Dati bibliografici
Autore: Gianni Oliva
Tratto da: Per altre dimore. Forme di rappresentazione e sensibilità medievale in Dante
Editore: Bulzoni, Roma
Anno: 1991
Pagine: 122-126
Nel palcoscenico della selva deserta, mentre risuona la melodia del coro angelico, gli spettatori Stazio e Matelda si accodano al corteo divenendone personaggi-attori e Dante stesso, riguadagnata la perduta in- nocenza, fa parte con essi. L'esperimento della primigenia condizione, della vita rinnovata, il confronto tra l’immobilità meta-storica e la storia, provocano l’inesorabile ricordo della felicità smarrita, a tal punto, che tutte le linee della nostalgia purgatoriale convergono in quel sommesso mormorio venato di accorato rammarico del nome di colui che gettò l’umanità nell’abisso del peccato:
«Io senti’ mormorare a tutti ‘Adamo’»
(v. 37).
È il rimpianto della perfezione originaria che, sfaldatasi con l’atto di disubbidienza, ha fatto l’uomo protagonista della sua tormentosa avventura terrena, fino a rendere necessario l'intervento dell’infinita misericordia di Dio che lo ha riscattato abbracciando la sua miseria e morendo per lui. L’autobiografia dantesca si proietta ora sul destino dell'umanità intera e la simbologia che infittisce questi passi del poema investe la sua struttura morale e politica predisponendo il fine ultimo di esso, il vagheggiato indiarsi della creatura nel Creatore, il realizzarsi della libertà teologica.
La «pianta dispogliata», intorno a cui si radunano in cerchio i partecipanti alla mistica sfilata costituisce il segno accentratore del resto del canto, il riferimento principale degli avvenimenti successivi, nonché il motore per l’individuazione semantica degli altri segnali. Consapevole dell'importanza dell'albero dall’incredibile altezza, che presenta funzioni biologiche capovolte (le sue radici traggono alimento dalla cima), la tradizione esegetica ha sperimentato vie diverse fecondando la discussione e creando un terreno mobile di ipotesi, peraltro non sempre proficuo per il diradamento della crux. Del resto, le divergenze nascono proprio dalla difficoltà d’immedesimarsi nella mentalità medievale, la quale poggia su un «realismo» di altra connotazione da quello radicato nella cultura moderna. Lo sforzo tuttavia va rivolto in particolare a cogliere la rapidità che in Dante, uomo del Medio Evo, si instaura tra pensiero e simbolo, senza perdere di vista il significato degli oggetti comune all’epoca e le riflessioni ricavabili dal contesto stesso delle opere dell’autore.
Stando ai quattro sensi delle scritture, di cui Dante discorre nel Convivio (II, 1), l'enorme pianta v’identificherebbe innanzitutto, seguendo il senso letterale (il quale «dee andare innanzi, siccome quello nella cui sentenza gli altri sono inchiusi») con l'albero della Genesi (II, 10-17) proibito all'uomo: «Tu puoi mangiare liberamente di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiare! poiché il giorno in cui ne mangiassi, di certo morresti». Da siffatta premessa va da sé che il senso morale coinciderebbe con la giustizia divina, giacché il linguaggio figurato della Bibbia insegna come la proibizione fosse una prova a cui Dio sottopose la sua creatura per stimolare in essa l’atto di riconoscimento della propria autorità (è implicito che il divieto tendesse a impedire che l’uomo attivasse autonomi parametri di moralità, di discernimento del bene e del male). È noto infatti che nel canto seguente Beatrice indicherà esplicitamente tale senso: «La giustizia di Dio, ne l’interdetto | conosceresti a l’arbor moralmente» (Purg. XXXIII, 70-72) .
Più complesso è, in apparenza, lo scioglimento del senso allegorico, ma a riguardo è forse confortante ricorrere alla diffusa simbologia medievale dell’albero. Non a caso Huizinga poteva apportare tra gli esempi correnti di sintesi analogica e di mentalità «genetica» del tempo l’immagine più in uso per esprimere la concezione del mondo come evoluzione: «La derivazione di una cosa da un’altra – scriveva – era [...] concepita nella forma ingenua della propagazione diretta o della ramifazione, ed era applicata alle cose dello spirito soltanto secondo deduzioni logiche. Queste si concepivano di preferenza come genealogie o alberi ramificati: [...] un arbor de origine juris et legum ordinava tutto ciò che riguardava il diritto nell'immagine di un grande albero» . Sul diritto o complesso delle leggi si fonda l'Impero con cui è regolata la vita dell'umanità.
Giungendo, infine, al senso anagogico, che costituisce – come è stato dimostrato – la struttura portante della Comedia, non è fuori luogo far coincidere la «pianta» con il fusto dell'umanità, la quale deriva da Dio (da ciò le sue radici nei cieli superiori). Quest’ultimo è il senso predominante del canto, che adombra la storia del genere umano e dei rapporti tra le istituzioni che lo guidano: la pianta è «dispogliata» all’origine, cioè dopo il peccato di Adamo, fino a quando la venuta del Salvatore, che congiunge l’azione dell'Impero e della Chiesa, non produce il suo rinnovellarsi. Di qui le lodi al Grifone che si è prodigato per l’umanità rispettando la giustizia di Dio; lodi a cui la frase «Sì si conserva il seme d’ogne giusto» non suona come una risposta, bensì come preludio dell’atto seguente (una prova sta nella congiunzione all’inizio del v. 49: «E volto al tempo ch’elli avea tirato»), con cui Cristo, riconoscendo lo jus naturale, sposa l'Impero con la Chiesa. In tal modo ogni uomo, rispettando l’autorità temporale e spirituale, renderà ossequio alla giustizia di Dio.
Questa, a nostro avviso, la lettura provocata dalle immagini che Dante consegna al testo, in cui le diverse sfumature dei sensi giocano un ruolo intercambiabile, quasi di sovrapposizione momentanea, ma pur sempre riconducibile all’unica piattaforma dell'albero come fusto del genere umano. L’utilizzazione di un unico senso per la «pianta» (sia esso quello della giustizia divina dell’Impero, del Diritto, dell'albero biblico) soddisfa solo in parte l’interpretazione dei fenomeni nella loro globalità. Qualche esempio può essere sufficiente: se l’albero raffigura tout court la giustizia divina, come voleva il Nardi , in che modo si spiega il suo rifiorire, dato che la giustizia, in quanto entità sovrannaturale, è sempre identica a se stessa? Ugualmente dicasi per la tradizione esegetica D’Ancona-Parodi , che sostenne l’ipotesi dell’albero-Diritto: in questo caso, non sarebbe forzato motivare la Redenzione (e quindi il rifiorire) solo nell’ottica del sancire lo jus naturale? È inoltre, non coinciderebbero i due significati dell'albero e dell'aquila? Troppo sottile riteniamo infatti la distinzione di albero come Monarchia Universale e di aquila come impero storico proposta dal Parodi .
Il conglobamento delle risultanze semantiche sembra, quindi, l’unica via praticabile nell’intricato sistema simbolico dantesco; soluzione a cui sono giunti di recente anche il Chierici e il Mazzacurati , il primo, anzi, in modo più preciso del secondo, avendo quest’ultimo for- nito una lettura semplificata del canto, volutamente spoglia dalle cruces: «non certo per accantonarle per sempre o per negarne la funzione, ma per ricercare innanzitutto, dietro di loro, una dimensione poietica e ideologica che corrisponda ad un nucleo più profondo e più lineare, tale da consentire poi una ricostruzione organicamente deduttiva, dal centro alle significazioni esterne, meglio saldata e articolata intorno ad un suo perno conoscitivo ». La semplificazione tendeva a riconnette- re le sfaccettature del XXXII intorno ad un unico motivo centrale, la contrapposizione tra Natura e Storia, cioè la «dialettica morale» fra il mondo dell'Eden, fisso ed immobile, e quello movimentato della storia; insomma, «tra la realtà naturale del mondo, prima e dopo il peccato» . Una motivazione che illumina lo stato di cose dell'Eden, ma che, eludendo i dettagli, risulta parziale e necessitava d’essere completata.