietro, che mi sono capitate sotto gli occhi proprio in questi giorni. Il professore (docente alla Statale di Milano) si chiede in un articolo «qual è l’importanza dell’arte e della poesia nella mia vita?». E si risponde: «Quella di una comunicazione non analitica, ma totale e totalizzante Kiel Leggendo un romanzo, leggendo una poesia, guardando un quadro, vivo (...) altre vite. O vivo la mia vita arricchendola di continue e numerose immersioni in altre vite. O meglio ancora, vivo in maniera significativa. Questo è l'oggetto del mio interesse. Ma mi devo anche chiedere — continua il Sampietro — come è fatta questa conoscenza estetica che ha luogo attraverso una via che non è quella analitica, dell'accumulo dei dati e delle informazioni. Il senso della mia esistenza non è dato, più che dalla quantità delle mie informazioni, dalla qualità della mia conoscenza? E comunque, il senso, il significato, della mia esistenza scaturisce dalle conoscenze o non è piuttosto una rivelazione, una scoperta, un riconoscimento che ha luogo per via analogica quando vedo la vita di qualcun altro, quando la vedo rappresentata? Il significato della mia esistenza è la scoperta, il raggiungimento di una verità che faccio mia. E non posso fare mia una verità, al termine di una dimostrazione o discussione, se quella verità non mi tocca. O se tocca la mia intelligenza, ma non la mia volontà (...) — e continua il nostro acutissimo anglista — questo è il mio interesse, e la ragione per cui faccio questo mestiere di leggere e di mostrare l'importanza, an- cora oggi, della conoscenza estetica nella nostra vita. E questa è inoltre la ragione per cui anche chi è persuaso che le cose che contano e che la conoscenza che conta, che ti salva la vita, sia quella della scienza, della medicina, della biologia e della fisica, indulge a qualche passatempo che ha anche fare con la conoscenza estetica». Fa bene, credo, tra letterati, sentirsi ripetere ogni tanto queste cose... E conclude, Luigi Sampietro, con alcune osservazioni sul linguaggio simbolico, che per gli antichi Greci era comune a filosofia e poesia, anzi era peculiare alla speculazione metafisica: «i simboli fuoco, sono segmenti di finito che indicano e alludono all’infinito. Il fuoco, il sole, il padre, l’albero (la parola che li nomina o la figura che li rappresenta). Il linguaggio dei simboli è un linguaggio di cose finite che alludono all’infinito. In cui le parole non sono vuote, come un’enuncia- zione logica, ma dicono quello che devono dire. Il linguaggio della verità. Il linguaggio dei profeti. Il linguaggio dei poeti. Il linguaggio di chi dice che le parole sono pietre» .
Rilevo solo, per parte mia, che sarebbe interessante, dal punto di vista che abbiamo appena guadagnato, riguardare ad alcuni grossi temi delle dispute trecentesche su Bibbia e poesia: il tema del poeta profeta, quello del poeta teologo, della teologia poetica. Qui però il tempo stringe e vorrei ancora fare un passo, un ultimo passo. Mi limito ad annotare che abbiamo toccato un punto di contatto imprescindibile, un’area di prossimità decisiva tra Bibbia e poesia, poesia di qualsiasi matrice culturale. Del resto lo ammetteva anche il grande Hans Urs von Balthasar che «Dio ha bisogno dei profeti per manifestarsi e tutti i profeti sono necessariamente artisti (...) non tutti gli artisti — aggiungeva — sono profeti, sebbene lo possano essere in un senso diverso e più ampio» .
L’ultimo passo ci introduce nell’ambito della testualità cristiana. E qui mi devo richiamare a quanto ci risultava poco fa a proposito della testualità biblica: il destinatario — dicevamo —, in qualsiasi momento dell’epoca cristiana, è partecipe della creazione del narratum, del referente del testo biblico. E precisiamo: il destinatario in quanto attraverso l'atto di fede, e grazie allo Spirito, riconosce nell’uomo Cristo e nel suo corpo ecclesiale la presenza di Dio e intraprende, affidandovisi, la trasformazione della propria vita. In una parola il destinatario credente. Ma ora chiediamoci: se tale destinatario (protagonista dunque del referente, del narratum biblico) è poeta, è autore cristiano che mette a tema il proprio destino nella forma della storia della propria conversione, non sarà forse il suo testo un completamento del testo biblico? La poesia cristiana dunque come prolungamento del testo biblico? Evitiamo di collassare nel pan-biblismo (anticamera del panteismo) e ricordiamo che la Chiesa tira una riga nel tempo e fissa un canone. Potremo allora parlare della letteratura cristiana come letteratura «complementare» alla Bibbia? Forse sì, e avremmo — come ognun vede — più che ricomposto ogni presunto conflitto estetico tra Bibbia e poesia. Ma a me preme altro in questo momento. Aleggiava nella mia mente mentre svolgevo queste ultime considerazioni — forse l’avrete intuito — il nome, lo spirito, la poesia e l’ardita autoesegesi di Dante Alighieri. Tutta la caratterizzazione della scrittura dell’autore cristiano, come l’ho appena adesso accennata, lascia intravedere le ragioni per cui colui che è forse lo scrittore cristiano per eccellenza ha suggerito di leggere sé, ed è risultato leggibile a certi suoi contemporanei, secondo l’ermeneutica dei quattro sensi scritturali.
In realtà la grande tradizione patristico-medievale indica il terzo livello di senso della Bibbia, quello denominato «tropologico» o «morale», non tanto come una «moralità» (cioè come la deduzione intellettuale, a partire dal senso allegorico o spirituale, di regole di comportamento), ma proprio come la trasformazione della vita reale, della storia del credente, in continuità con il secondo senso scritturale, o meglio nell'orizzonte di questo senso, Cristo, sul prolungamento del suo corpo, la Chiesa. Il cristiano si innesta dunque con l’atto di fede nel referente biblico e con la sua conversione con- corre a produrne il terzo livello di senso, quello tropologico. E questo, aggiungerei, con una tras-figurazione della sua vita in Cristo che è in un certo senso speculare alla pre-figurazione di Cristo che la vita del popolo ebraico conteneva. Ora, Dante-autore della Commedia mette a tema il proprio desti- no, in quanto attesta la propria conversione e dunque un processo di trasfi- gurazione della propria storia che riceve senso dalla salvezza. La sua opera si innesterebbe perciò a pieno diritto sul tronco biblico, nel senso detto sopra. Resterebbe da comprendere a questo punto su quanti e quali livelli semantici si strutturerebbe la Commedia. Quale rapporto potrebbe avere con il quarto senso, quello anagogico (o mistico). Come tutto ciò si potrebbe sintonizzare con le spiegazioni auto-esegetiche indicate nella lettera a Cangrande, eccetera. Ma lasciamo queste domande per una prossima occasione, se ci sarà, perché qui mi fermo e vi ringrazio per aver tentato di seguirmi fin qua.