Dati bibliografici
Autore: John A. Scott
Tratto da: Sotto il segno di Dante. Scritti in onore di Francesco Mazzoni
Editore: Le Lettere, Firenze
Anno: 1998
Pagine: 299-309
Negli ultimi decenni, molto si è scritto sull’allegoria e la sua funzione specifica nelle opere di Dante: in particolare, nel Convivio e nella Commedia. Risalendo al 1950, troviamo che Charles Singleton, in uno studio fondamentale, tentò di stabilire una netta distinzione tra l’allegoria dei poeti da una parte e l’allegoria dei teologi dall'altra, distinzione basata sulla convinzione che la differenza essenziale tra queste due forme di allegoria consistesse nella natura stessa del senso letterale nell’una e nell’altra . Questa affermazione, accompagnata com’era dalla persuasione che l’allegoria dei teologi richiedesse sempre un senso letterale storicamente «vero» (e quindi opposto alle finzioni create dall’allegoria dei poeti), è diventata un luogo comune nei vari studi dedicati all’argomento. Non fa eccezione a questa regola neppure l'autorevole studio di Jean Pépin, pubblicato sull’Enciclopedia Dantesca e nel quale egli scrive:
Come intendere questa diversità tra teologi e poeti? Piti che sul senso allegorico essa deve vertere sul senso letterale. D. (...) concepisce la lettera come un discorso fatto di finzione, parole fittizie, quali le favole, e ancora come una bella menzogna (...). Con quest’ultima formula D. riprende un’antica idea che già si ritrova in un celebre detto del retore del II secolo, Teone d'Alessandria (...). Ma è chiaro che i teologi non erano disposti a considerare il senso letterale della Bibbia come fittizio, favoloso e menzognero (...) per la tradizione cristiana, la lettera della Scrittura è garantita nella sua propria verità, prima di qualsiasi interpretazione spirituale .
E, qualche anno prima, André Pézard aveva sostenuto che «selon Dante (...) on ne trouve chez les auteurs sacrés aucune fiction» . A tanta insistenza sull’assenza di qualsiasi finzione nella Sacra Scrittura si potrebbero opporre gli innumerevoli sforzi compiuti dai vari esegeti cristiani per ‘allegorizzare’ il senso letterale del Cantico dei cantici nonché quello dell’Apocalisse . Il senso letterale di altri brani veniva anch'esso svalutato, talvolta scartato, a favore del senso allegorico. Ugo di S. Vittore (cfr. Par. XII 133) ammette chiaramente la presenza di alcuni elementi «assurdi» o «impossibili» nel testo della Bibbia, assurdità e impossibilità che andranno corrette grazie al senso «spirituale», cioè, mistico/allegorico: «Sic divina pagina multa secundum naturalem sensum continet, quae et sibi repugnare videntur, et nonnunquam absurditatis aut impossibilitatis aliquid ite, Spiritualis autem intelligentia nullam admittit repugnantiam (...)» . Finalmente, com’è noto, Tommaso d'Aquino decise di tagliare il nodo gordiano affermando che il senso letterale della Sacra Scrittura è sempre quello che l’autore ha l'intenzione di esprimere: «Quia vero sensus litteralis est, quem auctor intendit (...). Nec est litteralis sensus ipsa figura; sed id quod est figuratum (...). Ex quo patet quod sensui litterali sacrae Scripturae nunquam potest subesse falsum» .
Detto questo, dobbiamo prendere in esame il testo del Convivio, testo in cui Dante non adopera mai il termine ‘allegoria dei poeti’: difatti, egli scrive
«Veramente li teologi questo senso [allegorico] prendono altrimenti che li poeti» (Conv. II i 5). A questo punto, devo premettere che non posso accettare il giudizio dato da un validissimo studioso, Antonio D'Andrea, quando a proposito del passo in questione egli osserva:
All’«allegoria dei teologi», che pressupone la verità storica degli eventi e dei personaggi dell'Antico Testamento, quale risulta dall’interpretazione letterale, e mostra in essi l’anticipazione figurale, in facto e non in verbis (De trinitate XV ix 1), di Cristo, della sua venuta e della sua opera, viene così sostituita l’«allegoria dei poeti», che è tutt'altra cosa: «una veritade ascosa sotto bella menzogna» (II i 3). Il richiamo alla quadruplice esegesi scritturale sembra, quindi, svuotarsi da se stesso della sua pertinenza e finisce con l’apparire del tutto gratuito .
Non posso accettare questo giudizio, per la semplice ragione che ciò che Dante scrisse nel Convivio non ci permette nello stato attuale delle nostre conoscenze di estrapolare dal testo dantesco un’opposizione così radicale tra la valutazione del senso letterale nelle due tradizioni ermeneutiche.
Innanzi tutto, bisognerà affrontare una domanda tanto evidente quanto negletta dalla maggior parte degli studiosi sull’argomento: di quale senso parlava Dante nel fare questa distinzione tra teologi e poeti? Si trattava ovviamente del senso allegorico, come si vede chiaramente dall’affermazione che segue tale distinzione: «prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato». Bisogna insistere sul fatto che qui non esiste il minimo accenno al senso letterale. Ma si tratta di quale senso allegorico?
Prima di rispondere a questa domanda, guardiamo il testo quale ci è stato tramandato e presentato nell’edizione critica curata da Franca Brambilla Ageno:
(...) questa esposizione conviene essere litterale ed allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale, e questo è quello che […] si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere: che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e d’arte (...). Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. Lo terzo senso si chiama morale (...). Lo quarto senso si chiama anagogico (...). (Corv. Ii 2-7)
Nel tentativo di proporre una corretta interpretazione del brano appena citato, dobbiamo fermare l’attenzione su alcuni punti essenziali:
1. l’incresciosa lacuna nell’archetipo tra «L'uno si chiama litterale, e questo è quello che» e «si nasconde sotto ’l manto di queste favole». Questa lacuna viene colmata in vari modi: secondo Maria Simonelli, «L'integrazione Casella [dopo litterale] (e questo è quello che non va oltre a ciò che suona la parola fittizia, sì come ne le favole dei poeti. L'altro si chiama allegorico) è la prima che soddisfi pienamente il lettore» .
2. Nonostante tutte le congetture editoriali, non possediamo alcun referente sicuro col quale collegare direttamente queste favole.
3. Come ci ammonisce Jean Pépin, il termine allegoria indica, a seconda dei contesti, «due procedimenti (...) assai diversi: un modo di parlare e un modo di capire, un procedimento retorico e un atteggiamento ermeneutico confusi assieme a partire dall’antichità» (art. cit., p. 151B).
4. Nell’ermeneutica medievale, il senso «allegorico» aveva due significati ben distinti: il primo, termine generico che indicava una veritade ascosa; il secondo, termine specifico adoperato dai teologi nell’interpretazione della Sacra Scrittura.
Procediamo quindi per ordine. Il problema fondamentale resta quello della lacuna che esiste tra L'uno si chiama litterale, e questo è quello che e ciò che segue nell’archetipo, si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna. Il Moore propose la seguente versione contenuta in un manoscritto custodito a Parigi (Bibl. Nat., Ital. 426): «L'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre la lettera propria; l’altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde (...)» . Le altre proposte tentano per lo più di fornire un referente che spieghi l’accenno a queste favole. Ecco quella offerta dall'edizione curata da Parodi e Pellegrini e divulgata dalla Società Dantesca Italiana nel sesto centenario della morte di Dante:
[e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico] .
Purtroppo, tale congettura — anche se del tutto legittima — è stata spesso travisata in quanto gli studiosi si sono lasciati abbagliare dall’epiteto «fittizie» — che del resto non è da attribuire a Dante — nonché dalla loro tendenza ad interpretare «le favole de li poeti» come se per l’autore del Convivio ogni poesia non fosse altro che fittizia e, quindi, fabula, cioè menzogna. Bisogna ribadire che non c’è niente nel testo che confermi una tale interpretazione: Dante si preoccupa di elencare i quattro sensi secondo i quali «le scritture si possono intendere e deonsi esponere», soffermandosi sul secondo senso in particolare per insistere sul fatto che il senso allegorico possa essere interpretato e inteso in due modi assai diversi. In altre parole, la sua concezione del senso allegorico «secondo che per li poeti è usato» sembra assai vicina a quella già espressa nella Vita Nuova: cioè, ai poeti è concessa la facoltà di parlare «alle cose inanimate sì come se avessero senso o ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere», purché essi siano capaci poi di «denudare» le loro parole «da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento» . Niente, però, ci autorizza a pensare che, negli anni intorno al 1293, Dante con questa digressione concernente un certo tipo di allegoria adoperata dai poeti volesse affermare che il senso letterale dei poemi di Virgilio e Lucano fosse sempre e soltanto bella menzogna. Similmente, il poeta non intendeva certo asserire che tutte le sue poesie scritte per Beatrice non fossero altro che favole. Per quanto riguarda l’autore del Convivio, bisognerà poi tener conto del fatto che il termine estremamente allusivo di scritture si ritrova nel terzo trattato, allorché lo scrittore fa appello alla testimonianza fornita dai «poeti» e interpretata come fonte storica attendibilissima, per stabilire il luogo d’incontro per la lotta avvenuta tra Ercole e Anteo: «E questa battaglia fu in Africa, secondo le testimonianze de le scritture» (Conv. III iii 8; corsivi nostri).
Sembra, quindi, assai probabile che il rimando a queste favole non debba includere ogni opera poetica bensì un certo genere di poesia, genere che viene in seguito indicato dall’esempio più insigne e clamoroso: cioè, Ovidio, il cui nome era legato indissolubilmente all’idea del mito poetico ossia delle favole, tant'è vero che Giovanni di Garlandia scrisse una celebre opera dal titolo emblematico Integumenta Ovidii . In altre parole, nella sua definizione del senso letterale, può benissimo darsi che Dante abbia voluto spiegare ai lettori che questo primo senso poteva essere o storico/reale oppure fittizio, nel qual caso le favole dei poeti andavano intese e giustificate secondo «lo modo de li poeti», cioè rivelando la «veritate ascosa sotto bella menzogna (...). E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà» .
Quanto alla distinzione essenziale posta da Pépin e altri tra l’allegoria come procedimento retorico e allegoria come strumzento ermeneutico, il testo dantesco sembra rispettare questa diversità nel passo cruciale in cui l’autore spiega: «Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» (Conv. Il i 4; corsivi nostri). In questa dichiarazione, prendere significa senz'altro «capire, intendere» il mezzo che permette la retta interpretazione di un testo già stabilito, mentre usare significherebbe piuttosto «adoperare, impiegare» elementi allegorici nella creazione o strutturazione di un testo poetico: Dante, cioè, dichiara l'intenzione di prendere, cioè, interpretate e impiegare il senso allegorico nel modo in cui esso viene adoperato dai poeti quando si tratta di giustificare una bella menzogna .
Come indicato sopra, non solo il termine allegoria possiede due significati ben diversi, ma persino il cosiddetto senso allegorico nel contesto dell’allegoresi medievale forniva anch'esso un ulteriore esempio di duplicità semantica: poiché, come si legge nell’Epistola a Cangrande, «quanquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi» (Ep. XIII 22; corsivi nostri). In altre parole, il senso allegorico poteva essere semplice sinonimo di senso mistico e quindi riferirsi ai tre sensi contenuti nel senso letterale: cioè, il senso allegorico, accanto al senso tropologico e a quello anagogico. L'autore del Convivio, avendo dichiarato che «le scritture si possono e deonsi esponere massimamente per quattro sensi», vuol precisare che, pur facendo ricorso al sistema escogitato per l’interpretazione della Sacra Scrittura, egli non si servirà del secondo dei quattro sensi nel modo in cui esso veniva inteso e applicato da «li teologi». Un tale avvertimento o precisazione era senz'altro doveroso per un autore che si accingesse ad interpretare le proprie poesie secondo lo schema dell’allegoresi teologica . Ma è anche sintomatico della forma mentis dell'autore del Convivio, un autodidatta che si sentiva colpito dalle false accuse lanciate contro l’exul inmeritus: «Movemi timore d’infamia, e movemi disiderio di dottrina dare» (Conv. I ii 15). Così, troviamo da un lato lo sfoggio fatto della scienza acquisita e, dall’altro, la necessità di svalutare radicalmente il senso letterale delle poesie d’amore che l’autore del Convivio aveva intenzione di commentare per rivelare «la vera sentenza di quelle», sentenza fin allora rimasta «nascosa sotto figura d’allegoria» e quindi incapace di discolparlo della «infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata» (ivi, 16-17).
Ma qual è il senso allegorico come viene inteso dai teologi, cioè il primo dei tre sensi mistici, e in che modo si distingue questo da «lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato»? La risposta è chiara: allegoria fidem aedificat, formula espressa da S. Gregorio Magno e ribadita da Isidoro, S. Bernardo, Ugo di San Vittore e tanti altri, nonché dal testo citato nell’Epistola a Cangrande, quel Benjamin major di Riccardo di San Vittore: «Allegoria maxime circa fidei nostrae sacramente versatur (…) de ea fide et spe quae in nobis est» . Già nel nono secolo, Rabano Mauro (cfr. Par. XII 139) aveva definito le varie funzioni svolte dai quattro sensi, specificando: «allegoria quidem fidem, tropologia vero aedificat moralitatem» . E, nel secolo XII, Onorio di Autun offriva la definizione più lapidaria del senso allegorico: «Allegoria, cum de Christo et Ecclesia res exponitur» . Inoltre, un ben noto distico scritto da un contemporaneo di Dante, Agostino di Dacia (m. 1282) inglobava i quattro sensi interpretativi in forma mnemonica:
Littera gesta docet, quid credas allegoria,
moralis quid agas, quo tendas anagogia .
Ecco la distinzione fondamentale su cui si sofferma Dante. Non esistono indizi nel testo di Convivio II i 3-7 quale ci è pervenuto che facciano pensare che l’autore abbia voluto soffermarsi sul valore del senso letterale; infatti, egli dichiara fermamente il suo proposito di «prendere lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» piuttosto che adoperare il senso allegorico dell’esegesi biblica (per cui «de Christo et Ecclesia res exponitur»). Nella Epistola a Cangrande, invece, l’autore dà la corretta interpretazione del senso allegorico, giusta il secondo dei quattro sensi dell’esegesi biblica:
«In exitu Israel de Egypto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius». Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egypto, tempore Moysis; si ad allegoriam, significatur nostra redemptio facta per Christum (...) (Ep. XIII 21; corsivi nostri)
Torniamo ora alla vexata quaestio della definizione data della cosiddetta allegoria dei poeti: «ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna». Ancora una volta, bisognerà insistere sul fatto che non esistono prove che possono indurci a pensare che, per il Dante del Convivio, ogni poesia e ogni tipo di poesia fosse semplicemente una «bella menzogna». ll senso allegorico «si nasconde sotto ’l manto di queste favole», ma la parola chiave in questo contesto è senz’altro il termine favole. E, come apprendiamo da Isidoro:
Inter historiam et argumentum et fabulam interest. Nam historiae sunt res verae, quae facta sunt. Argumenta sunt quae etsi facta non sunt, fieri possunt. Fabulae vero sunt quae nec facta sunt, nec fieri possunt, quia contra naturam sunt. (PL LXXXII, col. 124; Etym. I xliv 5)
Niente – ripetiamo – ci autorizza a dedurre che i poeti siano condannati a creare sempre e soltanto fabule (…) quae nec facta sunt, nec fieri possunt, quia contra naturam sunt. Al contrario, per l’autore del Convivio alcuni poeti avevano scritto historias (res veras, quae facta sunt). Come si è già visto, il poema di Lucano («quello grande poeta Lucano», Conv. IV xxviii 13) viene citato come fonte storica: «E questa battaglia fu in Africa, secondo le testimonianze delle scritture» . Ancora pit significativo il rinvio al poema del «maggiore nostro poeta», chiamato in causa per dimostrare la realtà della discesa agli inferi compiuta dal padre «de l’alma Roma e di suo impero»:
Quanto spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare nello Inferno a cercare dell'anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli, come nel sesto della detta istoria si dimostra! (Conv. IV xxvi 9)
Il termine istoria applicato al poema virgiliano rispecchia il modo in cui l’Eneide veniva giudicato dal Dante del Convivio: cioè, un testo che, pur possedendo un significato allegorico (Conv. IV xxiv 9: «lo figurato»), era tuttavia capace di proclamare per mezzo del senso letterale una verità divina ed era perciò ben lungi dall'essere bella menzogna:
Onde non da forza fu principalmente preso [l’officio d’imperio] per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s’acorda Virgilio nel primo dello Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: «A costoro — cioè alli Romani — né termine di cose né di tempo pongo; a loro hoe dato imperio sanza fine» .
A questo punto, occorrerà forse rammentare il fatto già ricordato che — eccezion fatta per San Tommaso, per il quale «sensus parabolicus sub litterali continetur» (Summa Theologiae I q. 1 a. 10 ad 3) — «i teologi non rifiutano di riconoscere, ache nella Bibbia, la presenza di finzioni poetiche» . Queste finzioni occasionali andavano corrette e interpretate come le belle menzogne dei poeti: «E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà» (Conv. II i 5). Anziché dire che tutte le poesie sono belle menzogne — come vorrebbero i sostenitori dell’allegoria dei poeti basata su un senso letterale falso — Dante sembra invece insistere sul fatto che persino nei casi in cui si tratta di favolo, queste possono eventualmente riabilitarsi grazie alla veritade ascosa (ed è per questa ragione che «li savi» inventarono l’allegoria dei poeti).
Inoltre, bisognerà anche tener conto del fatto che l'esempio scelto da Dante per illustrare «lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» presenta un’ambivalenza cospicua (e voluta?): «dice Ovidio che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere». Per li poeti, questa bella menzogna significava:
che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed umiliare li crudeli cori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e d’arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. (Conv. II i 4)
Ciononostante, «li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti», per cui, conformemente al senso allegorico che trattava de Christo et Ecclesia, la figura di Orfeo veniva anche interpretata come figura Christi .
Per concludere, vorrei anzitutto richiamare ancora una volta l’attenzione del lettore allo scopo che Dante si era prefisso nel secondo e terzo trattato del Convivio: cioè, dimostrare che le canzoni Voi che ‘tendendo il terzo ciel movete e Amor che nella mente mi ragiona non erano poesie d’amore scritte per una donna reale (e quindi ispirate da «levezza d'animo»), bensì poesie scritte per esaltare «la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia» (Conv. II xv 12). Per realizzare questo suo intento, Dante si trovava quindi costretto a screditare il senso letterale delle proprie poesie: «per che l'ordine de l’opera domanda all’allegorica esposizione omai, seguendo la veritade, procedere» .
Comunque, come si è visto, è errato qualsiasi tentativo di estrapolare dal testo che abbiamo tentato di analizzare una «condanna» pronunciata dall’autore del Convivio contro ogni senso letterale poetico. Invece nel momento in cui egli affronta il valore dei vari sensi ermeneutici da applicare alle scritture, Dante si sofferma sulle divergenze che caratterizzavano le due forme del sensus allegoricus: da un lato, quella adoperata al fine di riscattare le favole poetiche («quae nec facta sunt, nec fieri possunt, quia contra naturam sunt»), e dall’altro, quella di cui si servono «li teologi» per interpretare la parola divina «cum de Christo et Ecclesia res exponitur».
The University of Western Australia