Dati bibliografici
Autori: Gaetano Ragonese
Tratto da: L'allegorismo delle tre fiere ed altri studi danteschi
Editore: Manfredi, Palermo
Anno: 1972
Pagine: 9-31
Un'analisi semantica, estetica e strutturale dell'episodio delle tre fiere, collocato com'è all’inizio della prima cantica, in sé compendiando l’intero itinerario morale ed esistenziale di Dante, permette, proprio per la complessità e varietà per i suoi possibili significati, e per il contenuto di esperienza reale, largamente vissuta che racchiude, di verificare la validità delle moderne tecniche esegetiche. Esse, nel momento in cui restaurano il vero senso, spesso confermando antiche interpretazioni, fondano (proprio le più valide) il ‘realismo’ della “Commedia”, non rinunciando a certi presupposti desanctisiani e postdesanctisiani, sulla natura metaforica e figurale del linguaggio del poema.
Qui, all’inizio del poema, «le cose allo stesso tempo sono e non sono ciò che sembrano», osserva il Singleton , riprendendo, pur nel confutarlo, il noto giudizio del Croce («una selva che non è selva... fiere che sono e non sono fiere»). Più di recente un altro illustre interprete della “Commedia”, il Battaglia , rileva che i termini di «cammino, selva, vita, sonno», e aggiungiamo a chiarezza del nostro discorso, colle, fiere, Virgilio stesso, il veltro, «appartengono a una nomenclatura reale, mentre si assumono in senso figurato». La verità del poema dantesco, pure intimamente articolata, è — si avverte oggi — polisensa. Lo dichiarava lo stesso poeta nell’epistola a Cangrande (se tutta autentica) e ribadiva il Boccaccio : «Per la qualcosa si può meritamente dire questo libro essere poliseno, cioè di più sensi». E nell’epistola su riferita Dante dichiarava ancora: «Primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus» .
Nulla o quasi nulla di oscuro ha l’apparizione delle fiere quanto al senso letterale; le più svariate ipotesi presenta questa apparizione riguardo all'invenzione e al significato allegorico, precisa il Casini . Gli antichi commentatori riconobbero in esse rispettivamente la lussuria, la superbia, l’avarizia. Riassume quasi il loro pensiero il Boccaccio:
«Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia di tutti, par che si debbano intendere per questi, cioè per la lonza il vizio della lussuria e per lo leone il vizio dela superbia e per la lupa il vizio dell’avarizia» «Figura» cioè «di quelli tre vizii che comunemente più occupano l’umana generazione», dichiara perspicuamente l’Ottimo la ragione di questa interpretazione. Unica forse eccezione fra gli antichi chiosatori, il Lana vede nella lonza «piuttosto o insieme la vanagloria».
Discordi sono invece i commentatori moderni. Accanto a molti che seguono l’interpretazione tradizionale (Casini, Torraca, G. Mazzoni, Porena, Sapegno, ecc.), vi sono quelli che identificano le fiere con «le tre faville ch'hanno i cuori accesi», «superbia, invidia e avarizia». E si riferiscono alle parole di Brunetto Latini che taccia i Fiorentini di gente «avara, invidiosa e superba». E lo stesso Ciacco aveva definito Firenze come città «piena / d’invidia sì che già trabocca il sacco». Tutti i tre peccati sarebbero, poi, le colpe più fatali all’umanità (l'invidia del serpente, la superbia d’Adamo e l’ingordigia d’Eva). Ma che Dante pensasse soprattutto a Firenze è, secondo il Ferretti , suffragato dalla sua tesi che dichiara trovarsi il poeta ancora a Firenze, quando iniziava la Commedia”: Firenze era ancora il suo mondo.
L’accenno alla lonza e alla corda nel canto XVI dell’“Inferno” sarebbe un altro argomento a sostegno di questa tesi: «Io avea una corda intorno cinta, / e con essa pensai alcuna volta / prender la lonza a la pelle dipinta». Altri commentatori però pensano ben diversamente sul significato della corda, sì da trovarne una conferma alle loro ipotesi. Invero nessun rapporto preciso si può stabilire tra il prendere la lonza e il richiamo di Gerione (simboleggiante, sappiamo, la frode), sempre a opera della stessa corda. Molti dubbi e perplessità aveva avanzato sul significato della corda il D’Ovidio , che è il più autorevole rappresentante dell’interpretazione che vede allegoricamente nella lonza l'invidia. Il D’Ovidio segnala diversi studiosi che hanno surrogato alla lussuria l’invidia, e fra essi specialmente Francesco Cipolla che vi dedicò uno studio, uscito nel 1895, intorno a cui vi fu una vivace polemica. Il D’Ovidio dichiarava di non sapere chi per primo avesse proposto la tesi da lui sostenuta. Già però il Castelvetro aveva riconosciuto nella lonza il significato della invidia, fondandolo su una concezione, diciamo, rinascimentale: «Nondimeno non gli dispiacque tanto la ‘nvidia... quanto la superbia e l’avarizia, per ciò che l’invidia ha coperta di bontà, avendo altri invidia spezialmente a color che sono eccellenti per virtù e per bontà ... similmente la superbia non lo contrasta tanto quanto l’avarizia, parendogli che la superbia sia compagna della magnanimità».
E il Landino, che pur non disconosce nella “Commedia” i valori medievali spirituali, adduce umanisticamente Virgilio a sostegno della tesi tradizionale: «Vuol Virgilio per Enea dimostrar che l’uomo possa arrivare al sommo bene, e pone tre essere i principali incommodi i quali impediscono che non possiamo conseguire il nostro fine; dei quali il primo è la lussuria... il secondo è l’avarizia... il terzo è l'ambizione degl’onori. Questo medesimo adunque significa al presente Dante per tre fiere, leonza è il piacere, lupa è l’utile, leone è l’onore» .
L'indagine positivista del D’Ovidio sempre cauta e circospetta vuole, circa al leone e alla luna, attenersi alla «bonaria percezione degli antichi» («assicurata», egli dice, «con ogni riflessione ragionevole»). Altri studiosi moderni si allontanano decisamente dagli «antichi» nelle loro dimostrazioni ingegnose e sottili ma non certo più persuasive, identificando la lonza, il leone e la lupa con «le tre disposizion che ’l ciel non vole», con le tre categorie aristoteliche di peccato, la malizia, la matta bestialitate e l’incontinenza (oppure frode, violenza e incontinenza). È la tesi del Flamini (e somigliantemente di Giacinto Casella), seguita da non pochi altri. Altri ancora (e fra questi il Pascoli e il Pietrobono) hanno invertito le parti fra la lonza e la lupa, facendo corrispondere la prima all’incontinenza e la seconda alla frode, volendo così superare l’ostacolo che la peggiore delle fiere rappresenterebbe la categoria di peccato meno grave. Il Del Lungo (ma già il Casella nel secondo volume delle sue “Opere” pubblicate nel 1884) invece trova nelle tre fiere, la lonza, il leone, la lupa, l’allegoria rispettivamente della frode, della violenza e dell’incontinenza, con ordine decrescente, egli dice, di gravità e crescente di pericolo (e più di recente il Grabher). Più sottile è l’interpretazione del Pietrobono, che si muove dall’allegorismo simbolico del Pascoli in modo però autonomo, fondato su una vasta conoscenza di tutta l’opera di Dante. Secondo il Pietrobono le fiere sono «tutte e tre insieme la trina ispirazione del male che è uno, e rispondono nello stesso tempo sì alla triplice distinzione dell’Inferno della Incontinenza, della Violenza e della Frode e sì alle tre facce di Lucifero». E l’allegoria si complica, se la lupa dev'essere di necessità simbolo di un male che ha prodotto i medesimi mali del peccato d’Adamo e non può quindi non rappresentare una nuova colpa originale (e la selva è sempre nel giudizio del Pietrobono il peccato originale). Tutti questi interpreti vogliono accordare il canto proemiale con il canto XI dell’“Inferno”, cercando una ben determinata simmetria, se non una perfetta concordanza fra il regno dell’Inferno e la scena delle tre fiere. Ma è stato osservato che la selva selvaggia, il colle luminoso, le tre fiere, l’incontro con Virgilio sono fuori dell’oltretomba, hanno come «teatro la terra, la vita terrena». Né si può, con il Singleton , ricavare dal fatto che le tre fiere rappresentino le «tre più ampie zone di peccato dell’Inferno», un vero e proprio rapporto di corrispondenza fra il viaggio attraverso l’Inferno e il viaggio com'è presentato nella scena iniziale del poema (il Singleton adducendo l’oscuro passo su riferito sulla corda e sulla lonza fonda tale rapporto sulla sua concezione della “Commedia”).
Proprio queste sottili simmetrie, ingegnose corrispondenze lasciano perplessi; ed è un preconcetto a cui obbediscono non pochi commentatori moderni che tutto nella “Commedia” debba essere sottoposto alle norme di una rigida, matematica simmetria. Né possono, d’altra parte, non apparire fascinose ma labili le recondite, maliose analogie, le segrete, musicali corrispondenze che il Pascoli si compiacque ritrovare nelle tre fiere, come in tutto il poema sacro. L’allegorismo del Pascoli (e dei suoi seguaci), che ha incontrato in questi tempi maggiori consensi che nel periodo. positivista e nel periodo — diciamo — crociano, rifiuta di intendere l’interna coerenza logica della poesia di Dante, ama proiettarla su un piano di ambiguo irrazionalismo, di equivoco mistero da scoprire per la prima volta, e ha i suoi precedenti (come particolarmente quella di Luigi Valli, il suo più fervido discepolo) in certa critica iniziatica, esoterica dell'Ottocento romantico (ad es. di Gabriele Rossetti). In verità ‘ogni lettura esclusivamente o quasi allusiva e analogica della “Commedia”, verso cui propendono anche oggi certe misticheggianti interpretazioni è lontana da quanto è detto proprio da Eliot «lucidità poetica» (le «chiare immagini visive»), da quanto viene chiamato realismo di Dante (ne è un’esemplare dimostrazione la geniale interpretazione figurale di Auerbach).
Con queste disposizioni che il cielo non vuole, asserite nei vari modi da noi accennati, avremmo dunque delle astrazioni e non qualche cosa di veramente vissuto, d’inerente all’esperienza di Dante (pur nella sua dimensione esemplare). Giustamente il Nardi vuole vedere in Dante che è, fin dallo esordio, il protagonista della “Commedia”, un Dante vivo, ricco di un’umana dolorosa esperienza, e non l’astratto simbolo dell’uomo peccatore: «e volse i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false, / che nulla promession rendono intera». Ponendo le tre fiere nell'esperienza concreta di Dante, il Nardi ritiene che né il leone, né, — e ancora di meno — la lupa, rappresentino un vizio o una passione propria dell'animo del poeta: l’uno sarebbe «superbia ed orgoglio in atto nella lotta tra le fazioni fiorentine avventatesi contro di lui», l’altra, la lupa, nella sua storica realtà, s’incarna in Bonifacio VIII. Anche altri commentatori moderni (G. Casella, Del Lungo, G. Mazzoni, lo stesso Pietrobono ecc.) hanno chiaramente indicato un significato politico accanto a quello morale: nella lonza che investe Dante più presto e più da vicino è da vedere, secondo il Del Lungo, la «sua guelfa, astuta, ingegnosa Firenze»; nel leone «la gran potenza della real Casa di Francia, la violenta patrona del comune guelfo», e nella lupa la curia romana. Siffatta tesi era stata illustrata, ai primi dell’Ottocento, da G. Marchetti , d'accordo con la sua età patriottica risorgimentale, particolarmente con l’interpretazione laicistica-ghibellina della “Commedia”, di tutta l’opera di Dante (Mazzini, Guerrazzi, G. Rossetti, ecc.), a cui contribuì il pensiero del Foscolo (e dal Foscolo si muove la critica del De Sanctis): si costruiva il mito politico di Dante che ebbe tanta parte nella fortuna del poeta.
Non è affatto però neppure oggi da escludere che un significato politico, caro ai romantici, sia incluso (non sovrapposto) in quello morale, soprattutto nella correlazione tra la selva e le fiere e tra la lupa e il veltro («che la farà morir con doglia»), a cui ci certo è attribuita da Dante un'azione politica religiosa comunque venga intesa. Etica, politica e religione facevano nella coscienza di Dante un tutto inscindibile. È evidente che l’azione della lupa intesa come avarizia si esplichi particolarmente nell’ambito della curia romana, il luogo «dove Cristo tutto dì si merca» («la vostra avarizia il mondo attrista»), e le persone soprattutto in cui «usa avarizia il suo soperchio» appaiono nel poe- ma proprio gli ecclesiastici. D’altra parte, osserva egregiamente il Petrocchi , l’invettiva ricorrente in tutta la “Commedia” contro la lupa e l’avarizia si alimenta del motivo ascetico del pauperismo francescano, assunto proprio come centrale sin dai primi versi del poema: «e molte genti fé già viver grame». E che la lupa sia da identificarsi con l’avarizia, lo dichiara lo stesso poeta, quando questa bestia selvaggia ricompare nel canto ventesimo del “Purgatorio” con espressioni somiglianti a quelle adoperate nel proemio: «Maladetta sie tu, antica lupa, / che più che tutte l’altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa!». E subito dopo, con evidente richiamo alla profezia del veltro: «O ciel, nel cui girar par che si creda / le condizion di qua giù trasmutarsi, / quando verrà per cui questa di sceda?».
L’avarizia (nella sua «fame sanza fine cupa») è da intendersi quale “cupiditas”, detta da S. Paolo «radix omnium malorum» e definita da S. Tommaso «inordinatum appetitum cuiuscumque boni temporalis» . Concetto etico-politico, politico-religioso, sappiamo di fondamentale rilievo in tutta la “Commedia”, è la cupidigia, ma che Dante aveva già illustrato nel quarto trattato del Convivio” e svolgerà più largamente nella “Monarchia”: «Però che in nullo tempo si compie né si sazia la sete de la cupiditate» . «C'est une sorte d’apostasie, de reniement de Dieu, dont la racine est un orgueil qui se transforme aussitòt en avarice», commenta molto perspicuamente il Gilson .
Evidentemente le tre fiere (facenti capo in fondo alla lupa) rappresentano le tre disposizioni peccaminose insite nell'animo umano e tali da impedire e il raggiungimento dell’ordine morale e religioso della società umana, siano o non siano le tre disposizioni che il cielo non vuole, osserva il Petrocchi. Ma il leone era simbolo tradizionale della superbia, né si possono addurre ragioni tali da non ritenere che la lonza non simboleggi la lussuria, nei suoi attributi di vaghezza, di mobilità, di piacere. Ben evidente e concreto è il rapporto tra la figurazione della lupa e l’avarizia, tra la famelicità della bestia senza pace («di tutte brame sembiava carca»; «mai non empie la bramosa voglia») e il simbolo di cupidigia con i suoi riflessi politici-religiosi a cui noi sopra abbiamo accennato, e che sono stati dottamente illustrati da F. Mazzoni nel suo commento ai primi tre canti dell’“Inferno”, sì da concludere che la lupa, cioè la cupidità, impedisce a Dante — e all’intera umanità — di salire il colle luminoso della felicità naturale (per altri invece è la felicità contemplativa), di raggiungere insomma il primo dei fini per i quali la Provvidenza ha creato l'umanità (e nel pensiero del Mazzoni, come già del Nardi, o anche dello stesso Pietrobono, il veltro non può non essere che un’autorità imperiale, se non proprio, si afferma, non però troppo persuasivamente, Enrico VII; nelle parole di Virgilio vi sarebbe il preannuncio dell’elezione dello stesso imperatore).
A favore dunque di questa tesi, a dimostrazione dell’interpretazione (si rinnova quella antica su nuovi dati e su nuovi principi metodologici) che vede nelle tre fiere il simbolo concreto di tre impedimenti radicali propri della natura umana vulnerata dal peccato d’origine, si adduce il passo di S. Giovanni : «omne quod est in mundo concupiscentia carnis est et concupiscentia oculorum et superbia vitae; quae non est ex Patre, sed ex mundo est...». E sul fondamento di quanto esemplifica il luogo giovanneo numerosi sono i riferimenti patristici e scolastici a questi tre impedimenta (il termine è teologale) illustrati dal Busnelli e poi dal Mazzoni con sicure argomentazioni. Ci limitiamo qui a ricordare il passo di s. Bernardo (apocr.): «His qui volunt Christum expedita sequi mente, tria impedimenta sunt deserenda, videlicet avaritia, superbia, luxuria: avaritia mundi, superbia cordis, luxuria carnis». E il commento di s. Tommaso: «Et sic patet quod ad ista tria reduci possunt omnes passiones» .
Riconosciuto il valore concettuale delle tre fiere, dobbiamo ora ricordare la tradizione medievale dei “Bestiarii” moralizzati, ove compaiono le tre belve con degli attributi che hanno di certo richiamato l’attenzione di Dante. Nel “Bestiario toscano” la «loncia» è detta «animale crudele e fiera e nasce de coniungimento carnale del leone con la lonca o vero de leopardo con leonissa... sempre sta in calura d’amore et in desiderio carnale, launde sua ferecca è molto grandissima». E nel volgarizzamento del “Trésor” di Brunetto Latini, nella parte dedicata agli animali, ove è nominata anche la “leonza” e sono descritte le «più maniere di lupi», il leone è definito un animale «forte e orgoglioso sopra tutte le cose», che «per la sua fierezza uccide la preda ciascun dì» . Ancora poi nel “Detto del Gatto lupesco” troviamo un elenco di bestie reali e immaginarie, e fra esse incontriamo quattro leopardi, un leone e una lonça . Un agile verso di Folgore da San Gimignano «leggero più che lonza o liopardo» ,richiama, nell'attributo essenziale, quello della lonza dantesca. Il “pel macolato” an cora della lonza parve agli antichi commentatori, come Pietro e Benvenuto, una reminiscenza del virgiliano «maculosae tegmine Ilyncis». Che sia effettivamente questa lonza non si può dire con sicurezza: si può ritenere un felino molto somigliante a un leopardo o a una pantera, ma non da identificarsi con essi. Parve al D’Ovidio e al Cipolla che fosse la lince (su una supposta, immaginaria pietra preziosa, detta “Iyncurium”, costituita dalla secrezione renale della lince e che l’animale poi copriva di sabbia, fondarono la tesi che la lonza significasse l'invidia), ma il Parodi ha fatto osservare che la lince, benché «sia etimologicamente la progenitrice della lonza, non aveva però con questa nulla più che fare» . Etimologicamente la lonza deriva da “lynx” o meglio dal femminile “lyncea” e ha il suo corrispondente nel francese “lonce” .
Infine un documento fiorentino del 1285 menziona una “leonza” o lonza tenuta in gabbia a Firenze presso il palazzo del comune, nell’attuale loggia del Bigallo, ov’era, fin dalla metà del Duecento, una gabbia di leoni dello stesso comune. Nella genesi dell’invenzione di questi animali concorsero dunque insieme alla tradizione dei bestiari moralizzati, a cui si rifaceva lo stesso “Trésor”, le costumanze fiorentine di nutrire a spese pubbliche e di tenere esposti animali feroci, e anche il simbolismo araldico del Medioevo comunale, dichiara il Casini.
Tale invenzione appare perciò fondata sulla stessa esperienza di Dante. Ma come la fonte concettuale è il su riferito luogo giovanneo, l’origine fantastica di questi animali è pure nella Bibbia: «Idcirco, percussit eos leo de silva, lupus ad vesperam vastavit eos, pardus vigilans super civitates eorum» . Questi animali nominati da Geremia dovettero dare a Dante l’idea prima dell’invenzione poetica delle tre fiere, tanto più se l’esegesi biblica aveva già accostato le tre fiere agli “impedimenta”, osserva il Busnelli, citando il commento di Ugo da San Caro alla Bibbia, secondo il quadruplice senso letterale, allegorico, morale e anagogico, ove i tre animali misticamente vengono interpretati: «Leo est diabolus in quantum est superbus... lupus ipse idem, in quantum de luxuria ... pardus, in quantum de avaritia» . Alla Gerusalemme della Bibbia Dante ha sostituito i tempi di Firenze, il mondo corrotto, ha sostituito pure al “pardus” la “lonza” (obbedendo forse a norme della retorica medievale a lui care, le tre fiere hanno in tal modo la stessa lettera iniziale), e ha scambiato i simboli del “pardus” e del “lupo” o “lupa”. Il sottofondo di questa scena delle fiere, come della selva, è biblico, anche se non mancano echi romanzi (ad es. la «gaetta pelle», il «parea che l’aere ne tremesse»). Le riprese virgiliane si faranno più evidenti nella seconda parte del canto (sulle derivazioni virgiliane e bibliche prezioso è ancora il commento del Tommaseo, e in seguito si è soffermata la sensibilissima ‘lectura’ del Getto) . Il gusto figurativo di «motivi da miniatura medioevale e da bestiario» indicato da alcuni studiosi è oltrepassato in una sfera arcana e solenne.
Ben distinti appaiono invero i caratteri di ciascuna delle tre fiere: la mobilità, la screziata pelle danno un vivace, colorito risalto alla lonza; statuarietà e impeto confluiscono nell’immagine del leone e si trasmettono alla stessa atmosfera che «parea... ne tremesse»; il profilo più nervoso e più intime è quello della lupa, fondato su un’allucinante magrezza che fa tutt'uno con la sua famelicità, con la sua irrequietezza («di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza»). E vi è una nitida successione di movimento dalla stessa mobilità della lonza che sta dinanzi al volto di Dante come se fosse, è stato ben detto, sempre pronta al balzo, al muoversi rabbioso del leone, all’avanzare lento e implacabile della lupa, in una gradazione crescente, in un'intensità di paura che emana progressiva. mente dalle fiere, come dalla selva, in una specie di sogno, d’incubo.
L’«ora del tempo e la dolce stagione» contraddistinguono l’apparizione della lonza, separandola quasi dall’apparizione pressocché simultanea del leone e della lupa. Con la comparsa della lonza, si è mantenuta la continuità spaziale della prima scena del canto («al piè d’un colle... là dove terminava quella valle»), e si costituisce parallelamente una dimensione temporale che, riprendendo la precisazione cronologica del primo verso, la determina maggiormente, approfondendola di ulteriori significati: il rinnovarsi del giorno, il coincidere dell’inizio primaverile con il ritorno dei giorni della creazione. L’«ora del tempo» è per così dire precisata e rischiarata dall'ora della «dolce stagione» che dà un senso incipiente di dolcezza, di speranza, ben diverso da quello di paura, di sgomento dato dalla selva, dall'incontro con le tre fiere, anzitutto la stessa lonza, e che è pure preannunciato dalla vista del colle («le spalle» del colle «vestite già de’ raggi del pianeta...»).
Si profila una contemplazione, la prima nel poema, del cielo, della divinità; alla contemplazione dell’«amor divino» si contrappone la vista della «fiera a la gaetta pelle», ma i raggi del sole sembrano riflettersi su quella gaetta pelle ed esprimere quell’attesa di rinnovamento che si spegne con la luce stessa del sole («’l sol tace»). In una successione spaziale e temporale di luce e di tenebre, la luce del sole, il buio della selva, sono da raffigurarsi le tre fiere, oggettivazione, ci sembra, di una precisa esperienza individuale di Dante uscito dal. la selva e diretto inutilmente verso il colle: «perdei la speranza de l’altezza» (il concitato iterare del pronome personale di prima persona e dei «verba videndi» ne sono, come all’inizio del canto, la dimostrazione stilistica); e tutta questa parte del canto è ben delimitata fra le due similitudini del naufrago («uscito fuor del pelago a la riva») e dell’avaro («’n tutti suoi pensier piange e s’attrista»). Il rovinare in basso ne segna la conclusione, e apre («Mentre ch'i’ rovinava...») la terza scena del can: to, la comparsa cioè di Virgilio, con l'annuncio del veltro che farà morire la lupa con doglia e con l’invito al viaggio oltremondano.
Figura, proiezione della selva, il luogo «dove ’l sol tace» (l’ultima grande immagine di questo drammatico preludio), sono evidentemente le tre fiere tanto più se si riassumono e si concludono nell'ultima, che toglie a Dante del bel monte il corto andare, la bestia «d’esto loco selvaggio», la lupa («sanza pace») su cui si polarizza la paura di Dante, il motivo ricorrente in tutto il canto. Paura che potremmo (con altri) dichiarare quasi esclusivamente fisiologica, istintiva , dal «pien di sonno» al «mi fa tremar le vene e i polsi» ma che evidentemente ha una sua carica morale-religiosa, una sua risonanza spirituale, metafisica. A intenderla, a precisarla occorre unire il senso letterale a quello parabolico o se vogliamo metaforico, penetrare più intimamente nella lettera del testo che assorbe in sé il suo significato simbolico, risalendo, come ci siamo proposti, a quel clima di pensiero, a quell’orizzonte culturale, entro cui si ‘organizza, si determina la poesia di Dante, sul fondamento di una realtà concreta e drammatica forse come nessun’altra mai.
Indicato il vasto tessuto concettuale ed accertata la fitta trama culturale, enunciate le componenti stilistiche e strutturali e riconosciuto il motivo determinante dell’episodio, di tutto il canto, le fiere si debbono considerare simboli concreti molto più che astratte allegorie quali erano state considerate dal De Sanctis e dal Croce o anche dal la stessa minuziosa consenziente o no indagine positivistica (un po’ ironicamente il D’Ovidio le definiva «bestie illustri»). Resta però una certa indeterminatezza che non sappiamo fin dove si possa attribuire al linguaggio biblico profetico, agli schemi, ai modi se vogliamo di visione di questo canto, di questa stessa parte delle fiere. Indeterminatezza che è più evidente nella profezia del veltro, ove il linguaggio del poeta diviene volutamente oscuro, ambiguo, osserva il Sapegno (né possiamo sottacere certe perplessità del Momigliano e le riserve dello stesso Sapegno). Si direbbe che lì anche nei riferimenti alla lupa, l'intenzione dell'autore si sovrapponga alla figurazione artistica, alla realtà delle fiere. L’enigmaticità reale o presunta del veltro sembra riflettersi sulle immagini, sugli attributi di questi animali reali e a un tempo simbolici.
La verità è che ciò che nel proemio è rappresentato o indicato o appena accennato avrà il suo svolgimento, la sua storia in tutto l'itinerario conoscitivo, poetico della “Commedia”. Il dato preminente del canto proemiale deve giustamente considerarsi, con il Pagliaro , l'invito al viaggio oltremondano (e il punto più alto resta in fondo per noi l’incontro con Virgilio), senza però che si possa distaccare recisamente il proemio dal resto del poema (il proemio, nelle sue successive scene, si svolgerebbe, a giudizio dello stesso studioso, come in un sogno, secondo il modulo poetico della visione, ben altrimenti che nella ’fabula’, il viaggio nell’oltretomba). Le fiere non hanno perciò — né possono avere — la complessità, la stessa vitalità che emana dagli animali mostruosi dell’“Inferno” dantesco. Il loro stesso senso parabolico e simbolico si determina si direbbe artisticamente con lo arricchirsi del concepimento della “Commedia”, con lo svolgersi del viaggio oltremondano, col maturarsi dei suoi strumenti espressivi.
Non si può quindi caricare il veltro, le fiere, lo stesso Virgilio di tutti quei significati, di tutti quei contenuti dottrinali, etico-politici e religiosi che verranno dopo. Ma è anche vero che a quei significati, a quei contenuti sono legate le fiere nella loro autonomia, nella loro realtà concettuale e artistica, nel loro linguaggio reale e figurale .