Dati bibliografici
Autore: Karl Vossler
Tratto da: La "Divina Commedia". Studiata nella sua genesi e interpretata. La genesi letteraria
Editore: Laterza, Bari
Anno: 1983
Pagine: 209-229
Sarebbe ora nostro compito raccontare la storia letteraria delle visioni allegoriche, ossia profane, nel suo insieme logico. Ma un insieme logico, uno sviluppo ben determinato non è meno impossibile a trovarsi qui che nella letteratura delle visioni religiose.
Come l’apocalittica, anche l’allegoria è per sua essenza estetica condannata all’imperfezione. Ciò che impedisce all’apocalittica di divenire arte pura è l’attitudine passiva della fantasia, la quale riceve bensì le imagini, ma non ha l’ardire di conformarle a seconda delle sue proprie leggi. L’artista apocalittico trovandosi sotto la pressione religiosa, stima troppo poca cosa le proprie forze poetiche e se ne vale con esitazione, parzialmente cioè, ed inconsciamente. Nell’allegoria al contrario la poesia viene stimata più del giusto, onde se ne fa abuso, costringendola a servizi che non le sono propri. Concetti scientifici ed idee astratte, atti solo per loro natura ad esser logicamente pensati, non già manifestati artisticamente, l’allegorista imprende ad elaborarli. A valori che la filosofia ha esplorati e delimitati, come virtù, scienza, natura, destino, caso, bellezza ecc., egli crede dare un corpo mentre li personifica, li fa precedere cioè dall'articolo determinativo, getta loro intorno una mantellina dai vivaci colori e pone loro fra le mani alcuni simboli facilmente riconoscibili. In breve l’allegorista obbliga la lingua figurativa dell’arte a salire su nel regno della scienza, ove, al cospetto della cosa stessa, ogni figura di essa impallidisce e sfuma.
L’apocalittica giace per così dire, troppo in basso, al di qua dell’arte vera, l’allegoria troppo in alto, al di là. Quella è paralizzata dall’estasi e. dall’ebbrezza, questa dalla frigidità. Nell’una l’anima è ancora troppo bollente, nell’altra già troppo fredda, per piacere alle Muse.
Quindi, se pure la storia dell’arte può esser concepita come un corso normale e razionale, l’apocalittica sarebbe da intendere come l’impacciato preludio di uno svolgimento artistico che comincia, l’allegoria come l'inutile prolungarsi d’uno già chiuso. Infatti, l’apocalittica si presenta a noi come preparazione della fioritura artistica cristiana, l’allegoria come ripetizione vuota dell’arte classica già morta. La poesia ‘ allegorica d’un Prudenzio, Capella, Alano ecc. è una accolta di forme pagane senza la concezione pagana del mondo, classico paludamento che non ricopre muscoli, fiore di carta ellenico-romano. In una parola, è arte da filologi.
Per noi quest’arte da filologi ha valore soltanto come scuola, tradizione conservatrice ed esercizio, non come poesia. Gli allegoristi si pongono così allo stesso livello coi maestri, grammatici e retori del Medio-Evo che cominciarono aridi e pedanti, e di- vennero poi a poco a poco umanisti pieni di slancio.
Certo, dalla filologia all’umanesimo il passo è grande, e la trasformazione quasi incredibile. Gli è che la storia delle origini dell’umanismo non è affatto chiarita a sufficienza; non è dessa infatti semplicemente una storia di lavoro filologico; e nemmeno è la storia di una rivoluzione del Paganesimo contro il Cristianesimo; ma è assai più dell’una e dell’altra. Le radici più profonde dell’umanesimo stanno in un superamento mistico, ossia più o meno ingenuo, in- cosciente e sentimentale del contrasto fra l’Antichità ed il Cristianesimo.
La venerazione per le personalità eticamente eminenti fu in ogni tempo un bisogno del devoto cristiano. L’etica della fede di Gesù e di Paolo apostolo, così serena e pratica, non ha mai cessato di agire anche là ove dominava l’etica dogmatica ed intellettualistica della Chiesa. Si può riconoscerne le tracce in Agostino, negli Agostiniani, Vittorini e Francescani, e specialmente presso le molte sette eterodosse del Medio-Evo (Valdesi, Arnoldisti ecc).
Una interna tolleranza — per quanto costretta a nascondersi di fronte all’intransigenza degli ortodossi — vi fu sempre, anche nel Medio-Evo. Più d’un’anima silenziosa e fine era abbastanza aperta e larga di cuore per accordare anche ai pagani, una certa santità, purché fossero puri di costumi e d’alto carattere. Uomini nobili come Catone, Virgilio o Traiano, Platone, Aristotele o Cicerone erano venerati ed amati: e forse dalla pietà popolare e laica più intimamente che non dai dotti, istruiti e paralizzati dalla teologia. Adunque la vera rinascenza, fresca e non filologica, cominciò col culto etico degli eroi morali dell'antichità, non già con un culto estetico dei creatori artistici e linguistici. Coloro che prima liberarono e risvegliarono l’antichità furono mistici, e grandi amatores . Solo a miracolo compiuto vennero alla lor volta i filologi e doctores. Purtroppo mancano ricerche abbastanza larghe da seguire l’umanesimo nascente nei suoi contatti cogli Agostiniani, Francescani, Arnoldisti e con tutti i precursori della Riforma attraverso il Medio-Evo .
Una tale ricerca avrebbe forse per effetto di farci meglio conoscere il significato e le vicende delle interpretazioni e delle forme di arte allegorica. Se si considera infatti con quanto impegno, in Italia e meglio ancora nel più ingenuo nord d'Europa, monaci laici ed eretici, uomini tutti ardenti di fede, s’adoprassero per purificare de’ suoi peccati l’antichità, riuscendo a fare di Virgilio un profeta od un mago, di Ovidio un maestro di costumi, dell’ Ades un Inferno, dell'Olimpo un Paradiso, di Orfeo e di Apollo dei Redentori, dei carmi d’amore oraziani canti ecclesiastici cristiani; se si considera come i più zelanti d’essi pregassero sulla tomba d’Ovidio quasi fossero in un luogo sacro, e, mezzo pii e mezzo insensati, stimassero Catone, Seneca, Plinio, Stazio, Traiano dei cristiani; se si considera quanta edificazione provassero nell’ammirare l’umanità e la grandezza di quegli antichi e delle loro opere, senza troppo curarsi delle condizioni storiche reali, con quanta gioia cercassero gli elementi comuni tra sè e quei magnanimi, disinvoltamente obliando gli eterogenei, — si può ben capire come nel Medio-Evo accanto ad un umanismo spontaneo, cieco d’amore, esistesse un’allegoria senza critica perché ebbra di sentimento; dal qual entusiasmo infantile nacque poi, come da premessa necessaria, l’umanismo critico e la cosciente interpretazione allegorica formalistica col suo bagaglio di operacce.
Tutto quello che non può venir compreso e ammorbidito in tal amabile maniera mistica e lirica, — l’intera, aspra realtà del mondo antico cioè, — è lasciata ai filologi, grammatici e retori. Poiché la Chiesa si mantiene indifferente od ostile dinanzi ai tesori formali della classicità, essi, loro custodi naturali, adoprando consciamente l’interpretazione allegorica, salvano, col sacrificio dello spirito pagano, almeno la bellezza formale esteriore. Incapaci di dissimularsi, costretti dal pensiero critico, il distacco tra antichità e cristianesimo, sentito pur da loro talvolta come un doloroso abisso, lo livellano sistematicamente col compromesso dell’allegoria.
Non sempre, ma assai spesso s’incontravano nella stessa persona l’amore cieco e ingenuo dell’antichità con quello dotto e critico. Nasceva allora quella mancanza di unità, quella discrepanza interiore, quel dualismo delle coscienze che nella poesia allegorica ci appare come oscurità ora della materia ora dell’arte. Verso la fine del Medio-Evo il numero degli uomini così divisi e disgregati cresce terribilmente, e di pari passo aumentano le allegorie.
Il massimo, ed in certo senso ultimo rappresentante di questa doppiezza è il Petrarca, nella cui anima l’intima oscillazione divenne lotta aperta fra Virgilio ed Agostino, fra umanismo e misticismo. Con lui il dualismo latente erompe alla luce; onde egli diventa il magistrale cantore del cuore diviso, «dell’inquieta alternativa fra l’ebbrezza dei sensi e la pace dell’anima».
Ma nell’epoca predantesca gli spiriti dei poeti e dei dotti ondeggiavano ancora tra l’indecisione e il compromesso.
Dant sibi turpiter oscula Jupiter et schola Christi
lamentava, verso la metà del XII secolo, un poeta ecclesiastico .
Già nell’arte greca e romana antica, dovunque la negazione platonistica dell’arte libera e pura dominò le coscienze, s’introdusse l’allegorismo. Così, qua e là, in Virgilio, Apuleio, Cliaudiano e molti altri . Ma la prima ed ultima allegoria pagana di carattere generale furono le «Nozze della Filologia e di Mercurio» di Marziano Capella (principio del V secolo d. C.); analisi erudita del vecchio Olimpo, prosaica sminuzzatura delle forme dell’arte antica.
Tutte le personificazioni delle scienze o delle sette belle arti, che troviamo nella poesia, nella pittura e nella plastica medievali, risalgono più o meno immediatamente a Marziano Capella. Solo nelle rappresentazioni della «Philosophia» la figura imaginata da Capella venne ricacciata nell'ombra da quella di Boezio (nella Consolatio). Ma Dante, che difficilmente avrà conosciuto Capella, disprezzò queste rozze personificazioni. La rappresentazione allegorica della Filosofia, della Retorica, del Diritto ecc. che Dante ci ha data in alcune canzoni erudite, è meno sensibile, meno materiale e pittoresca, più sbiadita come apparizione, ma tanto più viva come moto spirituale, La descrizione esteriore si è approfondita sotto la influenza del dolce stil nuovo fino a divenir caratteristica interiore. Gli emblemi ed i vestimenti dei concetti personificati sono costituiti dall'espressione del loro viso, dalla luce degli occhi o dal sorriso delle labbra.
Nella sfera dell’arte antica (questo insegna l’esempio di Capella) l’allegoria conduce in ultima analisi alla deficienza formale ed alla prosa. Nella sfera della civiltà cristiana, non potendo distruggere il già distrutto, l’allegoria serve a raccogliere ed a conservare i frammenti morti. Così ad esempio nella famosa Psicomachia di Prudenzio (fine del IV secolo) vien data alle descrizioni ed a tutto l’apparato formale esteriore, un’importanza assai più grande che non gli concedesse il Capella. Ciò che un allegorista pagano come Capella disprezza, un allegorista cristiano come Prudenzio raccoglie colla massima cura.
Come Capella per la personificazione delle scienze, così Prudenzio venne assunto a modello per quella delle virtù. Dante non lo deve avere conosciuto, ad ogni modo non l’ha utilizzato; le sole personificazioni morali, che abbiano qualche importanza in Dante, sono Fortuna e Povertà; l’una disegnata secondo Boezio ed Henricus Pauper, l’altra in armonia colle tradizioni francescane.
Persino il poema allegorico più celebre e più splendido del Medio-Evo, l’Anticlaudianus di Alano di Lilla (fine del XII secolo) è rimasto estraneo al nostro poeta .
Tanto insignificanti sono, in confronto alle creazioni dell’arte simbolica ed apocalittica, quelle dell’allegorica! All’allegoria non era dato di produrre nulla di vivo. Il suo compito ed il suo significato nella storia dell’arte non consistevano già nel dar vita a nuove forme, sì nel conservare, salvare e tramandare le antiche. Quanto più fedelmente custodiva queste ultime, quanto meno le alterava, quanto più —rinunciando alla libera creazione, — limitavasi a raccogliere, o vuoi anche ad interpretare il dato, — tanto meglio rispondeva alla propria missione.
Infatti, l’allegorismo, in quanto è compilazione e processo interpretativo, ha reso notevoli servizi alla costruzione della Commedia.
Dovunque due o più autorità contrastanti, vuoi nel campo religioso-filosofico, vuoi in quello morale od artistico, devono esser accettate senza riserva e pur tuttavia conciliate fra loro, ecco che l’allegoria può giovare. Così gli stoici hanno raccolto sotto il manto dell’allegoria, e cioè riaccostati in pacifico parallelismo, filosofia e fede popolare; così ha fatto Filone per la scienza greca € la religione ebraica, così i padri della Chiesa per l’antico ed il nuovo Testamento.
A noi interessa qui un genere solo di allegorismo, cioè quello che ha posto a confronto fra loro le due grandi autorità estetiche del Medio-Evo — l’ideale artistico antico, con i suoi dei e i suoi eroi, i suoi miti, le sue leggende, le sue storie meravigliose, le sue favole — e la poesia biblica, profetica, apocalittica, e sforzandosi di assicurarne l’approssimativo equilibrio.
Un primo passo in questo senso lo avrebbe fatto già Costantino il Grande, colla sua interpretazione allegorica della quarta ecloga di Virgilio. Ma la spinta più notevole verso la conquista delle creazioni dell’arte pagana, si deve a Fulgenzio (fine del V secolo) colla sua spiegazione astratta dei miti e dell'Olimpo greco-romano (Mithologicon) e col suo scritto sul contenuto di verità dell’Eneide (Virgiliana Continentia). Seguono numerose altre spiegazioni ed analisi allegoriche, moralizzazioni e spiritualizzazioni di opere di arte pagana, di origine classica ed orientale. Oltre a Virgilio vengono di preferenza interpretati in senso soprasensibile e cristiano Ovidio e gli autori di favole e di novelle.
In raccolte dei detti notevoli (Florilegia) e di avvenimenti istruttivi del passato (Exempla e Gesta) il fine edificante e morale congiunge al sacro il profano. Soltanto sotto la protezione dell’allegoria, e solo in qualità di docile illustrazione all’arte chiesastica poteva farsi avanti un’arte profana .
Nella storiografia universale del Medio-Evo si svolge ben presto, come una delle forme rappresentative più importanti, il parallelismo allegorico. Inventore di questo procedimento è Paolo Orosio. Nelle sue Historiae adversus paganos (418) Orosio vuol dimostrare un legame mistico ed una forma di processo simmetrico o parallelo fra la storia della dominazione babilonese, quella romana e quella del Cristianesimo. Egli suggerisce così l’idea d’un parallelismo pagano-cristiano. Dante s’è giovato largamente di Orosio, prendendone a prestito proprio i principi fondamentali di questa mistica filosofia della storia fondata sul simbolismo numerico . In concordanza quasi letterale con Orosio egli insegna, Gesù Cristo esser nato nello stess’anno in cui Cesare Augusto per la prima volta largiva la pace al mondo. Con questa non fortuita coincidenza fra l’apice della storia romana ed il principio della cristiana, i due svolgimenti della storia, profano e religioso, vengono a disporsi parallelamente per il passato come per il futuro.
In Orosio però questo parallelismo si realizza soltanto come principio della storia, non già come forma di essa. Come tale lo troviamo invece nella più celebre storia biblica del Medio-Evo, la Historia scolastica di Petrus Comestor (metà del XII secolo). In parte per amore di ordine cronologico, in parte per dilucidazione spirituale, molti avvenimenti della storia profana vengono qui introdotti nel corso della storia biblica e le stanno accanto, ora come pietre miliari, ora come esempi analogici di quella. Può darsi che anche quest'opera, divenuta più tardi modello a molte altre, sia giunta a conoscenza del nostro poeta.
Nelle arti figurative dell’occidente l’uso di accoppiare figure pagane e figure bibliche diventa comune piuttosto tardi, e in massima dopo la divina Commedia. Tutt’al più il nostro poeta poteva scorgere esempi di tal genere in illustrazioni di libri, in pavimenti di chiese italiane, in capitelli . Non si può con sicurezza decidere se simili imagini gli siano passate veramente davanti agli occhi come modelli per la sua «contrapposizione delle allegorie e personificazioni delle virtù e dei vizi e dei tipi che li illustrano, nel mondo pagano e nell’ebraico» .
Poiché il principio della giustapposizione erasi affermato e giustificato filosoficamente; poiché era penetrato nella letteratura ed in parte nell’arte dell'oriente e dell’occidente cristiano; poiché infine si era dimostrato particolarmente utilizzabile in opere di carattere enciclopedico, non si può che trovarne naturalissima l’applicazione in un poema di erudizione universale come la Commedia .
Se questo parallelismo si meccanizza e si priva di contenuto ideale, si deforma e diviene sincretismo. In tal forma era più spesso diffuso nell’arte bizantina e, come abbiamo visto, in Italia. Giacché, in Italia come a Bisanzio, mancava anzitutto quel senso del profondo contrasto fra coltura ecclesiastica e coltura profana che l’allegoria era appunto chiamata a risolvere. Poesia allegorica e pensiero allegorico, da lungo tempo diffusi in Francia ed in Germania, presero in Italia un certo slancio solo nel XIII secolo; si imitarono allora il poema di Alano e il Romanzo della Rosa.
Ma verso la stessa epoca l’allegoria aveva di già compiuta la sua missione nella storia dell’arte. L’arte profana dei laici, dei Vaganti, dei giullari, dei cavalieri, e finalmente anche dei grammatici ed umanisti s’era rafforzata fino ad assumere un valore indipendente. La bellezza formale dei classici cominciava a spogliarsi del manto protettore dell’allegoria. La quale diventava a poco a poco superflua: cessava di essere una forma di pensiero opportuna e quindi necessaria: e cominciava a degenerare e a decadere.
Da un lato essa decade in una assoluta deficienza formale, come in Brunetto Latini od in Francesco da Barberino, dall’altro sì risolve in un gioco ozioso e si perde negli effeminati riboboli dei rhétoriqueurs francesi del XV secolo; — oppure, assieme coll’arte apocalittica e simbolica, si fonde in una forma del tutto nuova ed originale, nella divina Commedia.
Aver superato e congiunto le due forme imperfette dello stile visionario medievale: quella religiosa, simbolica e mistica della Apocalisse e quella profana, moralizzante ed intellettualistica della Allegoria; ecco nella storia dell’arte il significato della Commedia, la quale a questa duplice vittoria deve l’internazionalità del suo valore artistico.
Ma come avvenne, che questo problema artistico, che era internazionale, anziché nella poesia Mediolatina venisse risolto in una poesia nazionale, e proprio nell’italiana?
Non mancava certo fuori d'Italia la poesia apocalittica ed allegorica. Anche quel tollerante ed evangelico amore dell’antichità, quella generosa e mistica moralizzazione del patrimonio classico non eran certo meno sentiti, anzi lo eran forse di più in Germania ed in Francia che non in Italia. E in Dante stesso l’umanismo mistico non si è forse espresso nella internazionale prosa latina, proprio nel secondo libro del De Monarchia? E poi, i presupposti dei due stili, apocalittico ed allegorico non sono forse fondati nel settentrione ben più profondamente, e da più tempo, che in Italia?
Certo! Eppure un moto potente, intimamente popolare, si è impossessato, più tardi bensì, ma tanto più vivacemente, dell’animo italiano, come il vento di primavera, che soffia sì dal nord, ma si riscalda soltanto sotto il classico cielo d’Italia. Qui, e qui soltanto i semi disseccati della antichità classica si ridestano in fiori succosi. Tutto si rinnova nell’ Italia del XIII secolo. Gli ordinamenti sociali diventano democratici, la pietà si fa infantile, la Chiesa si fa mistica, il Dogma si fa filosofico, la scienza umanistica; persino il vecchio stile biblico della profezia e della rivelazione non può sottrarsi a questo primo rinascimento. Negli scritti dei Gioachimiti e dei Francescani l’apocalittica subisce una trasformazione inaudita, stranissima. A motivi pagani, celtici e specialmente romani, a reminiscenze troiane e greche si mescola lo stile giudeo-cristiano dei nuovi profeti e veggenti. Merlino e la Sibilla diventano autorità in materia religiosa: storia leggendaria e storia prammatica dell’antichità appaiono in veste cristiana: presente ed avvenire si nascondono dietro una terminologia e fraseologia mezzo classica e mezzo biblica. Si forma così una dizione indescrivibilmente composita, ma per gli animi dell’Italia d’allora certo altamente suggestiva.
Udite ad esempio che cosa diventa la guerra di Troia nel basso latino delle profezie ioachimitiche: «Sudoris opus aggredimini, o Danay, sollicitudinis et cruoris, donec X pedes premensurati discurrant, Ylion depereat, Laumedontidis proienies evanescat, preda redeat ad Atridem. Precedetsiquidem sanguinis effusio inestimabilis Danaumque exanimatio, Frigiorum audacia, donec dolor impudicus Pellidem urgeat, duos leones Laumedontides fortissimos virtute prosternat; fietque Frigiis animorum debilitatio, donec virginalis concupiscentia Eacidem afficiat et enervet».
Dell’Imperatore Federico II è detto nella stessa profezia:
«Et veniet aquila habens caput unum et pedes LX, cuius color sicut pardi, pectus sicut vulpis et cauda sicut leonis, ed dicet: «pax», ut pacifice capiat. Mamillis sponsae agni lactabitur, usque dum accrescat ei caput maius in Eneaden terciumque minus, eruntque sibilantia a Germanicis usque Tyrum» ecc . Che simili profezie joachimitico francescane siano state lette da Dante, e più o meno esattamente imitate nelle profezie del Veltro e del Dux, non può quasi più porsi in dubbio .
Anche lo stile, onde nel sesto canto del Paradiso ci viene esposta la storia dell’impero romano, congiunge in modo analogo alla solennità della profezia il pathos dell’epopea classica. La lingua degli imitatori di Gioachino da Fiore ci si presenta qui elaborata in uno squarcio d’eloquenza, che in bocca all’ imperatore Giustiniano diventa una tirata mistico-patetica, epico-profetica, biblico-classica.
Perché tu veggi con quanta ragione
Si move contr’al sacrosanto segno
E chi’l s’appropria e chi a lui s’oppone.
Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
Di reverenza; e cominciò da l’ora
Che Pallante morì per darli regno .
Tu sai ch'el fece in Alba sua dimora
Per trecento anni e oltre, infino al fine
Che i tre e tre pugnar per lui ancora .
E sai ch’el fè dal mal de le Sabine
Al dolor di Lucrezia in sette regi,
Vincendo intorno le genti vicine.
Sai quel che fè, portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
Incontro a gli altri principi e collegi;
Onde Torquato e Quinzio che dal cirro
Negletto fu nomato , e i Deci e’ Fabi
Ebber la fama che volentier mirro.
Esso atterrò l'orgoglio de li Arabi,
Che di retro ad Annibale passaro
L’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott’esso giovanetti triunfaro
Scipione e Pompeo; ed a quel colle
Sotto ‘l qual tu nascesti parve amaro .
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
Redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fè da Varo infine al Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna,
E ogne valle onde ’l Rodano è pieno.
Quel che fè poi ch’elli uscì di Ravenna
E saltò Rubicon, fu di tal volo,
Che nol seguiteria lingua nè penna.
In ver la Spagna rivolse lo stuolo,
Poi ver Durazzo, e Farsalia percosse
Sì ch'al Nil caldo si sentì del duolo .
Autandro e Simoenta, onde si mosse ,
Rivide e là dov’ Ettore si cuba;
E mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da onde scese folgorando a Juba;
Onde si volse nel vostro occidente,
Ove sentia la Pompeiana tuba.
Di quel che fè col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l'inferno latra,
E Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra,
Che, fuggendoli innanzi, dal colubro
La morte prese subitana e atra.
Con costui corse infino al lito rubro;
Con costui puose il mondo in tanta pace,
Che fu serrato a Jano il suo delubro.
Ma ciò che’l segno che parlar mi face
Fatto avea prima e poi era fatturo
Per lo regno mortal ch’a lui soggiace,
Diventa in apparenza poco e scuro,
Se in mano al terzo Cesare si mira
Con occhio chiaro e con affetto puro;
Chè la viva giustizia che mi spira
Li concedette, in mano a quel ch'i’ dico,
Gloria di far vendetta a la sua ira .
Or qui t’ammira in ciò ch'io ti replico:
Poscia con Tito a far vendetta corse
De la vendetta del peccato antico .
E quando il dente longobardo morse
La Santa Chiesa, sotto alle sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Una così mistico-umanistica e romantico-classica glorificazione dell’impero romano, al principio del XIV secolo, non è concepibile che in Italia. In Germania od in Francia, di fronte ai soggetti antichi il poeta volgare era costretto a trattarli per via d’allegoria, oppure, come ad esempio aveva fatto Benoît de Sainte More, a travestire gli eroi classici da cavalieri e ad atteggiarli in pose da romanzo: in breve, doveva trattare l’antichità o dottrinalmente, cioè in forma arida e prosaica, oppure servirsene per divertire il pubblico, parlandone frivolmente, da cortigiano.
Certo, anche in Italia ed in Dante stesso non mancano tracce di una concezione allegorica , né quelle di una concezione romanzesca e romantica dell’antichità. I così detti Conti di antichi cavalieri, i Fatti di Cesare, la Historia Troiana, il Fiore di Filosofi e simili appartengono assolutamente alla letteratura amena. Ma sono opere ricalcate su modelli. francesi, non rispondenti al modo di pensare italiano. Sono merce d’importazione.
Avanzi di simili romanzi e leggende si trovano qua e là persino nella Commedia. Fra i voluttuosi dell’Inferno abbiamo le
donne antiche e i cavalieri.
Achille e Paride stanno accanto a Tristano, Didone e Cleopatra presso Francesca da Rimini. I poeti e i saggi dell’antichità abitano in un castello medievale, circondato di sette mura, simboleggianti le sette arti liberali. In breve, l’anacronismo gotico è rappresentato a sufficienza.
Che nella filosofia della storia e nell’etica dantesca il valore proprio dell’antica coltura sia conosciuto solo in modo parziale ed incompleto, l'abbiamo osservato da un pezzo. Ma ciò che allora poteva sembrarci un difetto, ora, nel campo dell’arte e della poesia, si rivela un pregio. La coscienza tranquilla e sicura colla quale Dante s’immerge nell’antichità pagana senza lasciarsi amareggiare l’utile godimento dello studio dal benché minimo scrupolo, quel suo amore imperturbabile per il mondo del suo Virgilio e d’Aristotele, gli rende superflua ogni allegoria e lo abilita ad afferrare e ridare artisticamente nella Commedia la propria fisionomia dell’antichità.
Chi legge la descrizione dell’Eliso, deve involontariamente pensare ai quadri più luminosi dell’alto Rinascimento, al Parnaso di Raffaello ed alla Scuola d’ Atene.
…
Venimmo in prato di fresca verdura.
Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
Di grande autorità ne’ lor sembianti:
Parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da l’un de’ canti,
In luogo aperto, luminoso e alto
Sì che veder si potean tutti quanti.
Colà diritto, sopra ’l verde smalto,
Mi fuor mostrati li spiriti magni,
Che del vedere in me stesso n’esalto.
…
Vidi ’l maestro di color che sanno
Seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
Quivi vid'io Socrate e Platone
Che ’nnanzi a li altri più presso li stanno .
Le vicende di Ulisse sono tessute, sì, in forma medievale e leggendaria; ma si ascolti il discorso infiammato di questo avventuriero, che dimentica ‘la dolcezza di figlio, e la pietà del vecchio padre, e il debito amore’ e trascina in «folle volo» i suoi uomini sull’oceano inesplorato:
«O frati, dissi, che per cento milia
Perigli siete giunti a l'occidente,
A questa tanto picciola vigilia
De’ nostri sensi ch'è del rimanente,
Non vogliate negar l’esperienza
Diretro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e canoscenza .
Quanti non hanno pensato, a questo punto, a Cristoforo Colombo! Come mai una tale voce, chiara, nobile, libera e universalmente fresca avrebbe potuto farsi sentire nel giorno oscuro che ci avvolge quassù, nel nostro settentrione cristiano-germanico, così eminentemente morale? Possiamo arrabbattarci fin che vogliamo, per noi l’antichità classica sarà sempre qualcosa d’imparaticcio e di inculcato. E, poiché siamo bravi scolari, sorge anche in noi talvolta un discreto entusiasmo ed uno slancio sufficiente per codesta tradizione. Ma gli italiani non hanno bisogno di simili sforzi e slanci. Essi hanno tutta l’antichità in casa, nel sangue; non hanno bisogno di conquistarla o di salvarla per via di allegorie, di simboli o di romanticismo, e neppure con artifizi morali od artistici. La succhiano calda e dolce col latte materno.
Epperò anche nel secolo loro più religioso e cristiano e medievale, che fu appunto il XIII, tutto, profezia ed apocalittica compresa, si trasforma in eloquenza romana ed acquista un classico splendore.
Il contenuto ideale del cristianesimo e delle dottrine dell’oltretomba non poteva pertanto venir tradotto in forme chiare, evidenti, terrene ed umane, se non là ove tali forme erano da secoli indigene; il problema internazionale della divina Commedia non poteva quindi risolversi che in Italia.
Siamo giunti alla fine del nostro studio. Lo svolgimento artistico internazionale si è incontrato con quello italiano.
La coltura cattolica, laico-chiesastica, ha dato luogo nella poesia a due sorta di stili visionari: lo stile apocalittico, mistico, simbolico da un lato, lo stile umano, filologico, allegorico dall’altro. Il grande moto democratico del XII-XIII secolo — che si può chiamare Pre-rinascenza o Pre-riforma, o Franciscanesimo o umanesimo mistico a seconda dello scopo che si abbia di mira — ha dato modo ai due stili di fondersi intimamente. Di questa opportunità si approfitta subito in Italia, ma nel modo più imperfetto e più contrario alle leggi dell’arte, ossia colla più impotente confusione delle forme tradizionali. Ma pel genio creatore questo stesso disordine diviene gradita libertà e occasione ad un’opera libera e grande. La compagine rigida, formalistica e fredda delle regole dettate dai grammatici e dai retori italiani dei secoli IX, X e XI, diviene fervida, la resistenza è superata, il terreno scavato. La via è libera per Dante, quantunque nessuno gliel’abbia segnata dinnanzi.
Per un solo piccolo punto ha tracciato una breve linea il primo superatore della mescolanza stilistica italiana, Guido Guinizelli. La tecnica perfezionata del trovatore provenzale gli aveva reso possibile di risolvere almeno nella ristretta cerchia del canto amoroso il problema artistico terreno-oltreterreno della Commedia e di trovare uno «stil nuovo» per un nuovo servizio femminile, profano-religioso.
Da questo canto d’amore in istile nuovo è germogliata la Vita nuova, e da questa la Commedia. La Beatrice dello stil nuovo è la cellula embrionale della Commedia. Quello che lo stil nuovo è per l’amor femminile, la Commedia lo è per l’Amor divino: perfetta espressione poetica, forma umana che abbraccia uno spirito divino.