Dati bibliografici
Autore: Saverio Bellomo
Tratto da: Filologia e critica dantesca
Editore: La Scuola, Brescia
Anno: 2008
Pagine: 181-184
La Commedia condivide con il genere dei viaggi allegorici la componente didattica. Per questo il personaggio che compie il cammino nei regni d’oltretomba ha la funzione, come sempre in tali testi, di fare convergere gli insegnamenti forniti dalla guida verso di sé al fine di porgerli indirettamente al lettore. La sua è una identità vaga, l’“io” narrante equivale a un “ognuno”, perché i in realtà rappresenta ciascun lettore che impara. Nel caso della Commedia in cui il messaggio è universale il personaggio rappresenta dunque ciascun uomo. Tale linea interpretativa definita con la formula “Dante everyman” dal critico statunitense Charles Singleton, si fonda in particolare sull’acuta esegesi dei primi versi del poema Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai..., in cui nostra, aggettivo pronominale di prima persona plurale, si contrappone a mi, pronome di prima persona singolare, emblematicamente dissolvendo la singolarità di chi parla nell’universalità dell’umanità cui appartiene. Tale proposta ha l’avallo dell’antica esegesi, in particolare di Iacopo della Lana, autore del primo commento all’intera Commedia risalente al 1324-1328, e valorizza il significato allegorico.
Con il termine allegoria si indica una figura retorica consistente nel “dire altro” oltre a quello che dice la lettera, vale dire costituisce uno o più sensi aggiuntivi. Dante se ne occupa sul piano teorico in due occasioni, nel Convivio (II i 1-7) e nell’Epistola a Cangrande (§§ 20-27), sostenendo, sulla base delle dottrine del tempo (per quanto non da tutti condivise) che i sensi del testo, sia poetico sia teologico, cioè biblico, possono essere quattro.
a) Il senso litterale, limitato alla lettera, dal quale bisogna partire nell’interpretazione perché su di esso si fondano tutti gli altri; esso è costituito da parole che possono essere fittizie come sono le favole dei poeti, o veritiere nel caso della Bibbia che riferisce fatti storici.
b) Il senso allegorico propriamente detto (benché tutti i sensi diversi dal letterale possano dirsi allegorici), che rappresenta la verità nascosta sotto la bella menzogna: a esempio quando Ovidio dice che Orfeo ammansiva le fiere e muoveva col suo canto le pietre e gli alberi, significa che il saggio con la propria parola addolcisce i cuori crudeli e fa muovere a sua volontà coloro che sono privi di razionalità.
c) Il senso morale è quello che è rivolto all’utilità e costituisce un insegnamento: a esempio se nel Vangelo si afferma che solo tre apostoli assistettero alla trasfigurazione, il lettore impara che alle cose segrete bisogna avere pochi testimoni.
d) Il senso anagogico è quello spirituale che rinvia alla vita eterna: quando la Bibbia racconta del popolo di Israele che esce dall’Egitto, la lettera, oltre ad essere vera in sé, sta a significare che l’anima uscita dal peccato (rappresentato dall’Egitto) è restituita alla propria sovranità.
Il teso della Commedia va interpretato secondo questi quattro sensi, ma ovviamente non sempre secondo tutti e quattro, né sempre allegoricamente. Anzi, forse non sono molti i luoghi sicuramente passibili di interpretazione allegorica: tra i più espliciti ricordiamo il primo canto, in cui l’atmosfera onirica e la presenza di elementi scarsamente realistici ma fortemente simbolici come la selva, le fiere o il colle ci impongono il ricorso al sovrasenso; la comparsa delle Furie a If IX 34-63, dove il poeta esorta i lettori alla ricerca della dottrina che si nasconde sotto il velame de li versi strani; o ancora la comparsa del serpente nella valletta dei principi a Pg VIII; infine la processione del Paradiso terrestre a Pg XXIX.
Di un significato allegorico globale del poema parla esplicitamente l’Epistola a Cangrande che individua il subiectum (‘soggetto’) del poema, litteraliter, cioè sul piano della lettera, nello stato dell’uomo dopo la morte, e sul piano allegorico, nel giudizio cui va incontro.
Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus. Nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est. (Ep XIII 24-25)
Apparentemente i due significati, il letterale e l’allegorico, parrebbero coincidere; in realtà vi è una sottile distinzione: un conto è lo stato in se stesso delle anime dopo la morte, così come vengono presentate, un conto è ciò che rappresenta la loro condizione, vale a dire il giudizio divino sulle scelte dell’uomo derivate dall’uso del libero arbitrio, in cui risiede il senso morale, e sulle loro conseguenze, in cui risiede il senso anagogico.
Resta comunque il fatto che non è Dante-personaggio e il suo viaggio ad essere considerato come subiectum letterale, né allegorico, in quanto non è lui che merita o demerita. Dante viene infatti inserito nell’altra categoria dell’analisi formale del testo che è l’agens, cioè l’autore, di cui si dice: Agens igitur totius et partis (cioè del poema per intero e della sua parte, cioè del Paradiso di cui si parla nell’epistola) est ille qui dictus est (cioè Dante di cui si è detto all’interno del titolo, che recitava Incipit Comedia Dantis Alagherii ecc.), et totaliter videtur esse (‘e appare esserlo totalmente’, quasi a scongiurare l’ipotesi che possa essere direttamente ispirato da Dio, che in tal caso si configurerebbe, come accade per i profeti, come coautore). La spiegazione più semplice di tale mancato riconoscimento di Dante anche come protagonista del viaggio, come si è già accennato (vd. cap. VII 3.3), è che non si distingua la sua duplice funzione di autore e personaggio. A meno che il termine agens, invero non molto comune per indicare l’autore, non significhi, come ha sostenuto Francesco Mazzoni, con argomentazioni invero cavillose e non molto convincenti, puntualmente smontate da Bruno Nardi, proprio il soggetto dell’attività morale, del fare pratico, coincidente con il personaggio che dice io .
Se Dante-personaggio rappresenta l’uomo, tornando alla proposta di Singleton, la sua esperienza ultramondana raffigurerà quella mondana di ciascuna coscienza che considera i vizi e le virtù, sarà cioè un’esperienza intellettuale di conoscenza di ciò che è bene e ciò che è male. Tale doveroso percorso viene compiuto grazie alla guida di Virgilio, che in quanto sommo poeta, sapiente e giusto, ma privo della vera fede, rappresenta il massimo grado di sapienza al quale l’umanità può giungere senza la fede, ovvero può rappresentare la ragione umana, o, se vogliamo, i philosophica documenta, grazie ai quali si perviene alla felicità terrena. A Virgilio succede Beatrice che, in quanto santa in paradiso, vede in Dio la verità e può bene impersonare la stessa fede, o i documenta spiritualia, con i quali l’uomo, dopo avere impiegato le sue doti naturali, può elevarsi ulteriormente e raggiungere la beatitudine, che sta nell’intuizione di Dio.
Questa interpretazione consuona con affermazioni fondamentali della Monarchia. Infatti il carattere conoscitivo del viaggio nell’oltretomba rispecchia l’idea, espressa all’inizio del trattato, che il compito del genere umano sia quello di attuare l’intelletto possibile, cioè tutte le potenzialità della ragione. Inoltre il contenuto del poema nella sua struttura allegorica si sovrappone perfettamente all’ultimo capitolo della Monarchia, nel quale Dante indica la retta via all’umanità verso il suo scopo fondamentale che consiste nella felicità, la quale a sua volta si configura come felicità terrena, rappresentata dal paradiso terrestre, alla quale perveniamo grazie ai philosophica documenta, e beatitudine, rappresentata dal paradiso celeste, alla quale perveniamo grazie ai documenta spiritualia. Ciascuna di tali felicità, per essere realizzata, abbisogna di una guida, costituita rispettivamente dall’Imperatore e dal Papa.
Il percorso catartico e conoscitivo avviene per tappe successive attraverso una fitta serie di incontri con vari spiriti, i quali hanno la precisa funzione di illustrare un vizio o una virtù, ma diversamente dalle rigide personificazioni dei poemi allegorici, sono umanamente vivi (si passi l’ossimoro) e delineati nei loro caratteri peculiari con uno sconcertante finezza psicologica e aderenza alla realtà. Sono insomma fondamentalmente degli exempla, come i personaggi che popolano i racconti edificanti dei predicatori, ma con qualcosa ancora in più. Per definire tale carattere aggiuntivo, che li rende assolutamente unici nell’ambito della letteratura universale, può aiutare il concetto di “realismo figurale” teorizzato da Erich Auerbach. Lo studioso tedesco, partendo dell’interpretazione figurale propria dell’esegesi biblica, secondo cui i fatti e i personaggi dell’Antico Testamento sono prefigurazioni del Nuovo, cosicché ad esempio Adamo è figura di Cristo ed Eva della Chiesa, la applica al testo dantesco incrociandola con l’idea di s. Tommaso che nessuno può realizzare la propria essenza umana se non nell’aldilà. Di qui deriva la natura dei personaggi danteschi, che si presentano da morti come realizzazione della loro umanità terrena, e quest’ultima come figura della loro sorte futura. In tal modo sia la figura sia il suo compimento godono del carattere storico e concreto della realtà, diversamente dall’astrazione delle allegorie. Cosicché la rigidità del significato allegorico, ad esempio di Virgilio o Beatrice, si stempera in un più complesso rapporto con la loro vita terrena, preannuncio di ciò che sarebbero divenuti in quella oltremondana.