Dati bibliografici
Autore: Umberto Bosco
Tratto da: Dante vicino
Editore: Sciascia, Caltanissetta-Roma
Anno: 1966
Pagine: 13-27
Mi limito qui naturalmente a proporre alcune osservazioni; non pretendo d’esaurire un argomento enormemente complesso. E neppure pretendo d'essere originale; di originali in Italia ce n'è anche troppi. Delle cose che dirò, alcune sono state già dette o accennate, alcune altre sono per così dire fluttuanti nell’aria, in attesa d’essere cristallizzate e sistemate. Certo, la sistemazione può produrre irrigidimenti in formule; ma penso che una tal quale formulazione sia, almeno all’inizio, necessaria, se vogliam vedere chiaro: le necessarie precisazioni e sfumature verranno convenientemente, se ne varrà la pena, in un secondo tempo.
È risaputo che l’uomo tende a concepire simile a sé stesso la realtà che lo circonda — animali, piante, cose, fenomeni naturali — o anche quell’altra realtà non visibile — idee, sentimenti — che domina prepotentemente la sua vita. Cioè, egli tende a personificare. Ogni mitologia, dalla più elementare alla più complessa, nasce da qui. Nel mondo greco-romano, accanto ai veri e propri dei che esistono «O immemorabili, coi loro miti che si vanno sempre più arricchendo, coi loro culti e liturgie, insomma con la loro natura e fascino propriamente religiosi, ci sono fenomeni o sentimenti o idee che sono a getto continuo miticizzati, che non siedono nel pantheon, e tuttavia hanno comuni con gli dei, talvolta templi e sacerdoti, sempre potenza e persona. Accanto ad amore-Cupido o a sapienza-Atena c’è la grande schiera delle larve, specialmente latine: la Libertas, la Pax, e via via. Da questa prolificazione naturale trassero partito quelli che a noi ora importano, i poeti; e infatti i poeti greco—latini moltiplicavano a loro piacimento le larve. Alcune di esse, come la Fama, passano dall’uno all’altro scrittore, acquistando di su un fondo mitografico comune sempre nuovi attributi e figurazioni, sì che finiscono col distare un sol passo, nella comune coscienza letterario—religiosa, dalle vere divinità; altre restano creazioni singole d’un poeta. Spesso la loro personalità è rudimentale, appena accennata: talvolta si riducono al solo nome, che si distingue dal relativo nome comune solo per la sua posizione grammaticale e stilistica, che gli editori moderni caritatevolmente sottolineano con l'espediente della maiuscola.
Così, per es., Virgilio fa scendere sulla terra gli dei della sua religione, con la rinnovata ricchezza dei loro attributi tradizionali; ovvero, pur riprendendo da altri scrittori la figura e la genealogia della Fama, si ferma a particolareggiarla secondo il suo gusto (Aen., IV 180-182),
monstrum hotrendum ingens, cui quot sunt corpore plumae
tot vigiles oculi subter, mirabile dictu,
tot linguae, totidem ora sonant, tot subrigit auris,
e la fa agire come ben sappiamo. Talvolta, infine, inventa di suo, ma per così dire, su una linea fantastica fissata (Aen., VI 273-276):
vestibulum ante ipsum, primis in faucibus Orci,
Luctus et ultrices posuere cubilia Curae;
pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus,
et Metus et malesuada Fames ac turpis Egestas.
Una folla d’ombre, che il poeta vuol lasciar tale, e che perciò non caratterizza nelle singole personalità. Orbene: quando, quattro secoli dopo, il Virgilio cristiano, Prudenzio, personifica ai suoi fini edificanti i suoi eserciti di Vizi e di Virtù, e li fa muovere l’uno contro l’altro, egli obbedisce chiaramente a una suggestione letteraria, la quale è tanto forte, che egli non si domanda neppure se essa possa esser. vitale per fantasie non più polisteristiche. E quando, dopo altri otto secoli, gli autori del Roman de la Rose, specie Guglielmo, convocano le loro personificazioni in difesa o alla conquista, questa volta, della profanissima rosa, essi sono, non meno chiaramente, sulla linea letteraria dei classici e di Prudenzio. Ma la tradizione letteraria basta a spiegare la predilezione medievale per il simbolo?
Non basta. Si dice, o si diceva, comunemente: il simbolismo dei medievali nasce dal loro didascalismo. Vediamo. Dante in un suo sonetto aveva rappresentato Amore camminante e sorridente; inserendo il sonetto nella Vita nuova, sente il bisogno di giustificarsi (cap. XXV) di aver detto di lui «come se fosse corpo, ancora si come se fosse uomo». La giustificazione è essenzialmente letteraria: «dire per rima volgare tanto è quanto dire per versi in latino»; i nuovi poeti in volgare, che solo da centocinquant’anni sono apparsi, sono i legittimi continuatori degli antichi poeti: ordunque, se a Virgilio, Lucano, Orazio e Ovidio era concessa «alcuna figura o colore rettorico», «degno e ragionevole è» che la stessa «licenza di parlare» sia concessa ai dicitori in rima. Però, continua Dante, questo non basta: occorre che ci sia una qualche «ragione», un significato profondo: «però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento». Dante ammette dunque la personificazione a patto che essa contenga un soprasenso. Ma — e qui è il punto — si tratta necessariamente di un soprasenso d’ordine ammaestrativo, morale o comunque dottrinale, tale propriamente da poter essere tradotto in una proposizione filosofica o scientifica? Di questo è lecito dubitare, per quel che riguarda il Dante della Vita nuova. Intanto il poeta ammette, anche a nome del Cavalcanti, che non tutti ai suoi tempi si curavano di tale soprasenso: «E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente». C'è da fare una constatazione che s'impone subito al più modesto conoscitore dell’antica poesia: che cosa è tutta variamente simbolica, anche quando non è e non vuol essere ammaestrativa, anche quando è romanzesca o lirica. È lecito pensare che la «ragione», che Dante ritiene essenziale, possa consistere, se traduciamo in termini moderni il linguaggio critico di Dante giovane, nella coerenza fantastico-sentimentale. I rimatori «stolti» non sono propriamente quelli che non ammaestrano in materia morale o scientifica, ma più generalmente coloro che rimano a vuoto, senza avere un messaggio umano da trasmettere ai loro lettori: cioè i cattivi poeti, i non poeti. E s'intende bene, che allo stesso modo come noi critici moderni siamo necessariamente portati — per quanto si stia in guardia — a schematizzare in termini logici (psicologici, morali, politici) i vari messaggi dei poeti che studiamo, così il Dante del Convivio estraeva dalle poesie proprie una proposizione dottrinale. Ma l’importante era per lui, prima e dopo, come per noi, che non si rimasse per puro esercizio letterario, senza aver nulla veramente da dire.
Sull’essenza del simbolismo medievale si è di recente tornati, come è ben noto, in Italia e fuori, con idee nuove e feconde. Posso ora lasciar da parte la delicatissima questione, e limitarmi a rinviare a un bellissimo articolo di A. Roncaglia, che è assai più che una recensione a un libro, anch’esso molto interessante, del Bezzola su Chrétien de Troyes. Lo scrittore medievale, dice il Roncaglia, possiede una «dimensione metafisica» della realtà, che noi moderni non possediamo, o possediamo in misura assai minore; non solo: ma egli fa assegnamento sul possesso della medesima dimensione da parte dei suoi lettori. Avveniva ad essi in misura assai più larga e profonda quel che avviene oggi a un cristiano quando vede una croce, o a un patriota quando saluta la sua bandiera: croce e bandiera sono, sì, cose; ma nello stesso tempo idee; se il cristiano e il patriota scrivono di esse, contano che per i loro lettori l’equivalenza croce= Cristo e bandiera= patria sia immediata, non frutto d’un ragionamento sia pur semplice. La vera e propria allegoria è un momento posteriore: idealmente posteriore, non cronologicamente, come ritiene il Bezzola, che assegna il simbolo al sec. XII e l’allegoria al «razionalista» sec. XIII. Dall’intuizione simbolica della realtà lo scrittore, anzi l’uomo medievale, procede allo scavo allegoricizzante, cioè logicizzante, di essa intuizione. Insomma: Dante parte, per es., dall’intuizione selva=vita, consustanziale per lui come per i suoi contemporanei, e poi ci lavora su con l’intelletto, e ne vien fuori il primo canto della Commedia. Dalla personificazione, che per me è il più elementare effetto di un bisogno di concretizzazione dell’astratto, che considererei basilare, si passa per gradi alle forme allegoriche più elaborato: gradi determinati da un sempre più vigile intervento della logica, della razionalità, del didascalisno. Questo dunque non è all’origine del processo, ma ne è al contrario la conclusione.
Un altro assai valente studioso, il Contini, pone appunto nella «oggettivazione dei sentimenti» il quid proprio dello Stil novo. Oggettivazione che non muove, egli dice, dal «divorzio dei significati» letterale-simbolico, proprio dell’allegorismo, ma, all’inverso, «è tutta presa dalla preoccupazione eminentemente unitaria della presentazione sensibile dei fatti interni». Siamo dunque, deduco io, non solo al di qua del didascalismo, ma al di qua dello stesso simbolismo; ovvero, diremo meglio, siamo alle origini di esso simbolismo. Gli spiritelli cavalcantiani ovviamente non sono simboli dei sentimenti del poeta, ma i sentimenti stessi fatti sensibili. Egli per farne oggetto di poesia deve dar loro corpo, approda a una rappresentazione che diremmo realistica, se questa espressione non fosse ora carica di significati malamente conciliabili con la poesia medievale.
Ma ciò non è proprio soltanto dello Stil novo. Innumerevoli poeti avevano rivolto e rivolgeranno il discorso alla loro poesia; i «congedi» avevano anzi canonizzato metricamente questo motivo. Sì, esso resta inerte presso i minori, come inerti restano presso di essi tante altre personificazioni d’altro genere; e invece il Cavalcanti raggiunge la poesia quando si rivolge alle parole sue disfatte e paurose, alla sua voce sbigottita e deboletta, o quando fa parlare le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e ’l coltellin dolente; ma l’origine del motivo, anche se il Cavalcanti v’imprime il suggello della sua fantasia, è identico presso lui e gli altri. Essa risiede — non sottovalutando l’efficacia della tradizione letteraria in sé, alla quale anzi ho fatto dovuto omaggio cominciando — in quel bisogno medievale di concretizzare quanto pit possibile l’astratto, rispetto al quale l’allegorismo risulta geneticamente secondario.
Naturalmente, ciò può produrre stonature per l’orecchio di noi moderni. Quando per esempio Dante istituisce tra sé e Malinconia — apparsagli tra altre figurazioni — un dialoghetto di tono quotidiano, diremmo borghese:
Un dì si venne a me Malinconia
e disse: «Io voglio un poco stare teco»;
e parve a me ch’ella menasse seco
Dolore e Ira per sua compagnia.
E io le dissi: «Partiti, va via»;
ed ella mi rispose come un greco...;
quando, nello stesso sonetto, egli fa che Amore, non solo si muova e parli, ma sia vestito di novo d’un drappo nero, e che nel suo capo porti un cappello, allora il nostro gusto odierno può restare perplesso. Tanto perplesso, che, se non per questo sonetto, per casi analoghi si è pensato addirittura a parodia. In questo sonetto lo stile «comico» è usato per un argomento che non sembrerebbe comportarlo, almeno a prima vista. Comunque, nella massima parte dei casi, ogni intento parodistico è escluso: si ha invece, per lo più, un’esasperazione della tendenza concretizzante, condotta oltre i limiti che il gusto moderno può consentire, sempre in stile «comico». Per questa via, un poeta di gran lunga minore, Niccolò del Rosso, può con serietà dare a uno dei suoi spiriti la «barba lunga» o al suo cuore i capelli per i quali «gli spiriti, e’ deletti e gli pensieri» lo afferrano; o immaginare la Pietate che viene a piangere lui creduto morte di mal d’amore:
Venne per farmi onor cum zente molta
e preti, Requiem eternam cantando.
Un altro dei minori, Pieraccio Tedaldi, reagiva:
— Chi è questo signor tanto nomato,
che dà altrui dolcezza ed amatore?
— Egli è un nome, che si chiama Amore,
il quale ha signoria sopr’ogni stato.
— Egli è un animal proporzionato,
che gusti e dorma ed abbia in sé sentore?
— E nasce di piacer e di dolzore;
animal no, ma è cosî un nome usato.
E in un altro sonetto:
Amor è giovenetto, e figurato
ignudo ed orbo, co’ feroci artigli,
con volante ale e con corti capigli
e con turcasso pien di dardi a lato.
E sède in equo bianco disfrenato,
che ha pettoral di cuori uman vermigli...
Or vo’ contar de la sua propria essenza:
Amor si non è altro ch’un desio
criato sol ne la concupiscenza,
e con volere e con un piacer rio
chiamato Amor, non visto in apparenza...
Significative messe a punto, ingenui ritorni alle origini (si pensi a Giacomo da Lentini) di fronte a un eccesso di concreto.
Ma questa spinta al plastico, alla visualizzazione, non è, ripeto, singolare del nuovo stile. Già presente, nei provenzali, essa appare subito in casa nostra, già nel Lamento della donna del crociato di Rinaldo:
Tanti son li sospire
che mi fanno gran guerra
la notte co’ la dia...
Basterebbe pensare, in genere, alla precisa descrizione, in tutti, degli effetti fisici dell'amore o di altri sentimenti; o ricordare il Fiore, in cui — conformemente, del resto, al modello — lo sforzo del personificare cede spesso, e a lungo, a un tono poetico realistico-popolareggiante, da avvicinare alla lontana a quello d’un Angiolieri. E in tutt’altro campo, si ricordino la concretezza sensuosa d’un Jacopone; il punto estremo di plasticità realistica cui. giunge la personificazione della Povertà nelle Nozze francescane, di cui è poi eco, non sempre ai moderni persuasiva, nell’XI del Paradiso; i colloqui — persona a persona — con l’anima, nei quali consiste interamente il Libro della Divina Dottrina. Del resto, tutta la Commedia può dirsi uno sforzo supremo di visualizzare l’invisibile.
È poi da fare, a parer mio, un’altra considerazione. Le parole volgari avevano di per sé, nell’albeggiare e nella prima mattina della nostra lingua poetica, una corposità che il lungo uso ha poi consumato. Non penso già alla quasi sacralità che la parola in sé poteva conservare o assumere in certi spiriti medievali, giacché il discorso per questa via tornerebbe in fondo su quella metafisicità della realtà alla quale abbiamo accennato; ma a un fatto propriamente linguistico-poetico. Quella metafora che è la parola ha in sé due termini, il rappresentante e il rappresentato: allorquando è tuttora recente, se non la creazione di essa, il suo uso in un tessuto poetico, il termine rappresentante vige ancora, con forza uguale o persino maggiore del rappresentato. Mi spiego. Se leggiamo, per es., nella lettera odierna d’una povera ragazza al suo innamorato: «tu mi hai spezzato il cuore», la frase usuale è per noi monovalente: il termine rappresentante (cioè il cuore, diciamo, come muscolo), ha perduto ogni valore, soverchiato com’è dal termine rappresentato, cioè l’amore, la persona tutta in quanto innamorata e vivente, e vivente in quanto innamorata.
Ma nei primordi della nostra lingua poetica, la parola-immagine è in molti casi ancora bivalente, o almeno essa ha una trasparenza assai maggiore che oggi. Ad esempio per Dante, sollecitata anche dalla fantasia così potentemente plastica di lui: Amore
alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d'ogni guizzo stanco:
allor mi surgon ne la mente strida;
e ’l sangue, ch'è per le vene disperso,
fuggendo corre verso
lo cor, che ’l chiama: ond’io rimango bianco.
Elli mi fiede sotto il braccio manco
sì forte, che ’l dolor nel cor rimbalza:
allor dico « S'elli alza
un’altra volta, Morte m’avrà chiuso
prima che ’l colpo sia disceso giuso».
Se non sapessimo trattarsi d'Amore e di metaforico colpo, potremmo vedere descritta in questa stanza la disperata lotta d’un debole contro un gigante, o meglio, l’incubo angoscioso di tale lotta. Qui addirittura il rappresentante ha il sopravvento fantastico sul rappresentato.
In età più adulte, sino ai nostri giorni, noi abbiamo dovizia di simili procedimenti; ma non ci si deve far ingannare dalla somiglianza solo apparente. Quando già talvolta il Petrarca, e poi i suoi imitatori del tardo Quattrocento, e poi i secentisti, e ora alcuni dei contemporanei, riassumono un’immagine già diventata idiomatica, e consciamente, forzatamente ne risuscitano l’elemento rappresentante ormai obnubilato, e lo fanno riscintillare, essi giocano intellettualisticamente sul vocabolario, godono di camminare su un filo teso, far mostra di abi. lità di arguzia di novità a ogni costo. La coscienza che è in essi del gioco letterario li allontana dai medievali, in cui non si troverà traccia di esso. La poesia lirica volgare nasce, sì, sotto il segno della tecnica raffinata: è questa che distingue tipicamente i trovatori: ma i giochi letterari, anche verbalistici, di essi e dei loro successori sono, come ben sappiamo, di tutt'altro genere. La stessa rozzezza, che abbiam detta sconcertante, di certe loro figurazioni, in contrasto con la raffinatezza letterario-culturale del complesso dell’opera loro, ci è buona garante che non si tratta, per quelle figurazioni, di espedienti letterari, ma di un effetto della freschezza ancora acerba della loro lingua poetica.
Ma vorrei fare ancora un’osservazione. Le personificazioni a cui abbiamo accennato, da Prudenzio alle innumeri altercationes, al Roman de la Rose, al Fiore; che formano spesso tra loro estese parentele, genealogie, «baronie»; i personaggi che restano talvolta puri nomi, ma talvolta — e ciò è interessante — diventano persone, al punto che ci dimentichiamo del loro nome significante, semplice etichetta; le personificazioni di cui Cercamon affolla il suo compianto per la morte del conte di Poitiers e via via, sino alle larve che costituiscono tanta e così fortunata parte dei Trionfi petrarcheschi, non sono le sole né, direi, le più importanti. C'è in tutto il Medioevo una «personificazione» centrale, capitale: la donna. Non abbia nome, o ne abbia uno finto e significante, o conservi il suo nome storico. La donna nei verzieri provenzali o tra le vie fiorentine, castellana o pastorella, coi suoi saluti e i suoi dinieghi, le sue condiscendenze e le sue ripulse.
I poeti sono inconfondibili l’uno dall’altro, chi sappia ben leggerli: le loro donne, come personaggi astratti, no. L’entità fantastica «donna» è appena accennata, diremmo oggi stilizzata. Perché questo, se non perché essa non è per quei poeti altro che il segno espressivo d’una loro «ragione» poetica, la quale non ha bisogno, anzi esclude, ogni approfondimento psicologico o drammatico di un personaggio in quanto tale? La «ragione» di ciascun poeta è la sua disperazione o la sua gioia, fremito sensuale, ansia di elevazione e di purità, scontento, rimorso, malinconia, incertezza, sbigottimento. E via e via. E queste ancora generiche e fisse categorie assumono individualità e perciò infinita varietà nelle singole individualità. Ma la donna-personaggio è sempre essenzialmente uguale a sé stessa, Ecco perché tanto di frequente restiamo incerti (anche nel Petrarca) tra l’interpretazione storicizzante e quella simbolica: troppo vaga e talvolta contraddittoria quella, la storica, per effetto della prepotenza dell’intento vero, cioè lirico, del poeta; troppo corposa e particolareggiata la simbolica, per effetto della compresente spinta alla concretizzazione fantastica. Ecco perché la donna gentile della Vita nuova «giovane e bella molto», col suo viso soffuso di un suo «colore palido quasi come d’amore» che si mostra al poeta da una sua realistica finestra (capp. XXXV-XXXVI) diventa perentoriamente nel Convivio la «figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia» (II XII 9). Già la donna della Vita nuova era, sì, di questa terra, ma non era cantata in quanto tale; la vicenda sentimentale di Dante, a cui la sua apparizione dà luogo, non importava nei suoi termini storici. Ella era il segno poeticamente rappresentabile di una «ragione», ma ragione poetica, non didascalica: la vita che riprende dopo un dolore, che il poeta credeva eterno, e che invece sente a poco a poco acquetarsi; lo scontento e il rimorso di sentirsi infedele a sé stesso: voi, occhi (V.N., XXXVII),
non dovreste mai se non per morte
la vostra donna, ch’è morta, obliare.
Ora tutto ciò, in termini logici, si chiama necessità di consolarsi e rifiuto della consolazione. È esattamente quello che dice Dante, nel Convivio. Nel quale, commentando sé stesso, denudando le sue parole della «vesta» poetica, fa quello che fanno tutti i critici: riduce il fantasma in termini razionali. E la consolazione, Boezio alla mano, che Dante non per nulla allega per primo, non può chiamarsi altro che Filosofia.
E perché Dante non ha parlato direttamente, «palesemente» della filosofia? Ce lo dice egli stesso: «però che de la donna di cu’ io m’innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente poetare» (Conv., II XII 8). Perché, tradurremmo noi, la poesia è poesia, e non può rinunziare ai suoi fantasmi: e i poeti, più che mai nel Medioevo, hanno bisogno di partire da una dimensione corporea, di appellarsi ai dati della comune esperienza sensibile e psicologica.
1951.
Poscritto. — Rileggendo ora, nel 1965. queste mie vecchie pagine rimaste quasi ignote, non ho trovato quasi nulla da mutare. Vorrei solo osservare che, come prevedevo, l’argomento è stato in questi ultimi anni approfondito da molti e valenti; e ribadire il mio pensiero sul problema della «donna gentile». Esso sempre più mi sembra risolvibile su una linea assai semplice di ragionamento. Semplice; e a qualcuno sembrerà semplicistica: ma forse non lo è.
A me continua a sembrare che non ci sia contraddizione tra la presentazione della donna gentile nella Vita nuova e la sua interpretazione nel Convivio. Nel libello, Dante ci dà un racconto psicologico: quel che allora lo interessava era approfondire la complessità e le contraddizioni intime del cuore umano. In seguito, in esilio, si accorge o teme che l'essere andato peregrinando per tante parti d’Italia presentandosi come scacciato dalla patria e povero, possa averlo fatto «più vile che il vero non vuole», «onde le mie cose sanza dubbio sono alleviate». Perciò deve, «con più alto stilo», dare «ne la presente opera, un poco di gravezza, per la quale paia di maggiore autoritade»; e scrivere libro più adatto all’età sua, ormai «temperata e virile». Non si contenta perciò più della «ragione» psicologica del suo racconto; ne vuol dare una allegorico-morale, che valga a guidare gli uomini «a scienza e a vertù», mostrando loro come proprio la scienza e la virtù, e non una donna, per «gentile» che sia, possono consolare. Ma dice anche espressamente che non per questo intende «in parte alcuna derogare» alla Vita nuova, cioè rinnegarla o smentirla. Vuole solo interpretarla; e la nuova interpretazione si sovrappone alla prima, senza annullarla. Come la Beatrice-Teologia della Commedia rimane la donna fiorentina già contemplata nelle chiese, nelle feste, per le vie di Firenze, così la donna gentile, nel Convivio interpretata come Filosofia, non annulla la fiorentina che ovunque vede il poeta «sì si facea d’una vista pietosa e d’un colore palido quasi come d’amore». Non c'è dubbio che la canzone Voi ch’intendendo, a commento della quale Dante dà la nuova interpretazione del suo vecchio racconto, è del tutto nel clima della Vita nuova. Cioè Dante, nel momento in cui si proponeva di ammaestrare con canzoni anche d’amore, riesuma (come io credo) una canzone scritta in passato, nel gusto e nei moduli narrativi del libello, aggiungendole un nuovo congedo che metta in guardia il lettore sulla sua «ragione» morale nuovamente conferitale; ovvero, se si preferisce, scrive ex novo, con intenti allegorizzanti, una canzone; ma — e questo è l'importante — la fa del tutto simile a quelle dell’opera giovanile. Cioè, non «deroga» a essa, neppure in questo secondo caso.
La contraddizione semmai consiste, almeno apparentemente, nel fatto che mentre nel libretto giovanile Beatrice la vince sulla donna gentile, e torna padrona dell’anima del poeta e tale resta per sempre, nel Convivio, invece, la vittoria della donna gentile, interpretata come Filosofia, è ovviamente definitiva. Ora, è stata notata sempre da tutti la somiglianza tra la Beatrice in Paradiso dell’ultimo sonetto della Vita nuova e la Beatrice che appare a Dante nell’Empireo della Commedia: la donna che trionfa sulla sua pietosa e inconscia rivale non è dunque più di questa terra, è già bellezza «spiritale». Per Dante che scrive il Convivio, e ripensa alla Vita nuova dal punto in cui ora è giunto, la donna gentile è Filosofia nel medesimo modo in cui Beatrice, sostanzialmente, se non certo nei particolari della «mirabile visione», era già diventata Teologia, cioè filosofia volta allo studio del divino. Anche nel libello, dunque, è la filosofia quella che definitivamente vince.
1965.