Dati bibliografici
Autore: Bruno Nardi
Tratto da: Nel mondo di Dante
Editore: Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
Anno: 1944
Pagine: 21-40
Che la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete fosse originariamente una canzone allegorica, come Dante insiste a farci credere e come generalmente s’è creduto col Barbi, è risolutamente negato da Amerindo Camilli, uno studioso di solito assai acuto e diligente. Egli è d'accordo col Pietrobono nel ritenere che la spiegazione allegorica che di questa canzone si fa nel Convivio, sia una appiccicatura, e che Dante abbia «incrostato post factum la Filosofia alla Donna gentile, che noi per conseguenza dobbiamo disincrostare se vogliamo davvero capirne la poesia» .
Per giungere a questa conseguenza, egli muove dal principio che «il linguaggio concreto esiste solo nell’atto in cui si parla, è individuale e non si ripete mai». Ma poiché la parola, una volta pronunziata, resta materialmente uguale, pur mutando di significato, ne nasce «quella che in linguistica si chiama polisemia, per cui parole e frasi materialmente eguali hanno significati diversi». Del qual fatto egli cita quattro esempi, due dei quali sono questi: «i treni ferroviari e i treni di Geremia;... la marcia delle ferite, la marcia del podista e la marcia reale». Veramente i treni ferroviari derivano dal francese train, corrispondente al nostro traino, e l’uno e l’altro son derivati dal latino trahere; invece i treni di Geremia derivano dal greco ϑϱήνος che significa lamento, pianto funebre; insomma si tratta di due parole anche «materialmente» diverse, a meno che non si pensi che i treni di Geremia siano delle tiritère imitanti il tran-tran delle tradotte! Lo stesso si di, ca della parola marcia, negli esempi citati: la marcia delle ferite e dei tumori è parola che vien dal verbo marcire; in senso sportivo, militare e musicale, marcia deriva dal francese marcher. Ma a patte questa riserva per ciò che concerne siffatti esempi male scelti, il fatto della polisemia non può esser messo in dubbio, come non può negarsi che casi di polisemia siano tanto la metafora quanto l’allegoria che è un suo derivato. Conveniamo del pari nel principio generale della linguistica, che ogni parola ha quel significato preciso che riflette la situazione spirituale di chi ne fa uso, cioè quel complesso di sentimenti e di pensieri che sono nel suo animo in quel momento e che vuole esprimere a sé ed agli altri. Così, per esempio, la parola nuca per Dante significa midollo spinale, mentre per ignoranza di taluni dantisti, e quindi nell'uso posteriore, la stessa parola ha preso a significare la «parte deretana del cranio».
Piuttosto sarebbe da cercare qual è, da un lato, la ragione della polisemia, e, dall'altro, quella del persistere immutato di certi segni espressivi i quali assumono via via significati sempre nuovi. Così apparirebbe che quando vien pronunziata la parola cane, questa esprime una cosa assai diversa se applicata al vecchio e fedele Argo nell'atto di riconoscere Ulisse anche sotto false sembianze, oppure alla trotterellante e stupida bestiola che partecipa della vacua spensieratezza dei suoi amici in Tre uomini in una barca. Ma né ad Argo o a Montmorency pensa in particolare il naturalista, che, quando ci parla del cane, ha in mente una idea astratta in cui sono raccolti e compendiati i caratteri essenziali di tutta la «specie» canina. La fissità della parola, colla quale si denominano individui tanto diversi tra loro, deriva appunto dall’immobilità dell’idea astratta, cioè schematica, che, prescindendo dall’intuizione di questo o quel cane, coglie quello che v’è di «comune» o di somigliante in tutti gl’individui della specie, e trascura quello che nella percezione d'ogni cane, in ogni momento della vita di questa bestia e in ogni suo atteggiamento, v’è di sempre nuovo e di diverso.
Altro ancora è il significato della parola cane, se con essa voglio indicare un uomo crudele, o chi conduce vita sordida, oppure la tenaglia del cavadenti, il ferro che serviva a precuotere la capsula esplosiva nei vecchi fucili, o anche una costellazione dell'emisfero australe. In tutti questi cinque ultimi significati, è evidente che si tratta veramente dello stesso vocabolo usato a significare, per estensione, cose ben diverse tra loro, a cagione d’una certa somiglianza che l’immaginativa ha scoperto fra ciascuno di questi oggetti e il quadrupede della specie canina. Sicchè la polisemia è sempre giustificata da un qualche rapporto, intuitivo o ragionato, che si scopre esistere fra l’oggetto a cui un nome è dato in senso proprio e quelli a cui è attribuito in senso estensivo o figurato.
Se d’un uomo avido e violento si dice che è un lupo, e d’un altro che sia debole e pauroso si dice che è un agnello, le parole lupo e agnello son prese evidentemente in senso metaforico, per una certa somiglianza scoperta fra i costumi dell'uno con quelli del lupo, e i costumi dell'altro con quelli dell'agnello. E chi racconta la favola del lupo e dell'agnello, costruisce un piccolo episodio, nel quale son rappresentati sulla sponda dello stesso ruscello come due animali a cui vengono attribuiti sentimenti umani, cioè come lupo e agnello metaforici. In siffatta rappresentazione gli antichi, e Dante con essi, solevano distinguere la «bella menzogna» dal «vero» che si cela sotto le «parole fittizie» (le «fictae fabulae» di Fedro); ma in realtà la «bella menzogna» esprime direttamente il «vero», e appunto per questo è bella e non è menzogna. Menzogna è soltanto per chi, come i bambini inesperti della vita, si ferma all'apparenza senza penetrarne il significato, che coll’immagine sensibile fa una cosa sola. E appunto perché i bambini non sanno intenderne il significato, diceva il Rousseau che certe favole non son fatte per essi.
L'allegoria, in casi come questo, non è altro che un ampliarsi e uno svilupparsi del senso metaforico che s’attribuisce alle parole lupo e agnello. Ricondotta dunque alla sua spontanea e maturale origine, l'allegoria consiste, al pari della metafora, nell'espressione d'un concetto (e non d'un'immagine, come impropriamente dice il Camilli) che è nella mente per mezzo d’un’immagine sensibile, per un certo rapporto di somiglianza che c'è parso potersi stabilire fra quest’immagine e quel concetto.
Quello che poi induce a servirsi di questo mezzo espressivo non è tanto la mancanza di vocaboli adatti (caspita, i vocaboli si coniano, quando se ne sente il bisogno), quanto piuttosto, la necessità di far comprendere ad altri un concetto nuovo per via di paragone con una cosa comunemente nota. Da un paragone accorciato nascono appunto la metafora e il prolungamento di essa che si dice allegoria, sì nelle favole che nelle parabole: vi sono uomini avidi e prepotenti, simili a lupi, che per opprimere i deboli, rassomigliati a timidi agnelli, ricorrono a qualunque pretesto; il regno dei cieli è simile a un granellino di senape, che è il più piccolo di tutti i semi, ma cresciuto grandeggia fra gli altri erbaggi e gli uccelli si ricoveran tra i suoi rami; Cristo è la vita e voi siete i tralci; Cristo è la pantera «co lo dolce odore», «lo drago è lo nemico traditore che de lui odorare non è possente».
Vero è, per altro, che il rapporto tra il significato primitivo d’una parola e il significato metaforico di essa non è sempre così evidente e intuitivo come nell’esempio del lupo e dell'agnello e in altri consimili, ma frutto d'un ragionamento più o meno complicato che scopre somiglianze e istituisce raffronti insospettati. Questo avviene in generale per gl'indovinelli, a spiegare i quali occorre accortezza e sagacia di ragionamento, e per talune figurazioni allegoriche dotte. Di allegorie dotte e comparazioni ingegnose la letteratura del Duecento fornisce esempi innumerevoli, e Dante stesso ce n'offre non pochi saggi, come nelle tre fiere incontrate sulla piaggia deserta, nel dilettoso colle, nel veglio di Creta, nella processione mistica del Paradiso terrestre. I vari «bestiari» più o meno moralizzati son pieni di siffatti artifici. Chè si tratta appunto d’un genere artificioso di letteratura, proprio di spiriti colti i quali si sforzavano di far degno. d’intelletto quel che apprendevano da sensato, innalzandosi dal mondo delle immagini terrene al cielo della filosofia.
La differenza tra siffatte allegorie e comparazioni artificiose e quelle altre meno astruse di cui dicevamo prima, non sta propriamente in una diversità di struttura per così dire qualitativa, bensì nel diverso grado di evidenza del rapporto fra i due termini della comparazione, nel quale consistono, come dicevamo, la metafora e l’allegoria. Giacché nella favola esopica e nella parabola evangelica, il rapporto di somiglianza fra il lupo vero e il lupo metaforico, fra il granello di senape e il regno di Dio, è tale che non richiede sforzo per esser compreso; mentre i dantisti, che pur sono i più scaltuiti decifratori d’enigmi, non sono ancora riusciti a mettersi d'accordo sul significato della selva oscura, del dilettoso monte, delle tre fiere, e di tanti altri particolari allegorici della Commedia. L’oscurità di siffatte allegorie e similitudini, quando non è deliberatamente voluta, non è diversa da ogni altra oscurità di linguaggio; e dipende o da reale oscurità e indeterminatezza di concetto, o da imperfezione di mezzi espressivi inadeguati a render l’idea che è nella mente.
Parlo, s’intende, delle vere allegorie. Ma vi son pure quelle che il Camilli ha ragione di chiamate semplici appiccicature allegoriche. Di siffatte appiccicature offrono nel medio evo gran dovizia d’esempi l’esegesi virgiliana e quella dei libri sacri. Se non che con queste che son vere appiccicature, estranee al pensiero d’un autore preso a interpretare, non vanno confusi quei concetti morali, filosofici o religiosi che sono impliciti nella coscienza d'un artista nell’atto di dar vita alla sua creazione, e che da questa traspaiono.
Così, per esempio, è certo che nella coscienza del Manzoni, intento a disegnare la trama dei Promessi e a tracciare la figura e il carattere dei suoi personaggi, v’è un pensiero morale e religioso che si riflette sullo svolgimento dell’azione, ne illumina i particolari episodi, e si rivela dal modo com'è giudicato moralmente ciascun personaggio nel, l’atto stesso in cui l'autore ne delinea la fisionomia; a tal segno che è possibile comprendere, dalla lettura del romanzo, qual fosse la filosofia del Manzoni. Appiccicatura è senza dubbio quell’interpretazione che pretende di scorgere in Lucia l’Italia e in Don Rodrigo l'impero austriaco; ma appiccicatura non è il pensiero religioso che pervade tutto il racconto, e nemmeno, credere, una certa tesi politica proiettata dall'autore nella storia lombarda del secolo XVII, E nemmeno riterrei pura e semplice appiccicatura l’allegoria che il Tasso addita nella Gerusalemme Liberata, se nell’in. vocazione stessa del poema egli dichiarava di mettere la sua arte al servizio del vero, sì che questo, «condito in molli versi», riuscisse ad allettare anche i più schivi.
Certo, si deve aver cura di tener sempre ben distinta, da un punto di vista critico, la figurazione estetica dal pensiero filosofico, morale e religioso d’uno scrittore, e di non confondere il giudizio da dare d’una cosa col giudizio da dare dell'altra. E se il Camilli vuol dire che nel momento della creazione artistica il pensiero filosofico scompare come pensiero e si fa immagine sensibile, «sua sentenza... esser puote con intenzion da non esser derisa». Ma resta pur sempre da vedere se il poeta è riuscito in ogni momento ad esser poeta; e anche quando la poesia abbia davvero preso il sopravvento, non va dimenticato che essa è sempre forma d'un qualche contenuto, la realtà del quale non può essere ignorata dal critico che si propone di intendere com'essa sostanzi la forma estetica.
Semplice appiccicatura, e non allegoria, è invece quello che gli esegeti delle Sacre Scritture sogliono chiamare «senso accomodatizio». Un tal senso assumono le parole d’un testo quando esse vengono adottate a significare qual cosa di diverso da ciò un autore intendeva. Tale è il caso del verso «Io son Beatrice che ti faccio andare», ricordato dal Camilli e applicato a un'acqua purgativa; oppure di tanti altri versi e perfino di detti della Bibbia cui di continuo sogliono attribuirsi i sensi più inaspettati.
Da questi chiarimenti preliminari si deduce, che non vanno confuse le allegorie appiccicate e il così detto senso accomodatizio colle allegorie vere e proprie: poiché nel caso delle false allegorie e del senso accomodatizio si ha una semplice sostituzione di significato a quello inteso dall’autore; invece nelle vere allegorie si ha, non «coesistenza di due significati di cui l’uno è al servizio dell'altro», come pensa il Camilli, bensì un solo significato che è quello metaforico (come nella favola del lupo e dell’agnello, o nelle parabole del Vangelo), oppure un significato pregnante capace di sviluppi per via di ragionamento.
Si deduce altresì, che la Divina Commedia nella sua azione essenziale non è affatto una narrazione allegorica, sebbene vi siano in essa particolari allegorici; poiché il soggetto del poema, dal principio alla fine, è Dante Alighieri fiorentino: — lo, Dante, figlio di Alighiero e pronipote di Cacciaguida, io che vidi già cavalier muover campo e cominciare stormo e gir gualdane, io che vidi temer li fanti che uscivan patteggiati di Caprona, che ruppi uno dei pozzetti battesimali nel mio bel S. Giovanni, proprio io, smarrito in allegorica piaggia deserta, incontrai in visione Virgilio, mandato a me da Beatrice, e in compagnia di lui entrai per lo cammino erto e silvestro dell'Inferno, e quindi, uscito a riveder le stelle, visitai il Purgatorio, finché, incontrata Beatrice in persona, ascesi con lei di cielo in cielo fino all’Empireo e al trono di Dio —. Il pronome personale io risuona in tutto il poema e designa lo stesso ‘ autore, cui Dio concesse per grazia la profetica visione che egli imprende a narrarci.
Quando l’autore dell'epistola a Cangrande ci fa sapere che il soggetto della visione dantesca, allegoricamente in. teso, «est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitiae proemiandi et puniendi obnoxius est», ragiona esattamente come il Tasso quando vuol persuaderci che la liberazione di Gerusalemme significa la conquista della felicità spirituale. Di allegorizzare il proprio viaggio pei tre regni d’oltre tomba e di ricavarne una dot, trina filosofica e teologica Dante non aveva maggior diritto di quel che il poeta di Sorrento avesse d’interpretare allegoricamente la conquista di Gerusalemme, o chiunque altro di svolgere la tesi religiosa e politica implicita nel racconto dei Promessi Sposi. Come Don Rodrigo è il signorotto che, sentendosi protetto, abusa «della sua posizione sociale per sfogare le sue torbide voglie a danno di due bravi giovani del popolo, cui non resta altra difesa che la divina Provvidenza; come Don Abbondio è il parroco pusillanime che manca ai doveri del suo ministero; così l'anima di Virgilio, proprio di quel Virgilio «per cui si noma Piettola più che villa mantovana» e che nacque «sub Iulio» e visse «a Roma sotto il buon Augusto», assume la funzione rappresentativa di «maestro e duca de l'umana ragione», così l'anima di Beatrice, la fanciulla amata da Dante nella sua adolescenza e morta nel fior degli anni, assume la funzione di teologo che argomenta secondo i dettami della fede; così Dante stesso, fuori della sua storica individualità, rappresenta l'uomo smarrito nella selva dei vizi e delle passioni umane e salvato dalla dannazione per opera della grazia.
«Come si spiegano le allegorie»? La risposta a questa domanda che si fa il Camilli, dipende da quello che siamo venuti osservando.
Nel caso del lupo e dell'agnello, anche senza la morale che di solito s’aggiunge alla favola, è chiaro che la spiega. zione non richiede alcuno sforzo, perché un lupo vero non ha bisogno di giustificare con pretesti la sua brama. Dunque, dalla narrazione stessa risulta che si tratta d'un lupo metaforico, e perciò la narrazione è allegorica. Altrettanto si dica della favola del corvo e della volpe e di quella della cicala e della formica, ove la volpe stessa e la formica s'in caricano di darci la spiegazione, che del resto è intuitiva. Invece la parabola del seminatore che esce a seminare, e parte del seme cade sulla via, parte in terreno sassoso, parte in mezzo alle spine e parte sulla buona tetra, non è perfettamente evidente; e coloro che l’ascoltarono ebbero bisogno che venisse loro spiegato che il seme gettato è la parola di Dio, e la via, il terreno sassoso, le spine e la buona terra son le varie disposizioni di chi l’accoglie. Di questa e di altre parabole è detto espressamente che esse sono state congegnate in modo che i profani non comprendano subito il mistero che si cela sotto di esse, «ut videntes non videant et audientes non intelligant». Volutamente oscure pei profani, esse son perfettamente chiare a chi è iniziato, cioè a chi è stato abituato a un certo linguaggio. Così appunto è nella raffigurazione cristiana del buon pastore che reca la pecora smarrita sulle sue spalle, nel simbolo della vite e dei tralci, derivati l’uno e l’altra da una comparazione; altrettanto è della parabola del figliuol prodigo, in cui è rappresentato il peccatore che s’allontana dalla casa del suo padre celeste e sperpera i doni ricevuti da Dio. Il racconto del buon pastore e quello del figliuol prodigo hanno in se stessi vita propria, son chiari e coerenti e attingono per se stessi bellezza espressiva, al pari di qualsiasi altra novella o racconto. Al Camilli basta questo per escludere ogni allegoria. Noi sappiamo invece che questi racconti hanno un significato allegorico, perché la narrazione è ordinata in modo da farci pensare per analogia a un evento diverso da quello narrato.
Un personaggio concepito (e quindi trattato) come allegorico, — dice ancora il Camilli — sarà allegorico in ogni suo detto o fatto, proprio perché la sua personalità è semplicemente allegorica, e le immagini con cui viene rappresentato non sono che veli i quali hanno un valore non per sé, ma solamente in quanto per essi arriviamo a scorgere il simbolo; che esso solo dà luce e coerenza alle immagini adoperate. Se ciò non accade, il personaggio potrà essere stato fantasticato come simbolico ante o post factum, ma non nel punctum saliens in cui il poeta l’intuisce e così intuito ce lo manifesta. Ora è questo puncium solamente che dà realtà al personaggio; il resto non può entrar nel conto. Insomma, se il soggetto apparente non si eclissa di fronte al soggetto reale, ciò vuol dire soltanto che la pretesa allegoria non esiste, anche se l’autore giuri il contrario. Mi pare che tutto questo non sia esatto. E prima di tutto sembra esagerato affermare che, ove un personaggio sia concepito come allegorico, debba esserlo «in ogni suo detto o fatto». Sarebbe come dire che se il corvo della favola rappresenta il gonzo vanitoso che si lascia ingannare da un astuto adulatore, debba avere un significato allegorico anche il particolare di trovarsi appollaiato su un albero. Questa pretesa ebbero infatti non pochi interpreti di allegorie nel medio evo, e lo stesso Dante cede a questo andazzo quando, nel terzo trattato del Convivio vuol farci credere che nel riso della donna gentile sono simboleggiate le persuasioni della filosofia, e negli occhi le dimostrazioni. Se un gonzo vanitoso vogliamo rappresentarlo in un corvo, e la filosofia in una donna gentile in atto misericordioso, bisognerà bene a quello dare e fattezze e costumi di corvo, e a questa un volto di donna con occhi, bocca, naso, mento, fronte, capelli, senza che ci sia bisogno d’attribuire ad ognuno di questi dettagli e a ogni fatto un particolare significato allegorico.
Per esser più chiari, prendiamo un esempio. È noto che nella prima Egloga di Virgilio i commentatori antichi hanno visto un'allegoria di fatti realmente accaduti: in Titiro hanno scorto Virgilio stesso che in grazia della protezione d’Ottaviano poté conservare i suoi campi, e in Melibeo il vecchio colono cacciato dalla sua terra e costretto a andar ramingo pel mondo. Applicando il criterio ermeneutico ora affermato dal Camilli, taluni esegeti antichi e medievali si son messi a scavizzolare un significato allegorico, perfino della «candidior barba» del pastore privilegiato e di mille altre bagattelle, e han finito in un cumulo di assurdi, il maggiore dei quali è quello di rendere inintelligibile il piccolo e suggestivo dramma pastorale, uccidendone la fresca poesia. E allora si deve rinunziare a scorgervi qualsiasi elemento allegorico? Io non credo. La scena pastorale disegnata da Virgilio è un quadretto teocriteo completo in se stesso e vivente di vita autonoma: Ti tiro è un pastore-poeta, che, sdraiato all'ombra di un faggio, insegna alle selve a ripetere il nome della sua bella Amarilli. Ma nello sfondo teocriteo l’azione si svolge in modo da indurre il lettore a pensare alle spogliazioni del mantovano, sì che mentre il poeta ringrazia il nume che gli ha concesso quegli ozii in mezzo a tanto turbamento, coglie il destro di rappresentare la disgraziata sorte e lo strazio dei suoi compatrioti, Il soggetto poetico che ci sta innanzi non si ecclissa quando pensiamo ai casi toccati a Virgilio stesso e ai coloni mantovani; anzi quanto più il quadro poetico è vivo e commovente nella sua realtà di visione fantastica, tanto più illumina su quei casi disgraziati, assai meglio di quel che non facciano i documenti storici che ci restano.
Fatte queste riserve sui concetti esposti dal Camilli intorno alle figurazioni allegoriche, vediamo ora se l’allegoria della donna gentile cantata nelle canzoni Voi che ‘ntendendo e Amor che ne la mente mi ragiona, sia da ritenere quell’appiccicatura che il nostro critico pensa.
La prima di queste canzoni ha per soggetto il contrasto fra l’amore per Beatrice cantato nelle rime dell’adolescenza e il nuovo amore per la donna gentile che sembrava vo. Ter prendere il posto. E siccome l’amore nasce per un’influenza del cielo di Venere, il poeta si rivolge ai motori di questo cielo per confessare ad essi la novità della condizione nella quale si trova a cagione dei loro influssi: — V'è nel mio cuore un soave pensiero alimentato dal ricordo d'una donna che, rapita dalla morte, vive ora beata nella gloria di Dio. Pensando a lei, l’anima mia desiderava raggiungerla in cielo e invocava la morte. Ora questo umile pensiero, solito parlarmi d'un’angela che in cielo è coronata, è gagliardamente assalito e discacciato dal pensiero d'un’altra donna. Questo nuovo pensiero esorta, chiunque voglia veder la salute, a mirar gli occhi di questa seconda donna, purché non tema angoscia di sospiri. E l'anima mia che n’è conquisa, ma non sa dimenticare la fan ciulla ascesa alla gloria dei beati, col fuggire del soave pensiero che soleva «esser vita de lo cor dolente», è presa da tale angoscia che le par d'esser morta. Ma uno «spiritel d’amor gentile» prende a confortarla:
Tu non se’ morta, ma se' ismatrita,
anima nostra che sì ti lamenti;
poiché quella bella donna della quale ti sei nuovamente: invaghito, ha talmente cambiato la tua maniera di vivere: che tu n’hai paura. Ma se tu guardi bene, questa donna è «pietosa e umile, saggia e cortese ne la sua grandezza», sì che tu puoi tranquillamente metterti al suo servizio e riconoscerla per tua signora. E se tu ben discerni, la vedrai adorna «di sì alti miracoli», che consentirai ad esser suo, sotfomettendoti al dio d'amore che raggia pe’ suoi occhi —.
Se ora noi affissiamo l'occhio critico nel volto di questa donna, non tardiamo a scorgervi il corruscate d'una divinità: nel suo sguardo è la salute, rifulge delle più tate virtù «ne la sua grandezza», è un'apparizione miracolosa. Beatrice aveva pur qualche tratto di donna mortale, ma costei non ne ha nessuno.
E inoltre, se si trattasse di donna vera, il contrasto fra il soave pensiero che parla di Beatrice e il suo contrario, non solo sarebbe risolto nel modo più banale, ma sarebbe perfettamente intelligibile per qualsiasi lettore: — Beatrice è volata in paradiso, e la donna che ora t'è apparsa non val meno di lei —. Invece il poeta ci assicura, nel «commiato, che saranno radi coloro che intendon bene la sua ragione, tanto la parla «faticosa e forte». Anche attenendoci al senso strettamente letterale, si ha dunque motivo di tenere per sospetta questa pietosa che viene a consolare il poeta della morte di Beatrice; e quand’egli ci assicura che essa è soltanto donna allegorica, la sua dichiarazione non soltanto non ci appare strana, ma quasi diremmo che ce l’aspettavamo. Infine, supponendo che la donna della canzone Voi che ’ntendendo sia identica con quella dell'altra canzone Amor che ne la mente mi ragiona, la realtà puramente allegorica di questa donna, la quale, secondo Dante, non è altro che la Sapienza di cui parlano Aristotele e i libri salomonici, diventa così trasparente che il dubitarne è assurdo; ché non solo essa non ha neppur uno dei tratti che si convengono a donna mortale, ma si rivela veramente figlia e sposa di Dio: in lei discende la virtù divina, «oltre quel che si conviene a nui», come in angelo che gode della visione beatifica; al pari della Sapienza dei libri salomonici, fu «da etterno ordinata»; le cose che appariscon nel suo aspetto «soverchian lo nostro intelletto»; «costei pensò chi mosse l'universo». V’è di più lo stesso Dante, provandosi a darci un'esposizione letterale di questa seconda: canzone è costretto ad anticipare quello che ripeterà tale e quale nell'esposizione allegorica, appunto perché la donna di questa canzone non ha altra realtà che quella allegorica; e vano è ogni tentativo di distinguere l'esposizione letterale da quella allegorica; proprio come nel caso della favola del lupo e dell’agnello o in quella della volpe e del corvo.
Il Camilli trova che a immaginare la Filosofia soggetto reale delle prime due canzoni del Convivio, con le spiegazioni che Dante stesso ci fornisce, «ciò che è chiaro e coerente diventa buio, incoerente e soprattutto (bisogna dirlo senza timore) melenso». E in nota aggiunge:
Valga il vero. Attenendoci alle spiegazioni di Dante, il soggetto reale della prima canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete sarebbe il seguente: “Angeli che movete il cielo della Retorica, un pensiero così straordinario mi agita; che a voi soli saprei dirlo e a voi soli può degnamente esser detto, perché nello: stato in cui sono mi ha posto appunto la Retorica, il cui antico amore in me piange e contro cui parla la Filosofia che vien pe’ raggi della vostra stella, Era vita del mio cuore il soave pensiero della Retorica, il quale s’inalzava spesso fino a Dio, presso cui la: vedeva star gloriosa: e questo pensiero parlava poi di essa a me così dolcemente, da farmi desiderare la morte per andarle, presso Dio, vicino. Un altro pensiero fa ora fuggir questo, un altro pensiero che mi domina e mi fa guardare la Filosofia e mi afferma che in essa è la salute per chi non teme i travagli dello studio. Il pensiero che mi soleva parlare della Retorica, di quell’angiola coronata in cielo, si scontra così con un pensiero contrario che lo distrugge, e la mia anima è in pena perché fugge quel pensiero che sin qui l'aveva consolata...”.
Vi sono taluni che, presi da sonno pesante, russano in modo così sonoro e strepitoso, che finiscono per spaventare se stessi; il che interrompe per qualche momento il loro tonfane, Così è successo al Camilli, il quale, mentre filava a gonfie vele in questa che vorrebbe essere una caricatura, ma è soltanto un fraintendimento del pensiero di Dante, s'è destato all'improvviso (quandoque ei bonus dormitat Homerus!) per chiedersi: C'è bisogno di seguitare? c'è bisogno di altre parole a mostrare che questo ridicolissimo pathos per la Filosofia contrastante con la Retorica, appena concepibile nel più rozzo e pedante frate che mai abbia insegnato grammatica nel più oscuro convento della cristianità, non poteva capire nell'animo di Dante? Di parole ci sarebbe piuttosto bisogno pet chiarite come mai tanta gente per tanto tempo abbia potuto attribuirgli certa roba.
Veramente certa roba a Dante nessuno, ch’io sappia, l’ha mai attribuita all'infuori del Camilli. Che se ci atteniamo alle dichiarazioni di Dante, l’interpretazione allegorica della prima canzone procede, se mai, così: — Spiriti gentili di Boezio e di Tullio che ci avete in segnato l’arte del bel parlare, voi stessi avete destato nel mio animo il desiderio di mettermi per una nuova via da quella tenuta sin qui, mentre cantavo l'amor mio per Beatrice; e però è degno che solo a voi mi rivolga, per confidare le ansietà e i dubbi dell'animo che sta per cimentarsi nel nuovo cammino, per il quale l’avete avviato. Il mio pensiero viveva tutto del ricordo di quella giovinetta che è salita a Dio, e sfogava il suo acerbo dolore in. vocando la morte, Ora un nuovo sentite mi sopraggiunge, e s'è acceso nel mio cuore un ardente amore per la nobile figlia di Dio, la Sapienza eterna, sì che la disperazione e il desiderio di morire si son dileguati. Se non che, inassuefatto a cantare di sì alto soggetto ad avvezzo solo a poe. tare intorno alla beltà muliebre in rime dolci e leggiadre, l'animo, mio è preso da paura e non osa avventurarsi pet sì arduo cammino, tentando argomenti filosofici, in rima volgare. Ma uno spititel d'amore conforta l’anima sgomenta e la sprona a non desistere dal proposito di dedicare la ‘sua arte all'amore del vero che accoglie in sè e purifica ogni ‘altro amore —. Non si tratta, dunque, di un «ridicolissimo pathos per la Filosofia contrastante con la Retorica», bensì «dei dubbi e delle incertezze che il poeta confessa a se stesso, nel momento in cui sta per separarsi dalle rime del dolce stil nuovo, e tenta con consapevole ardimento una più vigoro. sa forma d’arte, degna dell'età temperata e forte nella quale era entrato. La donna gentile, nelle rime ad essa dedicate, alle quali serviva di preludio la canzone Voi che ’intendendo, non meno che nelle dichiarazioni del Convivio, è nata nella fantasia del poeta come donna allegorica. E come donna allegorica va. Al contrario, per vedere in lei una donna reale, bisognerebbe pensare a una veneranda e matura matrona, a una specie di madre badessa, non del tutto sfiorita, ma grave ed arcigna, fera e disdegnosa», che la divina provvidenza avrebbe mandato a Dante per asciugar le sue lacrime dopo la morte di Beatrice.
E se non c'è ragione di negar fede a Dante quando ci assicura che la donna gentile è stata concepita come donna allegorica, converrà credergli anche quando ci dichiara che essa è la stessa donna pietosa di cui si parlava alla fine della primitiva Vita Nuova, qual è presupposta ed espressamente citata nel Convivio.