Dati bibliografici
Autore: Franco Ferrucci
Tratto da: Dante. Lo stupore e l'ordine
Editore: Liguori, Napoli
Anno: 2007
Pagine: 41-50
Nel Convivio (l’opera che doveva, secondo le aspettative, consacrare la sua fama in esilio) Dante viene preso dalla volontà di diventare un autore. La Vita nuova era stata un passaggio verso questa meta, e il poeta un appassionato apprendista. Ora occorre valicare il passo che porta dallo scolaro al maestro: poiché un autore è più di uno scrittore, è anche un “maestro”, come Dante dirà a Virgilio nel loro primo incontro. Un autore è uno scrittore dotato di autorità, e la sua autorevolezza permane nel tempo . Il primo autore fu Orfeo, il mitico creatore della poesia e della musica che col canto ammansiva le bestie e educava gli uomini. Poi vennero i classici, e fra essi Virgilio, che non fu il solo: Cicerone, Stazio, Lucano, Orazio, Ovidio, furono tutti autori; e con l’avvento di Cristo e della sua parola autorevole si crearono nuovi auctores, e nuovi ideali capostipiti, da Agostino a Boezio. Dante aspira a far parte della schiera, ma a dire il vero la sua ambizione è ancora più alta: egli vorrebbe scavalcare questo nutrito gruppo e ricongiungersi alle origini del grande mito della creazione, onde diventare al tempo stesso l’Orfeo della modernità. Essere poeta oltre che filosofo gli appare indispensabile a un tale destino. Ricomincia con lui la magnificazione del poeta come punta massima della creatività, e questa idea si tramanda fin quasi ai giorni nostri.
Nessuno si era spinto fino a quel punto nella nascente letteratura italiana, se si eccettua Guittone d’Arezzo (forse per questo assiduamente svilito da Dante in quanto fastidioso rivale nella memoria letteraria comune); e Jacopone da Todi, addirittura ignorato dal nostro autore, e, temo, del tutto volutamente. In Jacopone non troviamo la mitologia del poeta come emulo del Creatore, ma certo è in lui viva la convinzione che la scrittura sia un atto profetico e sacrale. Il silenzio di Dante sul destino di Jacopone è una macchia difficile da perdonare, visto che il suo messaggio è il più evidente preannuncio della polemica contro la Chiesa corrotta che l’esule fiorentino intraprenderà pochi anni dopo la morte del frate (1304). Il protagonismo di Dante lo ha portato a commettere altre pesanti ingiustizie, compreso l’abbandono di Guido Cavalcanti e di chiunque non si prestasse alla magnificazione di se stesso come unico poeta-profeta.
Sta di fatto che tutti i primi anni dell’esilio furono attraversati dall’ambizione di comporre il Convivio. Si può dire che per anni (fino alle rime petrose) l’ispirazione propriamente lirica ha abbandonato Dante, che è invece preso dalla volontà di erigersi un monumento al tempo stesso filosofico ed erudito in cui la sua passata produzione poetica viene trattata come un deposito scritturale da commentare e da esporre. Dante chiosa se stesso, e anche in questo caso non si può non ammirare l’originalità dell’intento, e a prescindere dai risultati. Scrivere nel presente rifacendosi continuamente alle proprie scritture dovette sembrargli un colpo vincente presso i lettori, e a lungo non si accorge che questa idea contiene un principio di sgretolamento che diverrà un fatto compiuto alla fine del quarto libro. Avrebbe dovuto ricordarsi delle proprie convinzioni, e ripetersi che un’opera nasce non solo da ambizione, ma anche da ispirazione, 0, per tornare alle nostre osservazioni, da stupore, il quale è fondamentalmente una forma d’amore. Di quest’ultimo c’è poca traccia nel Convivio, c’è soltanto la reiterata volontà di raggiungerlo ; e dove non c’è amore non c’è meraviglia.
Verso l’ambizione autoriale lo spinse l’esilio. Un esilio può essere preso in vari modi. Il primo esiliato fu Lucifero e la sua caduta ossessiona la fantasia di Dante. Che significa essere un esiliato: significa essere un reprobo? Dalle sacre Scritture giungevano altre vicende: Israele in Egitto poteva dare un’immagine di esilio come attesa di rientro nella terra promessa. Dante non sa ancora quale sarà l’esito del proprio esilio, ma si agita al suo interno per trovare, se non una direzione, almeno un’idea di se stesso. È il tema del finale del primo trattato, il più sincero e il più bello fra tutti. Un esilio può essere il male assoluto, oppure l’inizio del riscatto; questa idea lavora lentamente fino a trovare una soluzione nella Commedia che descrive il ritorno alla patria universale, la casa di Dio. S’intensifica l’immagine del pellegrino in terra, e capovolgere l’esilio in pellegrinaggio muta radicalmente il senso di un destino. Anche per questa via si può diventare un autore.
Questa chiave di lettura ci fa capire la scelta di Dante di commentare allegoricamente alcune canzoni che, com’è stato notato , al momento della composizione non erano state concepite come allegoriche. Lo dice Dante stesso nel Convivio: «E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare» (I, i, 18). Questa sua decisione, dovuta più a calcolo che a ispirazione, dobbiamo comprendere.
La trattazione dell’allegoria da parte di Dante, e l’uso effettivo che egli ne fa come scrittore, hanno un carattere duplice. Negli scritti creativi essa si ricollega alla consuetudine allegorica che era stata assai viva nella letteratura del Medioevo, oltre che in quella classica. Per il Medioevo aveva molti esempi da seguire, dal Tesoretto di Brunetto Latini, al Roman de la Rose, e il De Consolatione Philosophiae di Boezio con la figura della donna Filosofia . Questo tipo di allegoria “applicata” è già presente nella Vira Nuova (si pensi al personaggio d’Amore) e troverà espansione nella Commedia. E una pratica familiare all’operazione poetica, e si prolungherà nel simbolismo moderno oltre che nel nostro linguaggio quotidiano che è zeppo d’inconsce allegorie. L’uso che il poeta ne farà nel poema sarà assiduo e altamente originale, e certo gli sarà servito l’esercizio spasmodico a cui si è sottoposto nel Convivio. La figura allegorica è una delle forme dell’immaginazione analogica, la molla più potente della scrittura di Dante, visto che è per lui spontaneo vedere il mondo come un vasto tessuto di rimandi a un sovrasenso contenuto in ogni apparizione (questo è già vero per la Vira nuova).
D’altro canto, e in modo assolutamente sorprendente, il Convivio (II, i) si richiama all’allegoria come metodo di lettura di alcune poesie dell’autore (da questa lettura si diramerà l’insieme del contenuto del libro). Per comprendere l’audacia di questa mossa dovremo ricordare qual era stato l’intento dell’interpretazione allegorica nel Medioevo (la cosiddetta allegoria dei teologi menzionata da Dante nel passo in questione). Nella realtà essa aveva una funzione di controllo all’interno della cultura ecclesiale, e solo i testi pre-cristiani che passavano al suo scrutinio potevano sopravvivere all’esame. Il commento di Dante alle proprie canzoni ha origine nell’abitudine della glossa, il cui compito era d’interpretare la “nascosta verità” di un testo, che in realtà era il significato che l’interprete decideva di attribuirgli seguendo indicazioni dommatiche. Una tale pratica si perde nella notte dei tempi e risale agli albori del Cristianesimo . I fantasiosi commenti medievali al Cantico dei Cantici sono la prova estrema di un arbitrio intellettuale che ha pochi paragoni nella storia.
Va anche detto che questo tipo speciale di menzogna (una menzogna “morale” più che estetica) generò risultati artistici notevoli e quasi sempre involontari, come nel caso del commento di Bernardo di Chiaravalle al Cantico, e in una serie di documenti in cui l’immaginazione allegorica si sfrenò liberamente. Dante passò la vita a leggere testi che per abitudine storpiavano il senso di altri testi, e certamente la sua idea di verità ne venne influenzata. Dovette restargli in mente che il solo modo di fare accettare una verità discutibile è di legarla a una certezza che non può essere discussa; e che la fantasia interpretativa può essere un’ottima palestra per l’invenzione poetica.
L’ermeneutica cristiana era nata dal bisogno di fornire una “giusta” interpretazione dei testi biblici che non concordavano perfettamente con la verità rivelata dai Vangeli; questi ultimi, infatti, non possono essere allegorizzati perché riportano direttamente la parola di Dio. C’è qualcosa di involontariamente ironico nell’idea che gli scrittori della Bibbia (e forse anche gli scrittori pagani) non sapessero mai veramente di che cosa stessero parlando: scrivevano l’Esodo e prefiguravano la venuta del Cristianesimo; cantavano le gioie nuziali nel Cantico dei Cantici senza sapere di celebrare in anticipo le nozze mistiche fra Cristo e la Chiesa; componevano l’Eneide e non sospettavano che Enea in realtà era il Cristo che andava a fondare la capitale della fede; e così via, in una sorta di enigmistica a ritroso che fa sì che nessun personaggio pre-cristiano fosse davvero quello che credeva di essere. Un famoso esempio nella Commedia è quello di Stazio che saluta in Virgilio il suo precursore inconsapevole, non solo per il magistero poetico, ma anche per quanto riguarda la fede cristiana:
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte...
Per te poeta fui, per te cristiano
(Purg. XXII. 67-73)
Agli occhi dei teologi tutta la vicenda umana anteriore alla Rivelazione dovette sembrare un lungo sogno prima del risveglio; ma non dobbiamo pensare che credessero fino in fondo a una tale idea. C’erano dogmi che si dovevano sostenere e divulgare al di là di ogni personale convincimento, e Dante era assai più agguerrito di molti suoi interpreti. Sta di fatto che egli aprì la strada all’interpretazione allegorica di se stesso, e per una ragione che vedremo tra breve.
Anche la letteratura pagana era stata sottoposta allo scrutinio allegorico della Bibbia, seguendo un metodo interpretativo che alla fine fu messo al bando dalla Scolastica, assieme a tutto il pullulare di allegorismo cosmico medievale — ed è notevole che Dante torni invece a servirsi di entrambi. L’allegoria rivolta ai classici era nata dal bisogno di assolvere l’incoercibile amore per la bellezza dei loro testi, e anche in questo si mostrava la doppia anima del Cristianesimo . Molta critica dantesca sostiene che quando Dante cita uno scrittore pagano vuol dire che lo allegorizza all’istante. E se fosse invece vero che quelli scrittori gli piacevano al di là di ogni resistenza, com’erano piaciuti ai monaci medievali che li avevano ricopiati per puro diletto e reprimendo il sospetto di far qualcosa di indebito? Il paganesimo era penetrato così a fondo nell’anima cristiana da non poter più essere espulso: esso andava esorcizzato attraverso un’allegoria di tipo terapeutico che potrebbe ricordare quella usata secoli dopo dalla psicanalisi: in entrambi i casi si tratta di raggiungere il vero significato di un segno. Dio si servì a lungo di messaggi indiretti in attesa della venuta del Cristo, il quale non userà allegorie ma parabole, ovvero similitudini esplicite fra il mondo dell’umano e del divino – in quanto egli è l’unico a conoscere entrambi. Dopo l’avvento del Cristo nessuna letteratura potrà pretendere di raggiungere un livello tale da consentire la lettura allegorica. L’interpretazione dei testi biblici sarà infine affidata ai teologi approvati dalla Chiesa che è la sola depositaria della Verità.
Che fare poi delle letterature post-scritturali all’interno del mondo cristiano? Tommaso d’Aquino giunse a negare che esse potessero essere interpretate allegoricamente. È quello che si potrebbe chiamare “il rasoio di Tommaso”, ed era inteso a porre fine alle disordinate interpretazioni che si rivolgevano a ogni aspetto della creatività, e anche alla realtà naturale, come nel caso del cosidetto “allegorismo cosmico”. A Tommaso importava poco che questo tipo di allegorismo fosse propizio all’espressione poetica, la quale non sembra poterne fare a meno. Queste osservazioni da letterati non potevano riguardare chi voleva fondare una filosofia della verità rivelata; e quindi l’opera profana non supera il livello letterale e significa soltanto ciò che il suo autore intende che significhi . Il Cristo sancisce la fine dell’allegoria, in quanto non c’è più ragione di parlare per enigmi ; e se un autore profano decide di farlo è un problema che lo riguarda, e non riguarda certamente Dio o i teologi della Chiesa. La posizione di Tommaso sulle ambizioni allegoriche profane è quasi sprezzante .
Qui Dante si stacca silenziosamente dal suo maestro. La sua complessa articolazione del sistema allegorico è un tentativo di compromesso fra l’allegoria dei poeti (quella per cui Dante dà l’esempio di Orfeo in Ovidio) e l’allegoria dei teologi . Inoltre l’allegoria di Dante si rivolge a una propria opera profana, le poesie commentate nel Convivio, prima ancora che a una propria opera d’ispirazione religiosa, la Commedia. Così facendo egli rifiuta implicitamente la definizione tomistica secondo cui l’opera profana «non supera il livello letterale», e in ambo i casi questa posizione sarebbe stata recisamente condannata da Tommaso . Se un’opera profana non può essere allegorizzata, tanto meno si può ammettere l’allegoria di un’opera scritta da un profano; specie se il contenuto allegorico viene definito dallo stesso autore! Ma neanche Dante verosimilmente credeva alla propria possibilità di allegoria “teologica”: tant'è vero che al termine della presentazione conviviale avverte con tutta calma che «sovra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e tempo si converrà». Qui come altrove egli lascia aperta la possibilità d’interpretarlo teologicamente; il lettore sarà chiamato a collaborare all'impresa, e non vi sarà resistenza da parte dell’autore:
Mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani!
(Inf. IX, 62-63)
Se Dante sentì il bisogno di additare una simile strada fu perché essa gli appariva come il modo più diretto di legittimarsi in quanto autore. L'intera tradizione culturale che sta alle sue spalle e intorno a lui, e che si rivolge alla Bibbia come anche ai testi della classicità latina in un vasto reticolato d’interpretazioni fantasiose, lo ha con- vinto che non è possibile ottenere il rango di autore se esso non viene comprovato, e addirittura istituzionalizzato, dalla presenza delle glosse allegoriche sulla propria opera. Se uno scrittore non viene allegorizzato, allora sì che ha ragione Tommaso: la sua opera non supera il livello letterale e farà parte dell’“infima dottrina” della produzione profana.
La scommessa dantesca era temeraria, perché non esisteva uno scrittore moderno a cui fosse toccato un tale onore. Dante vuol essere il primo della serie, e forse anche l’ultimo, e la megalomania dispiegata in un tale progetto fa parte della natura del personaggio. Gli antichi commentatori allegoristi della Commedia seguiranno fedelmente una traccia che viene riproposta nella lettera a Cangrande; e lì comincia l’ermeneutica dantesca che obbedisce a indicazioni fornite dall’autore, tra le quali campeggia quella di presentare la propria opera come simile alla Sacra Scrittura e agli autori classici allegorizzati da molti commentatori cristiani . Tale lettura si prolunga fino ai giorni nostri, e malgrado l’inverosimiglianza di una tale ambizione .
Dante, quindi, cominciò lui stesso a indicare come gli sarebbe piaciuto esser letto dai lettori eruditi, i quali sono sempre disposti a cadere nella trappola delle intenzioni teoriche: come uno scrittore a cui si può applicare l’allegoria, quindi come un Autore. E di conseguenza legò le proprie canzoni alle ‘scritture’ a cui spesso accenna nel Convivio: un termine composito che ingloba creatività profana e eredità biblico-evangelica.
Ma sarà prima o poi necessario constatare che né le poesie del Convivio né la Commedia sono opere interpretabili allegoricamente in senso teologico, e questo perché l’autore (al contrario, secondo la Scolastica, degli scrittori della Bibbia) è sempre consapevole di quando usa la propria allegoria. Ad esempio, la sfilata sacra nel canto XXIX del Purgatorio è volutamente allegorica, e quindi è del tutto simbolica in senso profano, come lo erano stati i testi di Boezio e di Brunetto Latini. Altrettanto va detto delle innumerevoli apparizioni del poema, dalle tre furie di Inferno IX al Veglio di Creta di Inferno XIV, da Matelda del Paradiso terrestre all'Aquila paradisiaca, per non citarne che alcune: sono tutte allegorie create dal poeta stesso, anche se riprese da vari depositi mitologici, e come tali appartengono a un universo di discorso poetico e sostanzialmente auto-referenziale. San Tommaso osserverebbe che esse non possono andare oltre la volontà espressa da chi le ha scritte, la quale del resto è abbastanza ampia e profonda da tenerci sempre impegnati. E aggiungerebbe che è impossibile allegorizzare teologicamente opere scritte dopo la venuta del Cristo, e che agli scrittori profani, anche a quelli d’ispirazione religiosa, non resta che l’allegoria dei poeti.
Di tal genere è la strepitosa fioritura di sensi multipli che percorre la Commedia; anche se in essa il poeta vorrà apparire come il primo autore cristiano che abbia ricevuto da Dio il dono di parlare per allegorie che aspirano alla dignità di parabole pronunciate dal Cristo . Il colpo gli riuscirà per la sua grandezza di poeta e per nessun’altra via: come spesso avviene in letteratura, vincerà la seduzione. Molti crederanno alla realtà del suo viaggio nell’oltremondo, come testimoniano varie leggende; altri si limiteranno a credere che tutto ciò che egli scrive porta in sé i quattro sensi delle Scritture. La seconda credenza è in un certo modo la versione colta della prima.
Questa vicenda dell’allegoria dantesca mi appare come uno dei più singolari esempi di fascinazione nell’intera storia della letteratura, e non si sa se si debba ammirare maggiormente la fredda strategia di Dante nell’ispirarla o la fedeltà dei commentatori nel seguirla. Intanto il Convivio si scontra con difficoltà che si riveleranno insormontabili, e malgrado l’ostinato volontarismo che guida quest’opera in ogni sua fase.