Dati bibliografici
Autore: Pietro Delcorno
Tratto da: Cahiers d'études italiennes
Numero: 29
Anno: 2019
Pagine: 1-11
In questa santa Quaresima ho intenzione di predicare alcune cose che saranno piacevoli da ascoltare e che, tuttavia, provocheranno dolore e paura. E questo perché voglio predicare l’inferno secondo Virgilio, il quale nel sesto libro dell’Eneide racconta che Enea discese proprio all'inferno e lì vide le orrende e stupefacenti pene dei peccatori .
Il folgorante annuncio apre il sermone del Mercoledì delle Ceneri di un quaresimale conservato in forma incompleta in un manoscritto di inizio Quattrocento. Sulle soglie della Quaresima, l'anonimo predicatore — probabilmente un frate minore come lascia supporre un riferimento alle stimmate di Francesco — indica nell’Eneide la chiave di volta per strutturare un impegnativo ciclo omiletico, capace di condurre i suoi ascoltatori verso la Pasqua, e di supportare lo sviluppo didattico dei sermoni attraverso un racconto avvincente e spaventoso. Nelle intenzioni del predicatore, si facilitava così l’assimilazione dei contenuti teologici proposti, favorendo inoltre la partecipazione dei fedeli.
La Quaresima era diventata, a partire dal secondo Duecento, il tempo liturgico privilegiato per una predicazione quotidiana, intesa come forma intensificata di istruzione religiosa, capace di presentare agli ascoltatori in modo chiaro e sistematico gli elementi portanti della dottrina cristiana . Il ritmo intensificato della predicazione quaresimale rappresentava un'occasione preziosa — ma anche una sfida. Si trattava infatti di gestire un ampio ciclo di sermoni, conquistando l’attenzione e la partecipazione degli ascoltatori. Proprio la necessità di rispondere a tali sfide spinse progressivamente i predicatori — o almeno, alcuni di essi — a sperimentare forme innovative nella costruzione dei propri quaresimali. Tali cicli potevano essere costruiti come macro-racconti o in forme semi-drammatiche, utili a vivacizzare e a legare insieme i sermoni attraverso una cornice narrativa sviluppata giorno per giorno, proponendo una storia nella quale gli ascoltatori erano sovente chiamati — implicitamente o esplicitamente — a identificarsi .
Il sermonario al centro di questo contributo rappresenta un precoce esempio di tale strategia comunicativa. Il racconto dell’Eneide costituisce il suo filo conduttore: ogni sermone inizia con la sintesi — in alcuni casi, una vera e propria parafrasi — di una parte del libro VI dell’Eneide e con la citazione di alcuni suoi versi, spesso abbinati — come vedremo — a passi della Commedia di Dante. Il racconto di Virgilio veniva poi interpretato allegoricamente, in forma più o meno elaborata, prima di passare a un tema dottrinale ricavato dalla pericope evangelica del giorno. Il sermonario si presenta così come un'eccezionale forma di ricezione, appropriazione e ‘trasformazione’ del poema di Virgilio . L'utilizzo dei classici va, infatti, in questo caso molto al di là di un'occasionale citazione o dell’uso allegorico di un singolo episodio . Portando a un livello del tutto nuovo il riferimento a Virgilio nella predicazione dell’aldilà cristiano , agli ascoltatori era presentata un’Eneide infernale, didattica, ad usum pulpiti — fossero essi litterati, già familiari con il poema, o idiotes messi a contatto con questo testo forse per la prima volta .
Il testo di quello che potremmo definire Quaresimale virgiliano o Quaresimale di Enea è attestato, in forma incompleta, in Assisi, Biblioteca del Sacro Convento, Fondo Antico, ms. 557, ff. 105r-138v (utilizzo la sigla A) . Il manoscritto contiene i primi quindici sermoni del ciclo. A metà di f. 136v viene copiato il thema del sedicesimo sermone, lasciando vuoti il resto della pagina e le ultime due carte del quaderno (ff. 137r-138v), segno evidente che per qualche ragione il copista interruppe il suo lavoro.
L’unico breve rimando a questo testo lo si deve alla descrizione del codice fornita da Cesare Cenci nel catalogo dei manoscritti della Biblioteca del Sacro Convento. Cenci riporta l'incipit del primo sermone, indica lo stato incompleto del quaresimale e segnala la presenza di citazioni dantesche, stranamente senza menzionare l’uso preponderante dell’Eneide . Al medesimo studioso si deve l’individuazione del frate minore Filippo d’Assisi (T c. 1435) come probabile copista del sermonario. La grafia di questa e altre sezioni del manoscritto è infatti la medesima di un altro codice del medesimo fondo, dove frate Filippo raccolse gli appunti delle prediche da lui tenute tra 1393 e 1397 in area umbra, mentre era lettore nel convento di Todi, come afferma all’inizio di un nuovo anno academico, probabilmente nel1395 . Anche nel manoscritto 557, accanto a sermoni modello di altri autori , Filippo d'Assisi raccolse gli appunti di alcuni suoi sermoni, tra i quali due ternioni (ff. 175r-186v) che contengono due brevi cicli di prediche tenute tra Avvento e tempo natalizio, uno a Rimini e l’altro ad Assisi. Il primo ciclo è sicuramente databile all’inverno 1414-1415, vista la presenza di una «Collatio facta pro domino lacobo cardinali Utinensi» (ff. 178v-179r), predicata da Filippo a Rimini, dove era lettore , nel tempo di Natale, a breve distanza dalla morte del cardinale Iacopino del Torso . Il secondo ciclo si può probabilmente datare al periodo in cui il frate era custode del convento di Assisi (1418-1421) . È ragionevole ipotizzare che anche il quadragesimale virgiliano sia stato copiato nello stesso torno d’anni, fissando così — in attesa di riscontri più precisi — alla fine del secondo decennio del Quattrocento il termine ante quem per la sua composizione.
L'affermazione con cui si apre il primo sermone — qui pubblicato integralmente in appendice — è seguita da una breve spiegazione su come il predicatore intenda procedere: ricondurrà (reducere) il racconto dell’inferno di Virgilio al Vangelo, facendone — dice — un piccolo sermone, per poi passare alla pericope evangelica del giorno, dalla quale promette di raccogliere un frutto (immagine ribadita in tutti i sermoni), utile a guidare gli ascoltatori verso la vita eterna. Lo schema bipartito permette di presentare anzitutto ciò che va fuggito e poi ciò che attrae verso la salvezza. Se nel concreto sviluppo dei sermoni la distinzione tra la funzione delle due parti non sarà in realtà così marcata, viene ribadito implicitamente come il racconto dell’Eneide — letto in chiave allegorico-morale — serva a impartire un salutare ammonimento, tale da allontanare dal peccato e predisporre al messaggio salvifico, secondo uno schema tipico delle visioni medievali dell’aldilà .
Fornite le coordinate generali, nel primo sermone — particolarmente elaborato nella sua costruzione — si racconta dell’arrivo di Enea al tempio di Apollo e dell’invio di Acate, suo compagno, a chiamare la Sibilla, la quale, dopo avere rimproverato Enea intento a contemplare le immagini all’esterno del tempio, istruisce l’eroe troiano sul sacrificio da offrire prima di essere introdotto nell’antro dove gli verrà dato il responso richiesto . I versi citati al termine del racconto, Eneide VI, 36-41, ripetono l'esortazione della Sibilla a Enea perché non si soffermi a guardare le scene raffigurate sulla porta del tempio ma offra, invece, sette vitelli e sette agnelli in sacrificio. Il predicatore marca il passaggio all’interpretazione allegorica («istam particulam volo moraliter exponi»), ribadendo che seguirà questa modalità per raccordare l’Eneide al Vangelo anche i giorni successivi. Enea diventa così il simbolo di chiunque abbia perso tempo invano; ora invece, per Enea e gli ascoltatori, è il tempo di tornare a Dio (evidentemente, la Quaresima, come sottolinea subito la citazione di due inni liturgici) e la Sibilla — simbolo della divina sapienza — li invita a offrire a Dio un sacrificio adeguato. I sette agnelli simboleggiano infatti la mortificazione degli appetiti sensuali (il sette sta per i cinque sensi più la volontà e la sensualitas), mentre i sette giovenchi sono i sette peccati mortali, da ‘immolare’ a Dio scegliendo di vivere secondo le opposte virtù, così da essere introdotti nel tempio, simbolo della vita eterna.
Il racconto e la sua decodificazione in chiave morale formano, come annunciato, un «succinto sermone». L’interpretazione dell’episodio, se da un lato fa riferimento a elementi portanti della catechesi cristiana, non trova riscontri diretti nelle più diffuse letture allegoriche dell’Eneide. Né Servio, né Fulgenzio dedicano attenzione ai sette agnelli e sette tori . Bernardo Silvestre, nella sua minuziosa analisi di Eneide VI, propone invece una doppia lettura: la prima interpreta i sette agnelli come le sette membra del corpo e i sette tori come i sette movimenti, da controllare e mortificare per potersi concentrare nello studio; la seconda identifica i tori come «septem virtutes carnem vexantes» (astinenza, moderazione, sobrietà, castità, frugalità, modestia, verecondia) mentre gli agnelli sono «septem simplicitatis et mansuetudinis virtutes» legate alla sfera relazionale (innocenza, amicizia, concordia, pietà, religione, affetto, umanità) . Si tratta di un’interpretazione solo lontanamente accostabile a quella proposta dal sermone, in cui il predicatore — nel caso conosca tale commento — sceglie un simbolismo diverso. Va poi notato come l’interpretazione serva a coinvolgere gli ascoltatori nella storia: Enea diventa simbolo di «chiunque tra noi», un noi inclusivo, utilizzato insistentemente, posizionando così predicatore e ascoltatori sullo stesso piano — e all’interno della vicenda raccontata.
La transizione dall’Eneide alla pericope evangelica è costruita abilmente, sottolineando come Cristo stesso nel Vangelo del giorno esorti a compiere tale sacrificio e come, per «offrire e uccidere i sette tori e sette agnelli» menzionati dall’Eneide, non vi sia strumento migliore del digiuno —tema tradizionale del Mercoledì delle Ceneri e, giustamente, indicato come il fructum da raccogliere dalla pericope liturgica. La parte centrale del sermone analizza quattro aspetti: primo, come il digiuno sia stabilito da Dio e quale sia la specificità della Quaresima; secondo, come il digiuno venne imposto già nell’Eden e come, dopo la caduta, esso rappresenti «la porta» per un cammino salvifico; terzo, l’utilità del digiuno; quarto, il modo in cui bisogna digiunare. L’ultima parte in realtà non è marcata nel testo e si fonde con la recapitulatio dove, postillando il testo evangelico, si ribadiscono alcuni degli insegnamenti impartiti.
Là dove alcuni punti del sermone appaiono scarni schemi da arricchire, se necessario, nella performance orale , particolarmente elaborata risulta la parte sul digiuno come porta, cioè inizio, del percorso penitenziale verso la salvezza. Se già il racconto dell’Eneide aveva presentato l’eroe troiano che, dopo aver compiuto i dovuti sacrifici, varcava la soglia per entrare nel tempio, il tema della porta è qui associato ai versi che nella Commedia descrivono l’ingresso alla montagna del purgatorio. La citazione dantesca unisce due momenti ravvicinati di Purgatorio IX: la visione della scala e del guardiano angelico (IX, 76-78); il gesto penitenziale del pellegrino e l'imposizione delle sette P sulla sua fronte (IX, 109-114). I versi di Dante sono presentati ma, a differenza di quelli di Virgilio, non vengono commentati . Il collegamento non è però limitato all'immagine della porta. Gli ascoltatori minimamente familiari con il poema dantesco potevano cogliere facilmente nel simbolismo delle sette P_un riferimento ai sette peccati capitali, già menzionati nella prima parte della predica parlando del sacrificio da offrire a Dio . Inoltre, l’idea di un guardiano di questa soglia è ripresa poco oltre nel sermone. Dopo aver sottolineato come lungo la storia il digiuno sia sempre stato utilizzato come strumento per invocare l’intervento divino (dagli antichi ai saraceni, da Adamo a Mosè ed Elia, fino a Francesco d’Assisi «volens Christi stigmatibus insigniri» ), si torna — attraverso un’icastica frase attribuita ad Ambrogio — alla definizione del digiuno come «porta paradisi».
Il concetto viene drammatizzato e reso ‘visibile’, dicendo che tale porta ha due guardiani, uno a destra e uno a sinistra, sdoppiando in un certo senso l’angelo «portiero» della Commedia. Il primo guardiano raffigura l’umiltà e ha in mano due cartigli, con adeguate citazioni bibliche che ricordano la natura mortale e l’essere terra e cenere dell’uomo , tema immediatamente connesso al rito liturgico delle ceneri, dicendo che con tale guardia «iam fecimus legam» quando il sacerdote ha posto sul capo dei fedeli la cenere in forma di croce, a significare sia il ricordo della morte sia l'invito di Cristo a prendere la propria croce e seguirlo nel tempo di Quaresima. Il predicatore poneva così gli ascoltatori su una sorta di soglia virtuale: avendo già incontrato — anzi fatto lega — con la prima guardia, dovevano ora volgersi verso la seconda. Essa richiede loro una adesione interiore, simboleggiando la «recta intentio cordis ad Deum», la quale da un lato prega con le parole del Salmo 113 (Non nobis, Domine...) e dall’altro esorta chi entra — ovvero gli ascoltatori — a compiere ogni cosa nel nome di Gesù, insistendo, come al termine del sermone, su una sincera adesione al cammino penitenziale.
Il sermone analizzato chiarisce come il riferimento all’Eneide costituisca un tratto fondamentale del quaresimale, non solo nella costruzione della cornice narrativa, ma anche nel fornire la base — o il pretesto — per sviluppare un’interpretazione allegoricomorale che è già parte essenziale dell'insegnamento impartito dal pulpito. Se la modalità di costruire i sermoni e di leggere in chiave spirituale Virgilio richiederà uno studio più approfondito di quanto possibile proporre in questa sede, l’analisi di un altro passaggio permette di evidenziare come l’operazione compiuta risulti tutt'altro che banale.
Il racconto della morte di Miseno (Eneide VI, 149-174) occupa due sermoni. Nel primo, basato sull’annuncio da parte della Sibilla ad Enea che «in sua navi est quidam mortuus qui totam navim maculat fetore», illustra come sia necessario seppellire i vizi che macchiano la Chiesa (simboleggiata dalla nave) prima di accedere alla grazia divina (il ramo d’oro) che permetterà il viaggio nell’aldilà . L'interpretazione morale sottolinea come la Chiesa sia macchiata «diversis vitiis [...] tam a laycis quam a clericis», ricollegando il tema della sua purificazione al Vangelo del giorno, la cacciata dei mercanti dal tempio (Matteo 21.12-17). Pur riconoscendo che ci sono due tipi di mercanti, il predicatore tratterà solo del primo — i laici — perché di coloro che hanno «curam pastoralem» bisogna parlare «cum sobrietate», come mostra Cristo che cacciò i mercanti «cum flagellis», mentre rispose ai sacerdoti «cum mansuetudine» . Stabilito questo, il sermone si incanala verso una discussione di etica economica, legate in particolare al tema dell’usura.
Il sermone successivo presenta la scoperta del cadavere di Miseno, definito «magnus tubator et probus in armis et bonus nauta», il quale «invidia fuit mortuus», venendo affogato da Tritone mentre era intento a suonare la tromba . Il racconto è accompagnato da una doppia citazione dell’Eneide (VI, 161-163 e 171-174), seguita da un’interpretazione in cui, distaccandosi dalla lettura negativa proposta da Fulgenzio e Bernardo Silvestre (Miseno simbolo della lode effimera e della gloria mondana ), il predicatore avanza un’interpretazione cristologica, in cui gli elementi della descrizione dell’eroe troiano trovano riscontro nell’azione di Cristo.
Moraliter iste Misenus, licet non sit digna comparatio, tamen potest hic Christum significare, scilicet dei filium, qui licet primo fuerit comes magnus Ethoris, tamen comes nunc Henee. Ita Christus ante assumptione humanitatis fuit comes eternis patris quia cum patre unus in substantia. Nunc vero est comes Henee, id est est factus sotius per humanitatem omnium peccatorum. Sed huic nullus similis in tubando, in armis et in mari. Nam iste, scilicet Christus, sedavit mare turbatum, quia perambulavit eundem (cfr. Matteo 14.25). Unde de eo dicitur: Quis est hic quia venti et mare obediunt ei? (Matteo 8.27). Item fuit magnus preliator contra demones, quia iste est ille fortis armatus qui venit contra demones expellens eum (!) de domo et de habitattione sua (cfr. Luca 11.21-22). Unde Psalmus: Quis similis tui magnificus in sanctitate, terribilis atque laudabilis et faciens mirabilia? (Esodo 15.11). Iste fuit magnus quia iste est verbum dei terrens peccatores et animans bonos ad preliandi contra vitia et peccata. Et dum iste tubam caneret totumque mundum personaret, Trichon (!) tubator Neptuni , id est scribe et pharisei, tubatores demonum inferni, contra Christum moti invidia, quia sua tuba predicationis contra eorum vitia clamabat, eum in mare mortis misserunt, id est cum amara morte eum interficerunt. Et hoc ostendit Christus in evangelio in exemplo Ione tribus diebus et tribus noctibus fuit in mare, unde dicit: Sicut fuit Ionas etc. (Matteo 12.40) .
In questo modo, Miseno compagno prima di Ettore e poi di Enea diventa figura di Cristo che da compagno di Dio incarnandosi si è fatto compagno dell’uomo peccatore (Enea, con cui gli ascoltatori erano già stati invitati a identificarsi). Ugualmente, con una serie di rimandi biblici e un’abile costruzione a chiasmo, si dice che nessuno superò Cristo nel suonare la tromba, nel combattere, nel dominare il mare: egli infatti, camminò sulle acque, sconfisse i demoni e, in quanto Verbum Dei, spaventò i peccatori ed esortò alla lotta i compagni — come faceva Miseno. La consueta associazione tra predicazione e suono della tromba è ulteriormente sviluppata dicendo che, per fermare Cristo che ne denunciava i vizi, gli scribi e i farisei —i trombettieri infernali, identificati con Tritone — mossi dall’invidia decisero di affogarlo nel mare della morte, immagine questa prontamente ricollegata al Vangelo del giorno dove la vicenda di Giona prigioniero per tre giorni nel ventre del mostro marino era presentata da Gesù come figura della propria morte e resurrezione. Il sermone a questo punto passa alla parte più strettamente didattica, trattando dei sette spiriti che, entrando nell’uomo, lo rendono ostinato nel male (come gli avversari di Gesù nel racconto) e dei tre giorni trascorsi da Cristo nel sepolcro, connessi alla questione dello stato delle anime nell’aldilà .
L'ultimo aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione è la modalità con cui, accanto all'utilizzo costante dell’Eneide, il predicatore si avvale spesso anche della Commedia. Se il primo sermone mostra come i versi danteschi possano essere inseriti nello sviluppo catechetico, in forme non difformi da quelle riscontrabili in altri sermonari dell’epoca, in diversi casi i versi sono invece introdotti a ‘commento’ del racconto dell’Eneide, sfruttando gli effettivi punti di contatto tra i due poemi o costruendo efficaci nessi tra i due testi. Lo mostra bene l’inizio del sermone in cui si narra l’avviarsi di Enea verso l’Ade. I passaggi tra Eneide e Commedia sono ripetuti, cosicché il racconto — in prosa — del sacrificio compiuto da Enea agli dei e del susseguente terremoto (Eneide VI, 236-258) è commentato attraverso la descrizione in versi del terremoto che fa svenire Dante alla fine di Inferno III, per poi tornare immediatamente ai versi con cui la Sibilla esorta Enea a intraprendere il cammino. La descrizione poi del notturno «iter in silvis» dell’Eneide spinge — coerentemente — a citare le due terzine di apertura della Commedia e, solo a quel punto, aggiungere i versi dell’Eneide e avviare la lettura morale di questa discesa agli inferi, percorsa sotto un’incerta e intermittente luce lunare e immagine della vita umana — la dantesca «nostra vita».
Nunc restat dicendi quomodo Heneas facto sacrifitio et diis invocatis venit versus infernum, unde nota quod Heneas secundum preceptum Sibille fecit sacrifitium quatuor thaurorum et unius agni et unius vacche et tunc visa est terra movere sub pedibus eorum et audite sunt voces canum sive ferarum. Unde Dantes tertio infernii:
Finito questo, la buia campagnia
tremò sì forte, che dello spavento
la mente de sudore anchora se bagna.
La terra lacrimosa dedj vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual me vense ciascun sentimento.
Et chaddj como l’omo che sonno el piglia (Inferno III, 130-136).
Tunc Sibilla incepit clamare dicens:
«Procul, o procul este , profani» —
conclamat vates — «totoque sistite luco» (Eneide VI, 258-259).
Et dixit Henee:
«Tuque invade viam vaginaque eripe ferrum» (Eneide VI, 260).
Nunc a vatibus dictis, intraverunt antrum apertum. Erat autem eis tale iter quod ipsi ibant invisa per umbras et ibant per varias domos Plutonis et eorum iter erat tale quale est in silvis per incertam lunam , quando scilicet sunt nebule condempsate quando aliquando apparet aliquando non, sic videbatur illud iter, per quod ibat, quia nec clare videbant, nec omnino in tenebris erant . Et hic incepit Dantes suum opus. Dantes primo canto inferni:
Nel meço del camino de nostra vita
me retrovaj per una selva oscura,
ché la deritta via era smarrita.
Et quanto a dire ella era cosa e dura
questa selvagia aspera e forte
che nel pensiero renova la paura! (Inferno I, 1-6).
Unde dicit Virgilius:
Ibant obscuri sola nocte per umbras
perque domos Ditis vacuas et inania regna:
quale per incertam lunam sub luce maligna
est iter in silvis, ubi celum condidit umbram (!)
Iuppiter, et nox rebus abstulit atra colorem (Eneide VI, 268-272).
Videamus aliquid moraliter: via ista per quam fit descensus ad infernum est presens
vita, qua pervenimus ad mortem [...] .
Lo studio di questo sorprendente testo è appena agli inizi e richiederà una maggiore indagine tanto dei concreti contenuti morali e religiosi sviluppati da questo predicatore, quanto delle modalità di interpretare l’Eneide — e delle eventuali fonti a cui l’autore attinge — e della finalità di uno spregiudicato utilizzo di Virgilio dal pulpito. L’effettiva possibilità di rispondere a tali questioni dipenderà anche, in non piccola parte, dal ritrovamento o meno di una copia completa del Quaresimale di Enea, visto che il manoscritto di Assisi segue solo un terzo del racconto, dall’arrivo dell’eroe troiano in Italia all’incontro con Caronte.
Si possono però fin d’ora indicare due elementi di particolare rilievo in questo testo. Primo, il quaresimale è una precoce attestazione di una nuova tipologia di sermonari costruiti come un unico macro-racconto. A tale altezza cronologica, l’unico caso noto è quello del Quadragesimale peregrini (ante 1420) che, seppure a un livello più sofisticato di costruzione e drammatizzazione del racconto, condivide diversi elementi con il Quadragesimale Enee — dall'idea del viaggio nell'aldilà e della sua valenza didattico-comunicativa, all’utilizzo, in proporzioni invertite, della Commedia e dell’ Eneide , Insieme, questi due testi rendono assai più mosso della vulgata il quadro della predicazione italiana nel passaggio tra Tre e Quattrocento. Non bisognerà infatti aspettare il fiorire e l’imporsi della predicazione di Bernardino da Siena nel terzo decennio del Quattrocento per registrare significative novità e, cosa ancora più importante, un'effettiva ricerca di nuove forme di comunicazione religiosa. Si può anzi dire che lo sforzo del frate senese e della sua scuola contribuì a una dinamica già in atto .
Il secondo elemento che emerge con chiarezza è come questo testo presenti un livello di utilizzo della letteratura classica dal pulpito che non sembra avere precedenti per estensione e per valore strutturante. La stessa idea di predicare seguendo una lectura continua di un testo non biblico è eccezionale, trovando paralleli solo nell’utilizzo — o meglio ‘riscrittura’ — della Commedia nel Quadragesimale peregrini e, quasi un secolo dopo, nelle prediche di Johannes Geiler von Kaysersberg sul Narrenschiff di Sebastian Brant . In questi casi si sfruttavano però testi dall’impianto esplicitamente cristiano, le cui finalità erano conformi (almeno in parte) a quelle della predicazione. Se Virgilio, lungo tutto il medioevo, era stato sentito come autore particolarmente vicino al mondo cristiano, il suo sistematico utilizzo dal pulpito richiedeva una mediazione non scontata . Proprio a inizio Quattrocento, ad esempio, un predicatore di spicco come Vicent Ferrer criticò a più riprese l’uso di Virgilio nelle prediche , mostrando così che la prassi era diffusa e insieme osteggiata. Resta inoltre da valutare quanto giochi l’influenza del primo umanesimo nella scelta di presentare dal pulpito una lettura allegorica di Virgilio in chiave sia morale che teologica. Da un lato l'approccio all’Eneide è finalizzato a un programma cristiano, secondo la prassi medievale di recuperare il mondo classico leggendolo alla luce della fede, come a un livello impareggiabile aveva in definitiva fatto lo stesso Dante . Dall'altro lato, non si può non pensare al vivace, a tratti incandescente, dibattito sull’utilizzo o meno dei testi dei poeti ‘pagani’ nella paideia cristiana e nella predicazione stessa che si svolgeva in Italia proprio nei decenni a cavallo tra Tre e Quattrocento: basti menzionare l’emblematico Lucula noctis di Giovanni Dominici, scritto nel 1405, o le discussioni a seguito della rimozione della statua di Virgilio a Mantova nel 1397 . Rispetto a tale dibattito, consapevolmente o meno, il Quadragesimale Enee rappresenta una fattiva presa di posizione sulla possibilità, utilità e forse attrattiva di reducere Virgilio al Vangelo, facendo dell’Eneide se non un libro sacro, un prezioso strumento catechetico.
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