Dati bibliografici
Autori: Fernando Salsano
Tratto da: La coda di Minosse e altri saggi danteschi
Editore: Marzorati, Milano
Anno: 1968
Pagine: 11-19
Nella rubrica delle interpretazioni controverse, la dantologia ne annovera anche una sulla lunghezza d’una coda: di quella che Minosse, tra il grottesco e il solenne, si avvolge intorno al corpo, nel giudicare i peccatori sulla soglia del secondo cerchio dell’inferno dantesco. «E perciocchè la faccenda di costui è grande intorno all’esaminare e al giudicare che fa singularmente di ciascuna anima; per dar più spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di doversi cingere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi, esso vuole che l’anima da lui esaminata sia infra l’inferno messa…» .
Il Boccaccio mira alla praticità del sistema che dà più spaccio, fa guadagnar tempo; ma ignora il dilemma: è una coda lunghissima — secondo il Blanc, dovrebbe misurare trenta piedi, ossia circa dieci metti — che avvolge il corpo di Minosse con un vario numero di spire, oppure, di lunghezza normale, poniamo un metro o poco più, è avvolta e svolta tante volte quanti sono i cerchi che il dannato deve discendere? Un problema molto modesto, in sostanza, ma che vale a dividere gl’interpreti in lunghisti (Buti — cito a caso — Venturi, Biagioli, Rossetti, Graf, Scolari, Torraca, Pietrobono, Rivalta, Pagliaro etc.) e in cortisti (Benvenuto, Blanc, Del Lungo, Parodi, Mazzoni etc.), in incerti (Porena, Sapegno etc.) e in agnostici (Casini-Barbi, Camerini, Scartazzini-Vandelli, Vitali, Provenzal, Grabher, Momigliano, Montanari etc.). Gl’interpreti più moderni, come testimoniano i pochi qui citati, son quasi tutti dignitosamente agnostici: non mancando ai dantisti argomenti ben più importanti per schierarsi in campo sotto l’uno o l’altro vessillo, la quaestio della coda lunga o corta, che del resto non ha prodotto, nel passato, che qualche scaramuccia, nel presente non fa più specie ad alcuno.
Questo silenzio caduto sulla coda, per una stanchezza comprensibile oltreché per la naturale evoluzione degl’impegni critici — lunga o corta è però questione meno gratuita di quanto sembri, abbisognando la nostra immaginazione di dati non ambigui per operare una ricostruzione non arbitraria — non può tuttavia disarmare l’importanza e l’efficacia dell’appendice animalesca, che Dante volle assegnare al mitico re di Creta nell’atto di assumerlo tra gli orrendi ministri infernali (eguale assunzione era toccata al fratello Radamanto, nel medioevo tedesco, per mano di Wolfram von Eschenbach).
Bisogna considerare, infatti, che il Minosse della Divina Commedia vive in grazia della coda; questa impressiona la fantasia del Poeta, questa rivive nella memoria dei dannati fin nel profondo dell’inferno, questa soprattutto colpisce l’attenzione del lettore nella frettolosa scena che introduce al primo vero cerchio infernale. Apparendo dopo Caron dimonio, che è ben definito nell’aspetto come negli atti e nelle parole, il demonio Minosse non ha volto né figura, se non quelli che il lettore sa immaginare o ricavare dalla tradizione; e quasi non ha una dimensione, collocato com’è in una prospettiva d’ordine morale più che spaziale, tutta condizionata dal cotanto offizio (Stavvi... orribilmente, li vien dinanzi, sempre dinanzi a lui). A differenza di Caronte, Minosse non parla; e per lo stesso insolito pellegrino la sua parola esprime sì il diabolico tentativo d’impedire il fatale andare, ma è ambigua quanto stentata, si che il sollecito ritorno all’animalesco silenzio rende quasi sproporzionato l’intervento di Virgilio. Per quanto Dante ci dica dei suoi attributi demoniaci (rirghia) e degli offici infernali (essamina le colpe... giudica e manda), il personaggio pare non si salvi da un vizio di genericità; in conclusione, la sua concretezza poggia più sulla vitalità della coda, annunziata suggestivamente dall’avvinghia dei primi versi, e sviluppata nei successivi con un rallentamento del ritmo narrativo (Dico che quando), che non sulla funzione di giudice, la quale ha anch’essa del generico e, come è stato giustamente rilevato, addirittura sfuma nel simbolico .
La coda, bestiale e grottesca, sembrerebbe dissonante con l’atto del giudizio; ma il suo concorso al cotanto offizio sarebbe da giudicar negativo ai fini estetici se Minosse fosse quel che propriamente si dice un giudice, con la facoltà di assolvere e di condannare. In effetti, quando l’anima mal nata giunge dinanzi a lui, il giudizio è già avvenuto: la Giustizia divina ha già distinto i buoni dai cattivi; «il n'y a pas de place, dans le monde du péché, pour le jugement», ha precisato il Renaudet . Quello di Minosse è un cotanto offizio, non perché da esso nasca la sentenza della dannazione, ma in quanto, bene dice il Rivalta, «per esso si traduce nella paurosa realtà il castigo di Dio ; la condanna, cioè, per l’intervento di Minosse trova il suo perfezionamento nel rapporto di quantità tra colpa e pena: nell’inferno già decretato, l’esperto sceglie il luogo adatto, con una operazione rapida e meccanica che nulla ha di giudizio e che si estrinseca nei meccanici giri della coda. Si guardino le anime, che pure son parte viva dell’offizio: già tutte dominate dal giudizio divino (Inf. III, 125, 6), non sono che automi dinanzi all’automatico giudizio di Minosse: dicoro e odono e poi son gi volte. Chi ha giudicato il cotanto offizio come «grave», «solenne», «elevato», non è per caso andato oltre il segno delle intenzioni dantesche? «Quale ufficio più grave e pit delicato di quello?», domanda il Torraca, e potremmo essere d’accordo se Minosse fosse qualcosa in pit che un conoscitor de le peccata, se fosse interprete della Giustizia divina, e non, quale è, solo un succubo di essa; se insomma egli fosse un conoscitore della Verità e della Legge. Sul cotanto offizio, tuttavia, non si registrano netti contrasti tra i critici moderni; i quali o riconoscono all’opera minoica una generica terribilità e talvolta una non approfondita importanza (si vedano ancora Scartazzini, Pietrobono, Vossler, Provenzal, Casini, Momigliano, Sapegno) o evitano la questione col non parlarne (Porena, Vitali, Del Lungo, Montanari), o accennano ad un compromesso tra giustizia divina e natura demoniaca — «Minosse incarna la divina giustizia, che egli attua nei modi e con l’animo di un giudice infernale», Grabher — che convincerebbe se volesse significar questo: con l’offizio del demonio Minosse, la condanna di dannazione si completa nelle singole destinazioni, e il divino resta divino, come il demonio resta niente altro che demonio, senza che neppure il lustro d’un tal servizio gli si appiccichi addosso.
Ma le rubriche dantologiche, in verità, annotano anche questo, un tentativo di trasformare il demonio Minosse in un vicario di Dio distaccato all’inferno. Guido Mazzoni, partito per accorciar la coda allungata dal Panzacchi, vede in Minosse una potenza demoniaca «che vuole giustizia, dunque, che incarna in sé il diritto, e lo amministra ed esercita in nome di Dio» . A paragone di siffatti entusiasmi, non fanno più specie le attribuzioni di «grave concentrazione» (Grabher) e di «maestà» (Momigliano); e ci si domanda se proprio sul serio il Mazzoni abbia letto in quei pochi versi che sappiamo, che Minosse è «investito solennemente di una parte dell'autorità divina, e nell’Inferno rappresenta Dio stesso» . È un’imprudenza o una bestemmia? Sarà preferibile il candore del Cesari, quando, a commento del verso dicono e odono e poi son giù volte, domanda fiducioso: «sentite voi il capitombolo?» .
Per fortuna, Minosse non indugia a lasciar l'atto di cotanto offizio quando scorge Dante. E se si può ammettere che la suggestione mitologica abbia fatto apparire Minosse, nonostante il suo sentenziare di coda, come un’incarnazione del diritto, — per il Porena «la sua trasformazione in demonio è più esteriore che altro» —, un tal miraggio non può non svanire quando egli apre la bocca: prima ringhiava bestialmente, ma ora da autentico demonio tende la rete della frode infernale (guarda com’entri e di cui tu ti fide), ipocrita ingannatore nell’atto di disingannare (non t’inganni l'ampiezza de l’intrare); non merita che la sprezzante apostrofe di Virgilio («Perché pur gride?») e l'immediato oblio del poeta. Persino l’espressione linguistica, «semplice e pedestre», come ha notato il Pagliaro, «aderisce alla normalità burocratica delle operazioni» :
e quel conoscitor de le peccata
vede qual luogo d’inferno è da essa.
Ecco la verità nelle chiare parole di Dante: Minosse non è propriamente «giudice delle anime»; soltanto perché la sentenza, perfezionata, si attui, i condannati vengono presentati a lui, come ad un ragioniere o magazziniere («un agent des puissances maléfiques, un valet de Lucifer» insiste il Renaudet) che demoniacamente si compiace di spartir nei cerchi infernali i rifiuti del mondo.
Il Graf, nel suo saggio di demonologia dantesca, dopo aver dimostrato che la natura di semidei non poteva impedire che Minosse e Flegias fossero trasformati in demonî, annota che a paragone di Caronte, «dipinto quale già il dipinse Virgilio», «Minosse ha più del bestiale e del diabolico» . Non è nella coda il segreto della metamorfosi? È essa che rompe la tradizione, che imbestia la figura del re mitico. Il Parodi se la prese con il Medioevo, reo d’aver indotto Dante a deturpare l’immortale bellezza del mito con «una vergognosa appendice, una coda!» . E in effetti, per quanto il suo ellenismo ne provasse raccapriccio, egli vedeva giusto: la variante formale era una variante morale. Bisogna cioè prestare attenzione proprio a questo: la coda che fa del gran re di Creta un orribile demonio, è essa che nega all’atto di Minosse di essere più che una parodia della giustizia, essa attaccata alla mitica figura non certo per un cedimento del buon gusto di Dante, come insinuerebbe anche il Mazzoni, che si rammarica, in una col Panzacchi, del ringhio e della coda, e sospira così: «... Dante ebbe la fantasia sua (e chi oserà dire che non fu mirabile?), e non ci è lecito sostituire a quella le fantasie nostre, anche là dove abbiamo l’illusione che sarebbero migliori...» . La coda, lunga o corta, segna la frattura tra la vera giustizia, che è anche carità, ed ha i suoi trionfi nel cielo di Giove, e la falsa giustizia, che è gusto della vendetta, negazione della carità; stabilisce la distanza tra il Minosse giusto legislatore che trionfa nei manuali e il Minosse spietato vendicatore che si offriva a Dante coi miti del Minotauro e di Dedalo; trasforma insomma il re di Creta in un demonio.
Eppure, si guardi il caso, proprio per questa coda indemoniante, avversa ad ogni equivoco tra umano e divino e demoniaco, Minosse rischia di diventare veramente «un demonio di prim’ordine», come piaceva al Mazzoni, e di ispirare «un certo rispetto», come piace al Chimenz : ed è quando, riapparendo il giudice nel racconto di Guido da Montefeltro, prima egli l’attorce otto volte al dosso duro e poi per gran rabbia se la morde.
A Minos mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: «Questi è d’i rei del foco furo».
(Inf. XXVII, 124-7).
Il Pietrobono commenta con due uscite felicissime: «Da un demonio, che esercita un ufficio così importante, non ce lo saremmo aspettati». L’imprevedibilità del gesto è infatti fuori discussione; come è veramente ardua la sua interpretazione: «Che cosa gli fa perdere il lume degli occhi, fino a mordersi per la rabbia la coda? È difficile rendersene ragione». Alla sorpresa e all’ambiguità del gesto non corrispondono però — se non nella disparità delle soluzioni — segni d’imbarazzo tra gli altri commentatori moderni: il Tommaseo e il Momigliano ignorano il caso; alcuni (Porena, Grabher) lo spiegano come moto di reazione alla gravità del peccato, e intendono che la gran rabbia sia rivolta al maggior colpevole, papa Bonifacio; altri (Sapegno, Steiner, Casini- Barbi, Chimenz, Provenzal, Vitali) sulla stessa linea interpretativa, talvolta attenuando con un forse l’ardua tesi di Bonifacio, nella rabbia individuano propriamente l’impazienza del demonio castigatore; altri (Torraca, Montanari, Scartazzini-Vandelli) considerano Guido e non Bonifacio come provocatore dello sdegno; altri (Casini-Barbi, Graf, Montanari, Scartazzini-Vandelli) si ricordano che «Minos compie ordinariamente il suo ufficio in atto di incutere orrore e ringhiando» e che «l’ira e la rabbia sono passioni principali dei maledetti» : e qualcuno infine (Del Lungo) supera difficoltà e sorpresa tacendo della «coscienza del giudice» e riconoscendo che il mordersi la coda «è conveniente alla trasformazione bestiale (dosso duro) e demoniaca » del mitico Minosse. In quest’ultima e solitaria voce prevale opportunamente il ricordo della natura bestiale e demoniaca di Minosse; assai diffusa risulta, invece, la tendenza a sopravvalutare in lui il giudice, che i gravi peccati inducono a mordersi la coda (con una siffatta sensibilità, quanti altri morsi dovrebbero tormentarla?) e che dietro il colpevole individua anche chi ha la colpa, e se ne cruccia. Il caso limite, in cui gli estremi interpretativi si toccano, è quello del Chimenz che polverizza il giudice in una «mostruosa macchietta», e ben vede nel morso della coda quello che in effetti è, un «atto bestiale», e tuttavia vi scopre il manifestarsi di «una grezza partecipazione morale» . L’attributo grezza è forse una sottigliezza prudenziale; eppure potrebbe alludere ad un geroglifico importante quanto indecifrabile: il mistero della rabbia che si accende nei meri cherubini di fronte al peccato degli uomini. Ma la prudenza del grezza non basta a frenare l’audacia della partecipazione morale, che minaccia un terremoto nella demonologia dantesca e che, nel caso di Minosse, finisce col riconoscere una coscienza alle «macchiette». La coda, questa volta, è un’àncora ermeneutica: anche in questa seconda e ultima apparizione (veramente, quell’espressione di Virgilio in Purg. I, 77 Minos me non lega direi che ne provochi ancora un ricordo), per quanto morsa per gran rabbia, è sempre una coda di demonio; in essa la vita e il limite di un personaggio.
E qui cade opportuno considerare come questa coda viva e problematica, capace di vivificare le due scene in cui appare, solo che s’interrompa l'atmosfera poetica in cui è nata, crolla al primo soffio di prosastico buon senso. La spia ce la fa il Montefeltro, avvertendo che Minosse, dopo otto strette di coda, è costretto a parlare, per precisare a voce che il dannato è assegnato all’ottava delle dieci bolge. Al fuoco della riflessione quel numero otto vacilla: dal secondo cerchio, in cui ha luogo il giudizio, all'ottavo le volte sarebbero sette; Minosse comprende nel computo anche il primo cerchio, il Limbo, che è fuori della sua giurisdizione? o i segnali della coda si riferiscono al numero che contraddistingue ciascun cerchio: otto giri per ottavo, sette per settimo etc.? Ma che dire di quelle parole che dànno scacco al linguaggio della coda? È vero, dunque, che, siano tanti giri di una lunghissima coda o tanti avvolgimenti e svolgimenti d’una coda di modesta lunghezza, il numero che ne sorte è sempre di una grave genericità. Si pensi alle dieci bolge dell’ottavo cerchio, alle quattro zone del nono, ai tre gironi del settimo, complicati dalle note differenze tra suicidi e scialacquatori, sodomiti e usurai etc.; senza dire delle distinzioni degli altri cerchi, tra la schiera degli avari e quella dei prodighi, tra iracondi guazzanti nel fango e accidiosi sommersi, tra le arche degli eretici, tra le schiere dei lussuriosi. Che se ne fa, il dannato, di quel numero semplicistico, in un paese cosî complicato?
Ma bisogna rendere atto che il buon senso dei critici, esitando tra la coda lunga e la coda corta e il mistero della gran rabbia, ha avuto rispetto della poesia, lasciando in ombra sia il particolare problema dell’otto, sia la generale insufficienza pratica del sistema caudino. In verità il valore approssimativo dei giri di coda non ammette perplessità: la poesia dantesca matura ai suoi miti anche questa coda; il resto è silenzio, ovvero inutile ipotesi, come quella degli «altri demonii esecutori delle sentenze... per le cui mani le anime giudicate son giù volte» . Il testo non dice di più: i segnali di coda, siano dell’uno o dell’altro tipo, implicano una certa lentezza; ma il poeta, una volta presentato il congegno, s’affretta; e la terzina che inquadra l’intera scena
sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono, e poi son giti volte
(Inf. V, 13-5)
è come un colpo di accelerazione: reagisce all’apertura lenta, dando il senso della rapidità necessaria in un ufficio così affollato, e preannuncia anche quel tono sbrigativo del dialogo con Minosse che ha fatto pensare ad una fretta di Dante «di giungere al tema che gli è caro», Paolo e Francesca (Pagliaro).
Di concreto, in effetti, non rimane che la coda. È vero che se lunga, non è una coda ma «un serpente americano» (Mazzoni); se è corta, fa perder troppo tempo al giudice (Pietrobono); ma anche chi s'è rammaricato che la vergognosa appendice deturpi l’immortale bellezza degli esseri mitici (E. G. Parodi) è pronto a riconoscere che nella figura grottesca di Minosse non spicca altro.