Dati bibliografici
Autore: Pasquale Tuscano
Tratto da: Dal vero al certo. Indagini e letture dantesche
Editore: Ed. Scientifiche Italiane, Napoli
Anno: 1989
Pagine: 13-36
Ritengo persuasione giusta e sensata, per una corretta lettura degli autori, insistere sulla loro ‘storicizzazione’, calandoli, sempre, nella temperie civile e culturale del loro tempo. Dante non può, davvero, sfuggire a tale indicazione metodologica. È la via per giungere a cogliere, non dico tutte le sfumature, ma i gangli essenziali intorno ai quali si coagula la civiltà letteraria, quindi la sensibilità, del suo tempo. La storia di Firenze, d’Italia e dell'Europa tra l’ultimo ventennio del ‘200 e il primo trentennio del ’300, è, si sa, tra le più ardue, irte e difficili da percorrere. Tuttavia, perché questa asserzione non sia veicolo di scoraggiamento per l'approccio all'opera dantesca, non è il caso ch’io ricordi il ‘miracolo’ di cui è capace la parola poetica di Dante, di partecipare, cioè, al lettore comune, ma certo non incolto, emozioni più o meno intense, ma sempre spiritualmente tonificanti e consolanti. Non è, quindi, premessa imprescindibile che per ‘capire’ La Divina Commedia — per le opere ‘minori’ il discorso è, ovviamente, diverso — occorra essere medievalisti provetti. Ricorda, opportunamente, Mario Luzi: «In Dante c’è tutto (...); non manca nessuno dei procedimenti che sono rimasti come istituzioni dell’ornamento poetico tradizionale e che in lui hanno la sacertà remota dei fondamenti; ma può fare a meno di tutto e presentarsi nella nuda funzione di colui che dice senza che per questo la sua voce debba perdere altezza, a tal punto l’aderenza e la fede nell’oggetto delle sue parole ne sostengono e fanno vibrare il timbro» .
Ciò premesso — e l’incoraggiamento si ritiene doveroso —, entriamo nel ‘cammino alto e silvestro’ del nostro quanto mai spinoso argomento, limitandoci ad alcune osservazioni, senza pretese di essere originali o di esaurire un argomento vario, vasto e di enorme complessità.
Cominciamo, anzitutto, con l’intenderci sul significato del termine ‘allegoria’, quindi sul valore che assume nella civiltà letteraria del ‘200, e come viene recepita e utilizzata da Dante, specificatamente nella Divina Commedia.
I. Una lunga, costante e autorevole letteratura, che abbraccia mondo antico e medioevo, civiltà classica e civiltà cristiana, da Eraclito, per intenderci, almeno fino a Isidoro di Siviglia, auctor di prim'ordine dell’enciclopedismo medievale, intende l’allegoria come ‘altro dire’ da ciò che si vuol significare. Dante è chiarissimo: Allegoria dicitur ab ‘alleon’ grece, quod in latinum dicitur ‘alienum’, sive ‘diversum’ (Epist., XII, 22). «Allegoria est alieniloquium — scrive Isidoro di Siviglia —, aliud enim sonat, et aliud intelligitur». E mette in guardia dal rischio dell’abuso, piegandola troppo a sovrasensi ambigui che.la traducono in enigma: «Inter allegoriam autem et enigma hoc interest, quod allegoria vis gemina est, et sub re alia aliud figuraliter indicat. Afnigma vero tantum sensus obscurus est, et per quasdam imagines adumbratus» . In sostanza, l’allegoria non deve acconsentire equivoci di alcun genere, sia applicata ai testi classici che a quelli cristiani. La cognizione della vita e del mondo dell’uomo del medioevo esige, fuori di ogni artificio, la rappresentazione dell’universale come se sia cosa concreta, per signa translata, lasciando parlare le cose, rappresentandole, appunto, allegoricamente, come se siano concrete, entro la visione della natura come libro che riceve luce dai testi sacri, che sono i libri di Dio. Di qui la necessità della sensibilità dell’uomo medievale di ‘leggere’ contemporaneamente le cose e il loro senso. — si pensi a quei gioielli, tanto suggestivi anche per noi, che sono i bestiari, gli erbari, i lapidari —; di cogliere il valore dei gesti e dei riti al di là del sensibile; l’attitudine a rintracciare nei testi classici prefigurazioni cristiane: basti, per tutti, ricordare l’ampia letteratura in proposito sull’Egloga IV di Virgilio. Su questa base si fonda la concreta continuità tra mondo classico e mondo cristiano, su cui, ormai, il consenso degli studiosi è pacifico. «L’interpretazione allegorica — scrive il Viscardi —, nonché essere documento dell’esaurirsi della tradizione culturale classica, è invece il segno più eloquente dell’ininterrotta continuità di quella tradizione nel medioevo (...). La definizione di allegoria si trova in tutti gli antichi grammatici, nella tradizione relativa ai tropi: ‘oratio aliud dicens, aliud signifi- cans per obscuram similitudinem’, scrive, ad esempio, il Carisio (...). L’interpretazione allegorica dei testi classici — e del sacro testo — entra nel quadro degli studi grammaticali e retorici (...); del resto (...) uno degli strumenti onde si attua l’interpretazione allegorica dei testi è l’analisi etimologica delle parole, che svela delle parole il contenuto intimo e segreto; e si sa che, per questa analisi, la scienza medievale usa il grande strumento delle Etimologie isidoriane; che riflettono il complesso delle conoscenze elaborate dai grammatici antichi e conservate dai glossari» .
Certo, un tempo dominato da persuasioni universali asseverative, com’è il medioevo, non può non marcare fermamente la valenza teologica, di stretta determinazione spirituale, e acquista una connotazione decisamente cristiana: «Nel medioevo il termine allegoria veniva usato anche in un’accezione più specifica, che ne definiva il carattere propriamente cristiano» . Il concetto cristiano di allegoria è deducibile dai Vangeli: Matteo (13,3-9 e 24-30), nelle note parabole de Il seminatore e de Il grano e la zizzania, e la loro relativa spiegazione; Giovanni (15,11-12) nella parabola della Vera vite. Come si desume dall’autorevole ed imponente documentazione raccolta da Henry de Lubac , «l’allegoria cristiana è la profezia inclusa negli eventi storici del Vecchio Testamento, cioè la prefigurazione di Cristo e della chiesa che san Paolo ha insegnato a riconoscere nella storia del popolo ebraico. L’oggetto dell’allegoria è dunque il Nuovo Testamento e la dottrina della Chiesa» . Per queste ragioni, ad esempio, san Tommaso avverte che «allegoria sumitur aliquando pro quolibet mystico intellectu, aliquando pro uno tantum ex quatuor qui sunt historicus, allegoricus, mysticus et anagogicus, qui sunt quatuor sensus sacrae Scripturae» .
II. L’allegoria, quindi, domina nelle scuole e nella produzione letteraria del medioevo e, in una superba sintesi di rinnovata cultura, italiana ed europea, incide la formazione spirituale, e poetica, di Dante. Per questo, per renderci conto meglio di come egli l’assuma, e l’adatti alla visione della vita e degli eventi, sua e del suo tempo, occorre richiamare — quanto, e come, l'economia di questo intervento lo acconsente — i suoi predecessori e ispiratori, e immaginare, senza lasciarsi trasportare troppo dall’immaginazione, la sua ideale biblioteca.
Certo, sulle scuole fiorentine ai tempi di Dante ancora siamo piuttosto scarsamente informati . Ma non è impossibile ricostruire, nei termini essenziali, le linee portanti della sua formazione culturale, tenendo, soprattutto, presenti le ‘scuole’ da lui frequentate a Firenze e a Bologna, che, certamente, orientarono non poco il suo profetismo e, quindi, il taglio dell’allegoria.
Dante conosce ovviamente i testi canonici della cultura medievale, che accompagnano l’insegnamento obbligatorio della grammatica, della retorica, della logica, della dialettica, discipline intese oltre che a svegliare l’intelligenza, a dare ai giovani che hanno la possibilità di frequentare un Maestro, un fondamento morale orientato nei termini di una mentalità religiosa, oltre all’ornato scrivere latino e al ben parlare. I testi ufficiali ‘adottati’ li conosciamo: L’Isopo o Isopetto, di un tale Romulus, vissuto nel secolo X, che dice di averlo tradotto dal greco, ma che sono, sostanzialmente, una riduzione in distici latini delle favole di Fedro. Dante ha, certamente, presente questo testo quando nel Convivio (IV, xxx, 4) richiama la favola del gallo e della gemma trovata nel letamaio al posto del grano; della favola della rana e del topo di Inf, XXIII, 4; della sentenza di Par., XVII, 27 (‘Che saetta previsa vien più lenta’) della favola della rondine e degli uccelli; i disticha Catonis, 144 sentenze morali di un Dionisio Catone del V secolo, anche queste in distici latini che i giovani di tutta Europa mandano a memoria; gli Epigrammi di Prospero di Aquitania, che, sempre in distici, raccolgono sentenze di sant'Agostino; ed ancora l’Eva columba e la Psychomachia di Prudenzio; il Physiologys dello pseudo-Epifanio, antica zoologia moralizzata, di origine greca, archetipo di tutti i bestiari delle letterature occidentali; le lettere di un maestro ammirato dell’ ‘ars dictandi’ come Pier della Vigna; l’elegia De diversitate fortunae di Arrigo di Settimello; i Proverbia dello Schiavo di Bari, illustrati da Jacopo da Benevento; il Facetus di anonimo, sulle buone maniere, soprattutto a tavola; un compendio della teologia di san Bernardo, noto come Floretus. A questi testi essenziali, vanno aggiunti il De consolatione philosophiae di Boezio, gli ‘auctores’ che da secoli, senza soluzione di continuità, si leggono nelle scuole con grande amore, dal Seneca morale a Orazio, da Cicerone (era molto in auge il De amicitia) agli autori privilegiati come Virgilio, Stazio, Ovidio, Lucano. In Dante si unisce anche magistero prestigioso e fervidamente lievitante di Brunetto Latini, verso cui la riconoscenza del Poeta è infinita ed espressa in caldi sensi di filiale affetto per avergli insegnato, insieme alla straordinaria cultura scientifica, di cui è alta testimonianza l’enciclopedia del Trésor e la lezione archetipica dell’allegoria del Favolello e, soprattutto, del Tesoretto , come ‘l’uom s’etterna’ (Inf., XV, 85), attraverso lo studio della retorica e della tecnica dello scrivere ornato. Ma Dante è d’indole curiosa e appassionata anche negli studi. «Avvedendosi le poetiche opere — scrive, in un noto passo del Trattatello in laude di Dante, il Boccaccio — non essere vane e semplici favole o meraviglie, come molti stolti estimano, ma sotto sé dolcissimi frutti di verità istoriografe o filosofiche avere nascosti: per la qual cosa pienamente senza le istorie e la morale e naturale filosofia le poetiche intenzioni avere non si poteano intere; partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia sotto diversi dottori s’argomentò, non senza lungo studio e affanno, d’intendere. E preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose racchiuse dal cielo, niun’altra più cara che questa trovandone in questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine, tutto a questa sola si diede, e acciò che niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle profondità altissime della teologia con acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l’effetto lontano, però che non curando né caldi né freddi, vigilie né digiuni, né alcuno altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere della divina essenza e dell’altre separate intelligenze quello che per umano ingegno qui se ne può comprendere. È così come in varie etadi varie scienze furono da lui conosciute studiando, così in varii studii sotto varii dottori le comprese» .
Con questi intenti frequenta, nella sua Firenze, lo Studium del convento francescano di Santa Croce, quello agostiano in Santo Spirito, e la scuola domenicana di Santa Maria Novella. Come hanno documentato il Manselli e il Davis , Dante è presente certamente in queste scuole, dove, settimanalmente, si tengono disputationes ordinarie e quodlibetane straordinarie, con la partecipazione di studiosi provenienti anche da Parigi, da Londra, e da altri rinomati centri culturali. Egli stesso c’informa nella Monrarchia (Libro I, x, 2) di essere stato attento frequentatore delle dispute dei logici [«quemadmodum tota die logici nostri faciunt de quibusdam propositionibus, que ad exemplum logicalibus interserunt» ], e, ancora, più esplicitamente, nel Convivio (II, x, 7), dichiara di aver frequentato per trenta mesi — quindi, per tre anni scolastici — «le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti».
Nello Studio domenicano di Santa Maria Novella, dove si svolgono corsi di logica vetus et nova, apprende, e approfondisce, le linee ortodosse dell’aristotelismo parigino e della scolastica (gl’interpreti ufficiali sono Alberto Magno e Tommaso d’Aquino); in quello francescano di Santa Croce, più conservatore, meno aperto al nuovo, conosce, soprattutto dalle lezioni di Pietro di Giovanni Olivi e di Ubertino da Casale, il grande fascino della corrente dei mistici e delle opere francescane esemplate da San Bonaventura. Qui conosce l’opera di Gioacchino da Fiore e quel testo affascinante e suggestivo che è il Liber figurarum, che lascia un segno indelebile nel taglio dell’allegoria e della perentorietà del suo profetismo. «Le figure dell'abate Gioachino riassumevano tutto il suo pensiero, e rendendolo visibile lo dovevano rendere anche più efficace, specialmente presso chi alla profondità degli studi univa, come Dante, vivezza di fantasia poetica. Il secolo XIII ne sentì profonda la influenza, e spesso con ansia attese l’avveramento di quanto egli aveva dedotto dalle sue corcordie e descritto con colori meravigliosi» . Così, se è giusto lasciare a Gioacchino da Fiore le proporzioni, e il fascino, che Dante gli assegna , risalgono certamente alla sorprendente chiarezza delle tavole de Il libro delle figure, tra le altre, le allegorie fondamentali del poema, dall'immagine dei cerchi divini di Par., XXXIII, 115-120, al mistero dell’Incarnazione in quello trinitario (Par., XXXIII, 127-141); alla M che si trasforma in aquila e al suo ingigliarsi (Par., XVII e XX); allo sdoppiamento del Paradiso e la rosa celeste; ai sette candelabri che appaiono alberi, alla pianta dispogliata che si rinnovella (Purg., XXXII, 29-63). Svela l'enigma del Veltro: il simbolo del cane domina la dodicesima tavola e simboleggia «un nuovo Ordine d’una nuova età» , e il feltro significa le «rozze saia monastiche dal cui ambiente egli deriverebbe» . E il rovus Ordo de Il libro delle figure dev'essere un individuo non una classe o una gerarchia, un Pastor angelicus di cui si parla nella Concordia Novi ac Veteris Testamenti, quindi di un Pontefice. Questi sarà anche il novus dux, il ‘cinquecento diece e cinque’ (Purg., XXXIII, 43), che salirà da Babilonia per la rifondazione della nuova Gerusalemme.
In sostanza, la scolastica domenicana e la mistica francescana avevano suggellato la sua cognizione dell’allegoria di una dimensione decisamente evangelica e testamentaria, di quell’‘allegoria cristiana’ cui abbiamo accennato, e che trova nella Divina Commedia i vertici nelle figure di san Francesco e di san Domenico. Questo tipo di allegoria prende, altresì, vigore dal terreno fertile della sua cultura che si richiama alla lezione guinizelliana, ai ‘versi d'amore’ e alle ‘prose di romanzi’, che comprendono i romanzi francesi in prosa, specificatamente il Roman de la Rose, da cui discende, è noto, la corona dei sonetti del cosiddetto Fiore, la cui paternità autorevoli studiosi assegnano a Dante, da Guido Mazzoni a Francesco D’Ovidio, a Pio Rajna, e, in data più recente e con argomenti che certo fanno riflettere, da Gianfranco Contini . Un posto non secondario spetta, altresì, alla grande poesia trobadorica, da Guiraud de Bornelh ad Arnaldo Daniello, «poeta della rettitudine», il primo, come lo definisce nel De Vulgari eloquentia (Libro II, II, 9); ‘fabbro del parlar materno’, come lo chiama in Purg, XXVI, 117. Non solo. L’intera narrazione del viaggio ultraterreno trova in questo clima culturale la severità, e austerità, della struttura scolastico-mistica, nel senso più alto e pregnante dei termini. Il miracolo è nell’eccezionale grado di polisemia del testo dantesco, una catena di elementi diversi (narrativi, figurali, allegorici ecc.), dove ogni anello è essenziale per l’equilibrio generale della costruzione, pur quando pare che possa offrirsi in una sua autonoma decodificazione.
La letteratura sull’allegoria in generale, e su quella dantesca in particolare, è tanto vasta quanto contraddittoria. Può sembrare strano, ma, dopo l’attenzione data all’allegoria dai commentatori più vicini all’epoca di Dante, dai figli Iacopo e Pietro al Lana, dal Bambaglioli all’Ottimo, al Boccaccio, al Buti, bisogna aspettare il grande commento del Tommaseo — uscito in prima edizione nel 1837, ma la ristampa definitiva e completa, soprattutto per la parte astronomica, è del 1865 — perché si affronti con decisa acribia questo problema, e al ‘provocatorio’ saggio del Croce del 1921, da cui discendono gli studi più autorevoli che si registrino oggi sull’argomento, dall’Auerbach al Singleton al Pézard, al Barbi, al Parodi, al Casella, al Momigliano, al Battaglia, al Contini, al Sapegno, al Bosco, al Petrocchi, al Mazzoni, a tanti altri valenti studiosi.
Certo, dev’essere chiaro che un’interpretazione frammentaria e rapsodica delle singole allegorie è forviante, oltre che fallace. Tutte vanno lette, e intese, entro quella generale del ‘poema sacro’, che tutte le comprende e le spiega.
L’allegorismo che permea La Divina Commedia non è puro e delibato dato intellettualistico e decorativo, quale, ad esempio, è il metaforeggiare della poetica barocca. «L’allegoria del poema è un viaggio dal peccato (la selva) alla salvezza (la luce divina) con più guide (Virgilio, Stazio, Beatrice, san Bernardo), incarnazioni anch’esse di una dialettica tra ragione e fede, attraverso paesaggi esemplari di un’umanità disperata, penitente o gioiosa, che trascrive nel libro vitale dell’eternità e della giustizia le scelte compiute in vita, nel mondo della storia» . Non è un caso, quindi, che gli esegeti del Trecento evidenzino non tanto le qualità estetiche del poema, quanto gli esiti del poeta teologo e scienziato.
III. Ma vediamo più concretamente come Dante assuma, e adatti alla sua opera poetica, l’allegoria che domina la sensibilità, e la cultura, del suo tempo.
Intanto, occorre sgombrare il campo da un altro equivoco. È giustificabile la distinzione, oggi di moda, tra simbolo e allegoria? . Bisognerebbe dimostrare che ai tempi di Dante questa distinzione era praticata. Al contrario, non ci sono dubbi sull’ovvietà dell’identità di allegoria e di simbolo. Operazione altrettanto ardita, e certo non persuasiva, è quella di accomunare l’allegoria di Dante genericamente con l’‘allegoria dei poeti’, assegnandole una modernità anacronistica, con accostamenti a Pound o a Eliot, a Melville o a Kafka. Cosa guadagna la poesia di Dante? In questa direzione, Dante è di una chiarezza che non dovrebbe acconsentire sottigliezze o bizantinismi. Egli illustra, inequivocabilmente, i concetti di ‘allegoria dei poeti’ e di ‘allegoria dei teologi’, non lasciando dubbi sul fatto ch’egli utilizzi nella Commedia l ‘allegoria dei teologi’, temperata, ‘storicizzata’, da quella dei poeti. L’esegesi che suggerisce per una puntuale interpretazione del suo testo è, infatti, quella che viene indicata per i testi sacri: «Forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus» (Epist., XIII, 27)
La Divina Commedia, della cui materia Dante è ‘scriba’, scrivano della volontà di Dio, è, in certo modo, exemplum della Bibbia. Infatti, la lettera registra fatti storici, temporalmente avvenuti, ma è, soprattutto, portatrice di sensi spirituali, del fine ultimo dell’uomo. Anzi, per un cristiano autentico — e l'esempio di Francesco d’Assisi gli è modello fermo nella mente e nel cuore — Dio non parla soltanto tramite la parola della Bibbia, ma anche attraverso la natura, come, tra gli altri, gli hanno insegnato sant’Agostino e Ugo di san Vittore. Dante, che sa di dover dare alla parola l’intero peso, e gli umori, della sua personalità, delle sue passioni e delle sue vendette, supera, sostanzialmente, la doppia natura dell’allegoria [dei poeti e dei teologi], con un’operazione non di scarto, ma di fusione, corroborando, se mai, il versante teologico, perché la parola di Dio sia sempre più limpida e cristallina. Che egli si senta poeta ispirato, che si consideri accomunato agli autori della Bibbia, e quindi suscettibile di esegesi allegorica, lo dice chiaramente nell’invocazione ad Apollo (Per., I, 19-20), quando lo invita a svuotarlo della propria sostanza, come aveva operato con Marsia, sostituendo quella sostanza col soffio del dio:
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
della vagina delle membra sue.
Come scrive il Contini, «se va esplicitato un collegamento fra sostanza e struttura formale, direi ch’esso vada ritrovato in una progressiva rinuncia alla licenza dei poeti, dapprima puramente razionale (movimento del Convivio), coronata dall’inveramento, anche teoreticamente superiore, dell’allegoria dei teologi, dell’imitazione biblica» . Ciò fa risaltare ancora meglio la personalità di Dante nell’ambito della cultura del suo tempo. Intellettuale dinamico, aperto a tutte le novità, egli procede per strade tutte sue, anche quando, ad esempio, gli costa lasciare amici e compagni, come Cavalcanti, evento di cui il canto decimo dell’Inferzo segna il suo episodio autobiografico storicamente più puntuale e più umanamente triste, se la riflessione filosofica, l'ordine degli studi, nel caso specifico la filosofia epicurea che sollecita verso lo scetticismo, colloca i due fraterni amici su sponde diametralmente opposte . Dante è sensibile alle problematiche proprie del gruppo di intellettuali bolognesi, toscani e umbri d’avanguardia, epicurei ed averroisti, dell’ultimo decennio del Duecento sino al primo trentennio del Trecento: Nicola, Cambiolo e Urbano da Bologna, Angelo d’Arezzo, Taddeo da Parma, Zilfredo da Piacenza, Matteo da Gubbio ecc., conosciuti a Bologna negli anni in cui frequenta quell’Università, interessato ai corsi di medicina in quanto legati alle arti , tanto che le due branche di studi verranno più tardi stabilmente unite in un’unica Facoltà . Ma Dante non è il tipo da lasciarsi incantare e travolgere dalle ‘novità’. Sa porsi, con granitica, ma ragionata, persuasione, in una posizione di rinnovamento nella tradi- zione. In ciò «lo aiuta la creduta continuità di latino a volgare che gli consente di annettersi ogni tradizione nel momento che si dispone a qualsiasi innovazione», per cui «siamo alla doppia condizione di Dante, rappresentatore perenne per un verso, uomo di cultura conclusa per l’altro» .
Così, Dante, autentico testimone e interprete del suo tempo, vede nell’allegoria la sola via percorribile dalla sua poesia, compresa l’esperienza della Vita nova e del Convivio, al fine di «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (Epist., XIII, 39). Egli sa — e con lui l’umanità del suo tempo — che «l’intero creato è gremito di cifre e di criptografie da svelare, perché tutte custodiscono una particella o un sintomo delle verità divine» , e che meritano di essere intese. Nulla di più errato, quindi, della persuasione del Croce, per il quale «nella poesia e nella storia le spiegazioni delle allegorie sono affatto inutili e, in quanto inutili, dannose» . Al contrario, come vede bene il Barbi, «l’allegoria fa corpo con la poesia; e viene a costituire, per così dire, l’anima e il succo del poema», anche se, ci avverte opportunamente, «non dappertutto si devono vedere altri sensi oltre il letterale, e che tali sensi vanno appostati, sotto la lettera, solo là dove sia necessario ed opportuno» .
Di questa ‘necessità’ ed ‘opportunità’ dell'adozione di un altro significato, oltre quello letterale, che dev'essere a fondamento di tutti gli altri, lo stesso Dante tenta di lasciare qualche suggerimento e più di un invito a cautela e prudenza. Anche per non correre rischi di fraintendimenti col voler «cavare i sensi allegorici violentemente» — come ammonisce un acuto lettore di Dante del pieno ’500, Vincenzio Borghini (1515-1580) —, che «non è interpretare l’intenzione delli Autori, ma più presto un fare che il Poeta interpreti la nostra, facendo lor dire non quello che in verità hanno detto, ma ciò che pare a noi seguendo il nostro concetto» . Intanto, sono presenti a tutti, nella loro rigorosa articolazione, i quattro sensi delle scritture, così come sono esposti nei paragrafi 1-7 del primo capitolo del secondo trattato del Corvivio e nei paragrafi 20-22 dell’Epistola a Cangrande. «Le scritture — ricorda nel Convivio — si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi», che sono il letterale, l’allegorico, il morale e l’anagogico. Concetto che ribadisce nella Epistola a Cangrande, richiamando il valore ‘polisemos’ della Commedia, «et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus». Sarebbe lungo ricordare la fitta e autorevole schiera dei teorici dell’interpretazione della Scrittura secondo i quattro sensi ricordati, autori noti a Dante, da san Gerolamo a sant'Agostino, da Giovanni Cassiano ad Eucherio di Lione, da Beda il Venerabile a Rabano Mauro, a Tommaso d’Aquino («sensus historicus vel litteralis, allegoricus sive moralis (...) anagogicus»: Sur. Theol., I, 1, 10). Del tutto, tra il ’200 e il ’300, un distico, attribuito ad Agostino di Dacia (morto nel 1282) così sintetizza la teoria ermeneutica: «Littera gesta docet, quid credas allegoria, / moralis quid agas, quo tendas anagogia» .
Come gli esegeti cristiani, da Gregorio Magno a Ugo di san Vittore a san Bonaventura, anche Dante invita a mante- nere l’allegoria, come abbiamo accennato, entro limiti ragionevoli, per non perderla di vista, volendola individuare dovunque, solo, quindi, là dove è necessaria per l’intelligenza compiuta del testo. Di qui l’invito, non casuale, del Poeta a non insistervi troppo qualora il caso non lo richieda. Così, quando, nel primo girone del Purgatorio, Virgilio gli ricorda che non è necessario perdere tempo a meditare più a lungo sugli esempi di superbia punita, Dante confessa:
Io era ben del suo ammonir uso
pur di non perder tempo, sì che ’n quella
matera non potea parlarmi chiuso.
(Purg., XII, 85-87).
A volte occorre prendere atto delle difficoltà d’intendere l'effettivo significato, come può accadere quando la parola conserva valenze profetiche: ad esempio, quando Oderisi da Gubbio accenna all'imminente esilio del Poeta:
Più non dirò, e scuro so che parlo
(Purg., XI, 139).
Oppure, è superflua quando la volontà di Dio si manifesta chiaramente non solo alle Intelligenze angeliche, ma ai viventi, come nel rispecchiarsi della Sua giustizia nell’ordine dei cieli:
Ben so io che se ’n cielo altro reame
la divina giustizia fa suo specchio,
che ’l vostro non l’apprende con velame.
(Par., XIX, 28-30);
o quando, nel pieno rispetto della dottrina aristotelica, chiarisce che l’intelletto umano traduce in cognizioni intellettuali quanto suggeriscono le rappresentazioni sensibili, rappresentando in forma allegorica i segni spirituali della Divinità:
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio, ed altro intende.
(Par., IV, 40-45).
Infine, ci sono momenti in cui l’invito del Poeta a riflettere sul senso allegorico della lettera si fa perentorio. Scrive, nel Convivio: «Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle [si riferisce alle canzoni], che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d’allegoria» (Conv., I, II, 17). E, a proposito della grande allegoria della Povertà nell’elogio di san Francesco:
Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
(Par., XI, 73-75).
Ed è nella memoria di tutti il monito agli ‘intelletti sani’ ad ammirare anche il valore morale (la dottrina) che nasconde il velo dell’allegoria:
O voi ch'avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto ’l velame delli versi strani.
(Inf., IX, 61-63).
La ‘stranezza’, comunque, non deve necessariamente intendersi come sinonimo di ‘oscuro’, di enigmatico. Quanto più è possibile conoscere i termini della cultura teologica di Dante, tanto più è intuibile il significato, e le diverse gradazioni di esso, di allegorie che appaiono inestricabili. Abbiano accennato ai due più famosi enigmi, il Veltro e il cinquecento diece e cinque, e come possono intendersi alla luce della XII figura del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore. Che, per lo meno, potrebbe essere la meno lontana dalle intenzioni dell’Alighieri. A meno che il Poeta non abbia volutamente proposto un ardito rompicapo, se, richiamandolo, fa dire a Beatrice, nel XXXIII del Purgatorio, che si tratta di una narrazion buia, di un enigma forte, come quelli di Temi e della Sfinge:
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
(Purg., XXXIII, 46-51).
A quanto sappiamo, questi fatti esplicativi si sono tutt'altro che verificati.
Piuttosto, a differenza della poesia allegorica coeva, a Dante tanto familiare, ma per lui ormai scontata precettistica, cultura di retroguardia — e non pensiamo solo ai poemetti allegorico-didattici richiamati, ma ai poeti della Magna Curia, al di qua e al di là dello Stretto, a Guittone d'Arezzo e ai guittoniani, ai poeti realisti toscani e, più intensamente, a quelli del ‘Dolce stil novo” — l’allegoria dantesca, soprattutto nel supremo compimento della Divina Commedia, non è un ‘senso’ da decodificare autonomamente, bensì da interpretare anagogicamente, nel rispetto della rigorosa articolazione stabilita nel Convivio e nell’Epistola a Cangrande . Com'è opportunamente indicato dal Pasquazi, «il senso anagogico delle cosiddette allegorie dantesche rivela sovente in esse i segni dell’autentica poesia, perché mostra che accanto alle operazioni dell’intelletto, sono presenti, ed essenziali, la tensione affettiva e morale all’Assoluto, e, insieme, la tensione affettiva e morale alle cose del mondo in quanto queste sono in vario modo teofaniche, rappresentative dell’Assoluto o riferite ad esso o escatologicamente riacquistate» . Né bisogna perdere di vista che «la spiritualità medievale accettò l’allegoria come una componente essenziale e insostituibile del pensiero e dell’arte» . Quindi, Dante non solo è in perfetta sintonia col suo tempo, ma dà all’allegoria il segno della sua autenticità, fuori, come dicevamo, dell’uso puramente retorico e scolastico. Non solo. Egli, quasi sempre, «attira l’allegoria — per dirla con l’Auerbach — nell’attualità, la connette strettamente alla storia» . Per questo nesso inscindibile particolare-universale, tempo-eternità, si pensi ai personaggi protagonisti della Commedia, a Dante, che è sì Dante-pellegrino, ma, contemporaneamente, il rappresentante dell'umanità peccatrice, del suo e di ogni tempo, alla conquista del più alto traguardo dello spirito; a Virgilio, che è il grande maestro di stile di Dante e il cantore superbo dell’impero romano sotto il ‘buon’ Augusto, ma anche l'emblema straordinario della ragione umana, il vertice cui può giungere l’uomo tramite il sapere e la virtù; a Beatrice, donna sensibilmente vera e appassionata, e, insieme, simbolo delle verità incorruttibili, della teologia, del ritorno del tempo innocente, del paradiso perduto. Tuttavia, se è vero, come osserva il Singleton, che l’allegoria dà al viaggio dantesco un senso di universalità perenne, senza tempo, perché «un simile viaggio come possibilità aperta a tutti resta il postulato fondamentale e, per Dante, la dottrina su cui egli può costruire l’allegoria della Commedia» , occorre essere consapevoli del fatto che, per lui, uomo del medioevo, pur se proiettato verso l’avvenire, l’arte deve conformarsi al vero, che non è quello artistico — idea estetica ancora quasi del tutto sconosciuta a quell’epoca —, ma della fede e della scienza. Egli, in fondo «distingue due generi di poeti [come due erano le vette del Parnaso]: il filosofico e il teologico; la sua ambizione personale era di essere un poeta teologico e di ascendere alla vetta soprannaturale del Parnaso, ma, né in pratica né in teoria, dimenticò l’altra vetta. Ciò può essere considerato come un segno della fine del medioevo e dell’inizio della nuova età che si stava sviluppando dal medioevo» .
Abbiamo, pur rapidamente, accennato come Dante, coerentemente con l’abito mentale del suo tempo, attinga all’allegoria classica, filtrandola attraverso l’interpretazione medievale, stabilendo, così, un ponte ideale tra cultura classica e cultura cristiana, a quella biblica, “a quella morale; agli intrighi allegorici della tradizione cavalleresca e cortese, dal Roman de la Rose, soprattutto la prima parte, la redazione di Guillaume de Lorris, più che la seconda, dovuta a Jean de Meung, al De Amore di Andrea Cappellano; alla virtuosistica varietà e alle innovazioni della poesia dei Siciliani e dei Guittoniani, alla vasta e suggestiva poesia didattica e popolare dell’Italia settentrionale, al Dolce Stil Novo, e a come la sua forte e rigorosa personalità adatti la tradizione allegorica alle esigenze della sua costruzione poetica con originalità di dottrina, di lingua, di arte. Così, esempio unico nella storia della poesia di tutti i tempi, «convinzione teologica, esperienza personale, sentimento, tendono insieme a consumarsi nel sublime risultato di un'immagine, che è essenzialmente fantastica ed artistica» . L'uomo medievale, insomma, possiede una cognizione metafisica della realtà che a noi sfugge, o avvertiamo in termini assai esigui. Dante, straordinario testimone e interprete del suo tempo, con la superba ‘allegoria’ della Divina Commedia sa realizzare lo «sforzo supremo di visualizzare l’invisibile» , e di dare corpo, insieme reale e teologico, a simboli di idee altissime, traducendole in straordinarie e perenni immagini fantastiche. «Sì, è vero: il poeta stesso ci invita — scrive quell’insigne filologo e interprete di Dante che fu Michele Barbi — a mirare ‘la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani’; e miriamo, e scrutiamo pure a nostra posta. Ma, alla fine, sentiremo che, qualunque interpretazione di là dal senso letterale diamo di quegli elementi in moto e della scena complessiva, quel che ci prende veramente è la vivezza della rappresentazione fantastica, nella quale, ad onta d’ogni riposta intenzione, manifesta il suo pieno rigoglio la virtù creatrice del poeta. Né il nostro godimento si accresce o scema secondo che si segua una interpretazione allegorica piuttosto che un’altra o se ne escogiti una nuova» ‘. È il miracolo della poesia di Dante, dell’autentica poesia d’ogni tempo. Certo, l’ideale sarebbe essere lettori all'altezza dei testi di Dante, liberandoci dalla tentazione di plasmare la sua visione del mondo e dell’arte ad immagine delle nostre. In questo senso, se si riescono a cogliere i termini della cultura e della sensibilità medievali si strappa qualche mistero in più di una inesauribile fonte di poesia, di scienza, di saggezza, di umanità e di fede, se è vero, come ammonisce il Goethe che «non si possiede ciò che non si comprende» E noi dobbiamo fare ogni sforzo per comprendere i testi di Dante quanto più ci è possibile. Comunque, quel che importa soprattutto è di tener sempre vivo il desiderio di attingere a questa fonte, senza timori pregiudiziali di non essere all’altezza di capire alcuni passaggi, o, peggio, di ritenerli antiquati, estranei al nostro gusto e alla nostra cultura, se è vero che, particolarmente nei momenti di più drammatica inquietudine e smarrimento individuale e sociale, l’umanità civile d’ogni tempo e d’ogni paese sa attingervi risorse incomparabili, di coraggio, di speranza, di luce di verità, di fede nell’avvenire.