Dati bibliografici
Autore: Juan Varela-Portas de Orduña
Tratto da: "I passi fidi". Studi in onore di Carlos López Cortezo
Editore: Aracne, Roma
Anno: 2020
Pagine: 513-544
su cuerpo dejarà, no su cuidado; seràn cenizas, mas tendran sentido; polvo seran, mas polvo enamorado.
Francisco de Quevedo
Come abbiamo già argomentato nell’introduzione a questo volume, a nostro parere, il momento chiave dell’opera filologica di Carlos Lopez Cortezo si produce quando scopre il valore allegorico delle similitudini tipo-quadretto (long tailed similes) della Commedia e, con esso, la loro “analiticità”, cioè la loro capacità di essere suddivise in elementi a loro volta significativi, in adattamento di una tecnica semiotica esegetica del dodicesimo secolo che Dante conosceva bene. L'importanza di questa scoperta non attinge soltanto al ruolo della figura retorica in sé ma, come abbiamo detto nell’introduzione, è dovuta all’apertura di uno “sguardo allegorico” con cui leggere la Commedia, molto attinente al “pensiero allegorico” dell’autore (come Buti lo chiama nel commento al XXIX del Purgatorio) e alla concezione del mondo medievale. Questo sguardo si proietta anche, in altri lavori di Lépez Cortezo, su altre risorse testuali e narrative, come la interpretatio nominum, i gesti, l’orografia infernale e purgatoriale, le figure e colori dei cieli astrali, le perifrasi geografiche e astronomiche, le vicende della peripezia, ecc., che hanno un ruolo letterario che va al di là della rappresentazione figurativa letterale e cioè come veicoli di sensi obiettivi attaccati razionalmente — e quindi coscientemente come parte dell’intentio auctoris — alla lettera del testo.
Il cielo di Marte è uno degli episodi dell’opera dove si può dimostrare con più intensità la fecondità di questo “sguardo allegorico” e del ruolo allegorico delle similitudini analitiche. E non perché l’episodio di questo cielo spicchi per il numero o la bellezza delle sue similitudini, ma per il fatto di essere il cielo in cui il famosissimo colloquio fra Dante e Cacciaguida ha sollevato giustamente tutto l’interesse e l'ammirazione di lettori e studiosi, portandoli a importanti considerazioni storiche, biografiche e ideologiche, ma lasciando in un secondo piano molto oscurato le similitudini e, più in generale, l’iconografia del cielo e i peculiari avvenimenti e rapporti che si succedono fra i tre personaggi dell’episodio. E invece, questi elementi costruiscono la cornice entro la quale si svolge il discorso di Cacciaguida e perciò, seguendo una elementare logica testuale, lo devono condizionare fortemente nel suo senso e nella sua portata, stabilendo il suo fondamento etico e teologico. Infatti, non è da trascurare il fatto che nella descrizione del cielo, dei beati che in esso appaiono e dello stesso Cacciaguida, Dante-autore usi ben quattro similitudini analitiche praticamente una dietro l’altra (Paradiso XIV 97-102, 109-117, 118- 23; XV 13-24). Cercheremo di mostrare in queste pagine di omaggio al nostro maestro che la loro analisi, seguendo i suoi metodologici passi “fidi”, serve in modo privilegiato per capire il senso dell’episodio e del discorso dell’antenato.
Per agevolare la chiarezza espositiva, non seguiremo l’ordine testuale ma inizieremo con la similitudine che descrive il modo in cui Cacciaguida discende lungo la croce formata dai beati militanti per avvicinarsi a Dante e incominciare il dialogo.
Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che dalla parte ond’ e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì risplende;
né si partì la gemma del suo nastro,
ma per la lista radial trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
(Par. XV 13-24)
Come di solito nelle similitudini analitiche, il livello letterale del testo offre al lettore una serie di precisazioni apparentemente eccessive, che non servono né figurativamente né narrativamente — quelle appunto che fecero sì che Croce le caratterizzasse come «piccole liriche». La più importante ci indica una caratteristica che più avanti vedremo anche nelle similitudini che la precedono: ci troviamo davanti a un fenomeno naturale in cui si deve distinguere quello che si riesce a percepire da quello che veramente succede. Allo stesso modo che in Par. XIV 97-102 la Via Lattea appare un albore che, in verità, è l’effetto di una miriade di stelle che, con diverse virtù, rimangono fuori della portata visiva dell’osservatore; e allo stesso modo in cui in Par. XIV 118-23 la melodia che si riesce a percepire nella musica della giga e dell’arpa è prodotta da un insieme di note individuali che sfuggono all’ascoltante; così, il fenomeno astronomico qui descritto può sembrare una stella che cade («e pare stella che tramuti loco»), ma in verità è una sùbita infiammazione di vapori secchi («sùbito foco»). D'altra parte, si può anche osservare un’importante somiglianza fra questa similitudine e quella di Par. XIV 109-117: allo stesso modo che l'ombra in cui si ripara il dormiente è interrotta dal raggio di luce nel quale si fa corpo la polvere, così in questa similitudine la notte tranquilla e pura è illuminata da un barlume di luce.
Ma per vedere la portata di questi tratti comuni dobbiamo prima identificare i diversi elementi che vengono evidenziati esplicitamente a livello letterale nella similitudine, come tratti distintivi dell’immagine della stella cadente:
Tratto distintivo a) C'è all’inizio una notte tranquilla e pura («Quale per li seren tranquilli e puri»);
Tratto distintivo b) Si produce un'illuminazione sùibita che sembra una stella che cade («e pare stella che trasmuti loco»);
Tratto distintivo c) ma che veramente si tratta di un’infiammazione di vapori caldi che, visto che il fuoco ha il suo luogo naturale nella sfera ignea, ascendono («discorre ad or ad or sùbito foco»);
Tratto distintivo d) in essa non si perde nulla nel luogo dove si produce l’infiammazione («se non che da la parte ond’ e’ s'accende / nulla sen perde);
Tratto distintivo e) l'infiammazione e l’ascensione sono istantanee («ed esso dura poco»);
Tratto distintivo f) il fenomeno naturale muove gli occhi che prima erano fermi («movendo gli occhi che stavan sicuri»), il che, al di là dall’indicarci il movimento degli occhi di Dante-personaggio seguendo la luce discendente di Cacciaguida, fa riferimento alla solita reazione popolare di meraviglia davanti a questo fenomeno naturale.
Ora, se facciamo l’esercizio mentale, tanto comune nel mondo medievale, di stabilire il corrispondente invisibile o intelligibile di quello che si percepisce coi sensi, vedremo che la similitudine ci presenta iconicamente alcuni elementi fondamentali che, per il fatto di rompere la coerenza testuale del livello letterale, aggiungono significati necessari per capire il fenomeno spirituale e morale del martirio. Non si dimentichi che Cacciaguida, il protagonista di questa similitudine, si presenta non soltanto come combattente per la fede ma innanzi tutto come martire:
Quivi fu’ io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt’ anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace»
(Par. XV 145-48).
Inoltre, si deve considerare che il martirio, in senso ampio, «consistit in debita sustinentia passionum iniuste inflictarum», il che farà apparire Dante-personaggio, nella profezia di Cacciaguida del canto xvII, come un protomartire. Ciò vuol dire che la nostra similitudine anticipa iconicamente non soltanto aspetti fondamentali del significato di Cacciaguida, ma anche dello stesso esilio di Dante.
Tratto distintivo b: A un primo sguardo e per l’osservatore che non sappia di cosa veramente si tratti, il martirio — e l’esilio — può sembrare una semplice morte, una caduta, se non viene considerata l’autentica natura di questa morte; può sembrare addirittura una morte spirituale, poiché il martire muore senza confessione.
Tratto distintivo c: Invece, dietro questa apparenza, si nasconde la vera essenza del martirio, il quale opera, inanzi tutto, «per potissimum dilectionis et affectionis fervorem, secundum illud Ioan. XV, maiorem hac dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis pro amicis suis [Jn. 15 13]». Così, questa infiammazione di vapori secchi che si legge nel livello letterale rappresenta iconicamente che il martirio, per essere tale, ha bisogno di essere un atto intriso di carità («sine caritate non valet»):
«ad actum martyrii inclinat quidem caritas sicut primum et principale motivum, per modum virtutis imperantis, fortitudo autem sicut motivum proprium, per modum virtutis elicientis. Et inde etiam est quod martyrium est actus caritatis ut imperantis, fortitudinis autem ut elicientis. Et inde est quod utramque virtutem manifestat. Quod autem sit meritorium, habet ex caritate, sicut et quilibet virtutis actus. Et ideo sine caritate non valet.»
Questo stesso aspetto viene ribadito nell'immagine con cui Cacciaguida, alla fine dell’episodio, presenta a Dante gli altri beati di questo cielo:
Però mira ne’ corni de la croce:
quello ch’io nomerò, lì farà l’atto
che fa nube il suo foco veloce
(XVIII 33-36).
Come in molti altri passi del Paradiso, si usa qui l’immagine del fulmine («il suo foco veloce») per rappresentare l’accensione della carità, parallelismo basato nel fatto che il fulmine era causato dall’esplosione di vapori caldi in lotta coi vapori umidi della nube (Purg. V 37-39), fenomeno quindi molto vicino a quello della stella cadente, in immagine che raggiungerà la sua più completa formulazione in Par. XXIII 40-45.
Il martirio non significa, quindi, sacrificarsi gratuitamente ma farlo come testimonianza e conseguenza della fede in Cristo, come vedremo più avanti, e come risultato di un ardente slancio di amore verso Lui. È quello che ribadisce pure l’immagine del «foco dietro ad alabastro» (v. 24), nella quale l’alabastro per la sua bianchezza iconizza la fede, mentre il fuoco, per il suo calore e la sua virtù ascendente, rappresenta la carità. Nel martirio devono darsi entrambe, perché «Quia tolerare mortem non est laudabile secundum se, sed solum secundum quod ordinatur ad aliquod bonum quod consistit in actu virtutis, puta ad fidem et dilectionem Dei. Unde ille actus virtutis, cum sit finis, melior est». Infatti, il fatto che nel termine della comparazione il fuoco si trovi dietro l’alabastro riproduce esattamente il rapporto fra le due virtù, poiché, anche se la fede è cronologicamente anteriore alla carità, questa invece è quella che si trova dietro formandola, cioè quella che la fa essere propriamente una virtù (fede formata e non fede informe), poiché è quella che corrobora e comanda (“impera”) le altre virtù.
D’altra parte, anche se non esplicitato verbalmente, c’è un elemento implicito ovvio nella similitudine: l’ascensione di questi vapori infiammati provocata dalla stessa natura del fuoco, che tende verso il suo luogo naturale (vd. Par. I 115). Così, la discesa di Cacciaguida lungo la croce è veramente un’ascesa. Come vedremo più avanti, questo rappresenta il fatto che il martirio anche se, come abbiamo detto, può sembrare una caduta, suppone in realtà un’ascesa immediata alla beatitudine, giacché costituisce quello che si conosce come “battesimo di sangue”, per cui sono perdonati istantaneamente tutti i peccati; il che spiega la subitaneità con la quale Cacciaguida passa dal martirio alla pace del Paradiso: «e venni dal martiro a questa pace» (XV 148). Quello che esternamente sembra una caduta è invece, grazie all’amore, ascensione immediata al Paradiso.
Tratto distintivo d: Il martitio è un tipo di sacrificio per il quale l’uomo offre a Dio un bene corporale perché l’essenza del sacrificio, come quella del martirio, è quella di essere segno di un processo interiore di fede e devozione. Orbene, nel martirio, come in ogni sacrificio, si produce un processo di distruzione dell’oggetto sacrificato che tecnicamente si conosceva come inmutatio dell'oggetto (nel caso del martirio, del corpo umano), termine tecnico al quale nella similitudine fa riferimento l’espressione «stella che tramuti loco» (v. 16). Nell’anima della persona invece, a differenza di quanto accade nel corpo, là dove s’accende l’amore di carità («da la parte ond’ e’ s’accende») «nulla sen perde» (vv. 17-18), cioè non si produce l’estrema “mutazione” e sacrificio, ma appunto il processo contrario. In questo modo, la precisazione del fenomeno naturale, che sembra eccedere a livello letterale, non è dovuta solo alla pignoleria scientifica dell'autore ma serve per indicare che nel martirio di Cacciaguida, come in ogni martirio, una cosa è quello che succede esternamente al corpo, che si trasmuta e muore, e un’altra cosa contraria è quello che succede veramente all’anima, che, rimanendo immutata, cioè non perdendo nulla della sua essenza, s'accende di carità e raggiunge la santità eterna.
Tratto distintivo e: Il martirio, come l’apparente caduta della stella («ed esso dura poco», v. 18), è un processo momentaneo in cui la sofferenza dura poco e gli effetti sono immediati.
Tratto distintivo f: Il martirio ha innanzi tutto un valore di testimonianza davanti a coloro che hanno notizia di esso. È cioè un fatto esemplare che muove, sollecita l'animo dei cristiani, nello stesso modo in cui la stella cadente fa sorprendere, ammirare e mettere in moto gli occhi fermi degli osservatori.
L’allegoria della Commedia non si svolge però a un solo livello. Si tratta di un'importante questione teorica sulla quale non ci possiamo soffermare. Diremo soltanto che nel Paradiso oltre al livello allegorico ce n'è un altro anagogico, e che in questo caso sembra logico ipotizzare che il sacrificio di Cacciaguida e, con esso, quello degli altri spiriti militanti che, sebbene non tutti martiri, offrirono pure un loro bene corporale come testimonianza della fede in Cristo, rappresentino il più alto sacrificio, il più alto martirio della storia umana, quello di Gesù Cristo. Non si deve dimenticare che questi beati formano la figura della croce, simbolo della Passione, e che in quella croce «lampeggia» Cristo:
Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché in quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch'io non so trovare essemplo degno;
ma chi prende sua croce e segue Cristo
ancor si scuserà di quel ch’io lasso
vedendo in quell’albòr balenar Cristo.
(Par XIV 103-108)
Come spiega Mattalia ad locum: «L'identità delle due figure [croce e figura di Cristo] vorrà significare, simbolicamente, che l’idea di sacrificio è intimamente consustanziale al messaggio e alla missione del Dio-Uomo, e che non è possibile pensar l’una senza l’altra». La stessa conclusione la possiamo trarre dall’analisi della nostra similitudine, confermando che i tratti distintivi dell’immagine si possono collegare con le principali caratteristiche del sacrificio di Cristo.
Tratto distintivo a: Nel momento della venuta di Cristo, il mondo si trovava, con l'Impero, in un momento di pace e benessere assoluti, necessari per preparare il suo arrivo (com’è necessario che l’aria sia serena perché si possa vedere la stella cadente), come indicato, fra altri testi danteschi, in Mon. I xiv 1-2 o Par. VI 55-56, dove si usa appunto il termine sereno, anche se nel suo uso come aggettivo: «Poi, presso al tempo che tutto il ciel volle / render lo mondo a suo modo sereno». Era quindi notte, poiché era il tempo della legge antica nel quale l’umanità si trovava ancora sotto il peccato originale, senza la grazia portata da Cristo, ma era notte serena e tranquilla, come quella della nostra similitudine.
Tratto distintivo b: La passione di Cristo può sembrare una caduta, cioè un’umiliazione per la quale Dio si fa uomo e si lascia vessare, come se ci fosse stato qualche cambiamento o abbassamento nella divinità, se si interpretano in modo sbagliato le parole di papa Leone in un sermone De Nativitate che raccoglie Tommaso d'Aquino: «Unde et Leo Papa dicit, in sermone de Nativ., suscipitur a virtute infirmitas, a maiestate humilitas».
Tratto distintivo d: È invece dogma di fede che «Deus per incarnationem nullo modo mutatus fuit»: «incarnationis mysterium non est impletum per hoc quod Deus sit aliquo modo a suo statu immutatus in quo ab aeterno non fuit, sed per hoc quod novo modo creaturae se univit, vel potius eam sibi». O, in altre parole: «humana natura assumpta a verbo Dei est meliorata, ipsum autem verbum Dei non est mutatum; ut exponit Augustinus, in libro octogintatrium quaestionum [Lib. LXXXIII quaest. 73]». E ancora: «Deus, assumendo carnem, suam maiestatem non minuity.
Tratto distintivo c: Certamente, la passione di Cristo è un atto di carità: «quantum ad caritatem, quae maxime per hoc excitatur. Unde Augustinus dicit, in libro de catechizandis rudibus, quae maior causa est adventus domini, nisi ut ostenderet Deus dilectionem suam in nobis?». Inoltre, che la sua morte fosse un sacrificio si deve proprio al fatto che la causa di essa è stata la carità (si ricordi: l’infiammazione di vapori caldi nel livello letterale): «passio Christi fuit sacrifici oblatio inquantum Christus propria voluntate mortem sustinuit ex caritate». E ancora: «Christus autem, ut ibidem subditur [Agostino, De civ. Dei XX], seipsum obtulit in passione pro nobis, et hoc ipsum opus, quod voluntarie passionem sustinuit, fuit Deo maxime acceptum, utpote ex caritate proveniens. Unde manifestum est quod passio Christi fuit verum sacrificium».
Tratto distintivo f: La passione di Cristo produce un effetto esemplare edificante, commuove l’animo dell’uomo e lo stimola: «quantum ad rectam operationem, in qua nobis exemplum se praebuit. Unde Augustinus dicit, in quodam sermone de nativitate domini [Serm. 371 2], homo sequendus non erat, qui videri poterat, Deus sequendus erat, qui videri non poterat. Ut ergo exhiberetur homini et qui ab homine videretut, et quem homo sequeretur, Deus factus est homo».
Così analizzati i tratti iconici distintivi della similitudine, e collegati con un loro ancora ipotetico referente invisibile, possiamo provvisoriamente concludere che la figura di Cacciaguida, e, per estensione, quella degli spiriti militanti del cielo di Marte raffigurati in una croce bianca sotto fondo rosso, di cui in questo cielo lui è “portavoce”, rappresentano — e allo stesso tempo analizzano — la nozione di martirio e sacrificio come testimonianza di fede, e la passione di Cristo come il più elevato sacrificio che Dio fece per l’uomo. Vediamo ora se le altre similitudini confermano questa idea e che nuovi significati aggiungono ad essa.
La similitudine della Via Lattea indica, nel suo senso letterale, il colore e l’aspetto che adottano i beati di questo cielo nel momento di presentarsi davanti a Dante:
Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra ’ poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo.
(Par. XIV 97-102)
Con più precisione, indica che Dante non vede direttamente i beati ma soltanto un loro riflesso, giacché loro sono «nel profondo / Marte» (vv. 100-101) e perciò non riesce a distinguere la loro individualità ma l’effetto luminoso che formano come un insieme. Lo conferma il noto passo del Convivio in cui Dante tratta le diverse spiegazioni che i saggi avevano dato di questo fenomeno astronomico — il che spiega il v. 99: «sì che fan dubbiar ben saggi» —, e in cui sceglie quella di Tolomeo, Avicenna e la vecchia traduzione di Aristotele:
«Nella Vecchia dice che la Galassia non è altro che la moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro apparisce quello albore lo quale noi chiamiamo Galassia; e puote essere, ché lo cielo in quella parte e più spesso, e però ritiene e ripresenta quello lume. E questa Ooppinione pare avere, con Aristotile, Avicenna e Tolomeo.
Onde, con ciò sia cosa che la Galassia sia uno effetto di quelle stelle le quali non potemo vedere, se non per lo loro effetto loro intendiamo quelle cose.»
Così, quello che si vede della Galassia, cioè quello che Dante vede dei beati, è piuttosto una rappresentazione, un effetto dal quale si desume la loro autentica veracità.
Secondo noi, questo è il tratto più importante del senso allegorico della similitudine poiché il combattimento di questi beati, inteso come sacrificio o martirio — quest’ultimo nei casi di Orlando, Giuda e Cacciaguida —, è innanzi tutto un atto esteriore e una testimonianza di fede. Il senso primario della preposizione “per” nel sintagma “combattenti per la fede” è causale — combattono a causa della loro fede — rimanendo il senso finale — combattono per aumentare la fede nel mondo — come secondario e conseguenza del primo: il sacrificio personale che fanno del loro bene corporale è, come abbiamo detto, una dimostrazione di fede che muove la cristianità con il loro esempio. Perché, infatti, caratteristica basica della fede è quella di necessitare di manifestazioni esterne che la rendano pubblica e la diffondano. Sono i cosidetti atti esterni di fede o confessioni o professioni di fede.
Infatti, questo coincide con la già accennata essenza di ogni sacrificio, cioè quella di essere una rappresentazione esteriore di qualcosa che succede veramente nell’anima. Così lo spiega Tommaso:
«huiusmodi exteriora non exhibentur Deo quasi his indigeat, secundum illud Psalm., numquid manducabo carnes taurorum, aut sanguinem hircorum potabo? Sed exhibentur Deo tanquam signa quaedam interiorum et spiritualium operum, quae per se Deus acceptat. Unde Augustinus dicit, in X de Civ. Dei, sacrificium visibile invisibilis sacrifici sacramentum, idest sacrum signum, est.»
Questa è anche la ragione per la quale la similitudine specifica che la Galassia si estende fra i due poli del mondo (vv. 98-99), giacché uno rappresenta le cose visibili e l’altro le cose invisibili: «Ancora: per lo polo che vedemo significa le cose sensibili, delle quali, universalmente pigliandole, tratta la Fisica; e per lo polo che non vedemo significa le cose che sono senza materia, che non sono sensibili, delle quali tratta la Metafisica».
In questo modo, il sacrificio-martirio è innanzi tutto un segno (sacrum signum) visibile di una verità invisibile, o, come succede con la Via Lattea, e per estensione con la figura dei beati nel cielo di Marte, unisce l’àmbito invisibile con l’àmbito visibile, partendo dal primo per arrivare al secondo. Nella sua manifestazione visibile è, innanzi tutto, la rappresentazione della fede in Cristo, da dove deriva il colore bianco della Croce-Galassia. Riguardo a questo aspetto, non è superfluo aggiungere questo passo della Somma tomista:
«Sicut autem fortitudo civilis firmat animum hominis in iustitia humana, propter cuius conservationem mortis pericula sustinet; ita etiam fortitudo gratuita firmat animum hominis in bono iustitiae Dei, quae est per fidem Iesu Christi, ut dicitur Rom. III. Et sic martyrium comparatur ad fidem sicut ad finem in quo aliquis firmatur, ad fortitudinem autem sicut ad habitum elicientem.»
Resta così chiaro in questa similitudine, che, non si dimentichi, è la prima nell’ordine testuale, in quale senso i beati di questo cielo sono testimoni della fede cristiana: i loro atti furono professioni di fede, in rapporto diretto col sacrificio e il martirio — martirio etimologicamente vuol dire, come si sa, testimonianza — perché questi furono “imperati” dalla virtù teologale e, perciò, segno o simbolo di essa.
A questo punto, si rende necessario riprendere l’iconografia dei colori per precisarla nella sua alternanza di colore rosso e colore bianco. Troviamo da una parte il fondo rosso del pianeta Marte, che si fa ancora più rosso all’arrivo di Dante (XIV 85-87); sopra questo sfondo rosso appare la croce bianca all’interno della quale s’illuminano le luci, di nuovo rosse, dei beati. A nostro parere, si deve quindi distinguere il rosso del pianeta e il rosso dei beati. Nella voce «Marte» dell’Enciclopedia Dantesca, Giorgio Padoan indica che
«un color rosso [quello di Marte] che appare qui [XIV 85-87] sottolineato in quanto Dante] vuole allegoricamente affermare che grande ardore di carità è in coloro che combattono, o forse (se l’espressione usata si riferisce al colore del cielo precedente, quello del Sole) che i combattenti presenti in M[arte] mostrano maggior ardore di carità che non gli stessi sapienti».
Tuttavia, come abbiamo già visto nell’analisi della similitudine della stella cadente, quello che rappresenta la carità dei beati combattenti è il loro colore rosso all’interno della croce, perché è quello che si trova dietro il bianco della fede come rappresentazione che la carità informa e impera sulla fede. Più avanti vedremo che il risplendere dei beati quando si incrociano o si uniscono (XIV 110-11) è anche simbolo della carità. Perciò, il colore rosso di Marte non può non essere il colore del sacrificio, come afferma Mattalia in nota a XIV 108, il che risulta logico se si pensa che è questa appunto la sua peculiarità di fronte agli altri cieli, e non la carità, che è comune a tutti i cieli e a maggiore misura che si ascende nel viaggio astrale. Così, la tendenza sensitiva all’ira e la violenza che gli influssi di Marte propagano in terra, questi beati sono riusciti a trasformarle in ira giusta e violenza positiva per mezzo del loro sacrificio.
Nello stesso senso, ma a livello anagogico, la passione di Cristo fu un sacrificio, e, come tale, anche un segno di un’altra cosa:
«Augustinus ibi [nel libro x de La Città di Dio, nel passo già citato in cui dice che il “sacrificium visibile invisibilis sacrifici sacramentum, idest sacrum signum, est?’ loquitur de sacrificiis visibilibus figuralibus. Et tamen ipsa passio Christi, licet sit aliquid significatum per alia sacrificia figuralia, est tamen signum alicuius rei observandae a nobis, secundum illud I Pet. IV, Christo igitur passo in carne, et vos eadem cogitatione armamini, quia qui passus est in carne, desiit a peccatis; ut iam non hominum desideriis, sed voluntati Dei, quod reliquum est in carne vivat temporis.»
Infatti, allo stesso modo che la Galassia si estende fra il polo del visibile e il polo dell’invisibile, l'incarnazione di Cristo è la massima manifestazione visibile delle invisibili verità divine, la massima comunicazione storica di Dio verso l’uomo, e, così, come dice Tommaso, è conveniente che Dio si incarnasse perché «llud videtur esse convenientissimum ut per visibilia monstrentur invisibilia Dei».
La similitudine della polvere illuminata ribadisce l’aspetto che davanti a Dante presentano i beati. La differenza con la precedente, quella di Galassia, è che nella prima si punta di più sull’aspetto generale della croce e il suo colore, mentre nella seconda si descrive il brulichio luminoso dei beati all’interno della croce:
Di corno in corno e tra la cima e ’l basso
si movien lumi, scintillando forte
nel congiungersi insieme e nel trapasso:
così si veggion qui diritti e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,
le minuzie d’ i corpi, lunghe e corte,
moversi per lo raggio onde si lista
talvolta l’ombra che, per sua difesa,
la gente con ingegno e arte acquista.
(Par. XIV 109-17)
Sono due, a nostro parere, gli aspetti che questa similitudine ci illumina. In primo luogo, i rapporti fra il martirio o testimonianza di fede e la passione di Cristo. Questo si desume dal fatto che nel livello letterale il raggio di luce che strappa l'oscurità del recinto ombroso si identifica con la croce, simbolo della passione di Cristo, e la polvere che quella luce illumina, con i beati che pullulano nella croce, e che, come abbiamo visto, sono allegorie del martirio, o, più ampiamente, della testimonianza della fede. La similitudine, così, ci indicherà in che cosa consista questa illuminazione con cui il raggio-croce-passione di Cristo rivela la polvere-beati-testimoni di fede.
In secondo luogo, la similitudine indica come arriva quel raggio di luce fino a colui che lo contempla, che in questo caso può essere identificato solo con Dante o con quello che lui rappresenta (l’anima umana verso Dio). Tratteremo prima questo secondo tema.
Per fare ciò, dobbiamo necessariamente rimandare alla nostra analisi della similitudine del prato in ombra illuminato dal raggio solare in Par XXIII 79-84. Si noti la somiglianza di quella immagine con questa che qui analizziamo: nei due casi ci troviamo con un raggio di luce — che in entrambi i casi rappresenta Cristo o qualche aspetto di Lui — che interrompe uno spazio ombroso. La differenza risiede nel fatto che in quella l’ombra viene provocata dall’elevazione e occultamento dietro una nube che il sole-Cristo fa da sé per non accecare Dante, mentre nel passo che ora studiamo l’ombra viene creata dall’uomo stesso, «con ingegno e arte» (v. 117) e «per sua difesa» (v. 116). In entrambi i casi, Dante ha appena avuto una visione che supera la sua capacità, anche se in misura distinta: nel canto XXIII vede fugacemente l’ipostasi del Verbo che appare attraverso la Sua natura umana; in questo canto, la figura di Cristo nella croce, immagine della passione. Ci troviamo quindi davanti a due casi di obumbratio mentis, cioè della presentazione della divinità adombrata in immagini per adeguarsi alla esigua capacità visuale-cognoscitiva umana e non accecare l’uomo con la sua chiarità (seguendo il noto episodio biblico della transfigurazione di Cristo).
Infatti, come spiega Riccardo di san Vittore nel De Gratia Contemplationis, quando l’uomo si occulta dietro qualcosa lo fa in due modi o con due finalità: per nascondersi («in absconsionem») o per prottegersi («in protectionem»). Nel primo caso, l’uomo si nasconde «a turbine e a pluvia»; nel secondo caso, si protegge dall’ecceso di chiarità e calore. Questo modo, al quale rinvia, a nostro parere, il sintagma, «per sua difesa», si raggiunge quando nella grazia ricevuta «diligenter insistimus» e «cum tanto studio et desiderio», che crediamo è a quello che rimanda l’espressione «con ingegno e arte»:
«Quando autem aliquid tegimus, duobus in modis maxime facere solemus. Nam modo in absconsionem, modo ad protectionem, et saepe cum aliquod nobis umbraculum contra solem superponimus, ejus nobis tam calorem quam claritatem temperamus. Si igitur [...] gratiam divinitus accipimus, si secundum acceptam gratiam eis diligenter insistimus credo quod et ipsa nobis erunt in umbraculum dici ab aestu, et in securitatem, et absconsionem a turbine e a pluvia. Utinam cum studio et desiderio in eorum aspectum raperemur».
Non si deve trascurare che Dante, mentre vede la croce-raggio di luce, sta allo stesso tempo ascoltando «una melode / che mi rapiva, sanza intender l’inno» (XIV 122-23) e si trova «come colui che non intende e ode» (XIV 126), cioè in un certo senso alienato: «Io m’innamorava tanto quinci, / che ’nfino a lì non fu alcuna cosa / che mi legasse con sì dolci vimi» (XIV 127-29).
Quello quindi che ci sta indicando la similitudine è che quello che Dante-mens in Deum contempla è, ancora, un'immagine ombrosa della divinità, un barlume di luce che si raggiunge grazie allo studio e il desiderio con il quale si lavora per approfittare della grazia ricevuta. Questa è una delle caratteristiche basiche che strutturano il Paradiso: la distinzione fra l’elevazione mentale, in cui ancora partecipa la ragione, e nella quale l’uomo può ancora riconoscere le somiglianze della divinità nel suo interno, e la alienazione mentale degli ultimi due cieli della cantica. Siamo quindi nei cieli che tratteranno di Cristo, ma tuttavia nei Suoi aspetti che possono essere corroborati dalla mente umana in via.
Il secondo aspetto della similitudine, che allude alla testimonianza umana di fede ed è, perciò, centrale nello sviluppo dell’episodio, si basa sull'immagine dei piccolissimi corpuscoli che, con diverse forme (“lunghe”-“corte”), percorsi (“diritte”-“torte’’) e velocità (“veloci”’-“tarde”) — aspetto in cui, come si vede, il testo insiste moltissimo —, sono illuminati dal raggio di luce-croce. La polvere è immagine tradizionale dell’uomo peccatore, poiché, come spiega Alain de Lille, non gli arriva la pioggia ed è disperso dal vento della superbia:
«Pulvis, proprio Dicitur peccator, quia, sicut pulvis sterilis est, nec humore solidatur et levi flatu venti dispergitur, ita peccator sterilis est ab omnibus operibus, nec imbre coelestis gratiae irrigatur et levi flatu superbiae dispergitur; unde David: Non sic impii, non sic, sed tamquam pulvis».
Invece, questi corpuscoli sono illuminati da un raggio solare in modo tale che — se si considera con attenzione — il raggio solo si materializza in essi, in forma che restano integrati nella luce — letteralmente: incorporati a, e nella luce —, fino a tal punto che, senza di essi, il raggio non sarebbe visibile — si vedrebbe la sua refrazione negli oggetti ma non sarebbe visibile come tale raggio, cioè come la lista nell'ombra che segnala il testo (di nuovo, la precisione immaginaria di Dante è da maravigliare). Sono, così, peccatori illuminati dal raggio della passione di Cristo (“polvere illuminata”) che, com'è risaputo, è quella che portò la grazia nel mondo mortale. Inoltre, allo stesso modo che la polvere si fa corpo nella luce, come sottolinea il testo («le minuzie d’i corpi»), i beati combattenti per la fede si incorporano alla passione di Cristo. E questo in un doppio senso.
Da una parte, perché l’essenza del martirio è quella di essere quello che si conosce come “battesimo di sangue”, per il quale restano automaticamente redenti i peccati, in modo tale che il martire, anche se muore inconfesso, accede immediatamente alla beatitudine, come segnala Cacciaguida nel verso finale della sua storia quando afferma «e venni dal martiro a questa pace» (XV 148), cioè, “passai direttamente dall’uno all’altra”, senza necessità di assoluzione o purgatorio. Rispetto a questo, dice Tommaso:
«nullus pervenit ad vitam aeternam nisi absolutus ab omni culpa et reatu poenae. Quae quidem universalis absolutio fit in perceptione Baptismi, et in martyrio, propter quod dicitur quod in martyrio omnia sacramenta Baptismi complentur, scilicet quantum ad plenam liberationem a culpa et poena».
La ragione di questa totale remissione è che il martirio è un tipo di battesimo:
«Sic igitur utrumque aliorum Baptismatum [il battesimo di sangue e il battesimo di desiderio] nominatur Baptismus, inquantum supplet vicem Baptismi. Unde dicit Augustinus, in rv libro de unico Baptismo parvulorum, Baptismi vicem aliquando implere passionem, de latrone illo cui non baptizato dictum est, hodie mecum eris in Paradiso, beatus Cyprianus non leve documentum assumit».
Infatti, il battesimo di sangue è il più efficace dei battesimi dovuto appunto al fatto che è il più somigliante alla passione di Cristo e quello che si produce a causa di un più intenso slancio di amore e affetto:
«sicut dictum est, effusio sanguinis pro Christo, et operatio interior spiritus sancti, dicuntur Baptismata inquantum efficiunt effectum Baptismi aquae. Baptismus autem aquae efficaciam habet a passione Christi et a spiritu sancto, ut dictum est. Quae quidem duae causae operantur in quolibet horum trium Baptismatum, excellentissime autem in Baptismo sanguinis. Nam passio Christi operatur quidem in Baptismo aquae per quandam figuralem repraesentationem; in Baptismo autem flaminis vel poenitentiae per quandam affectionem; sed in Baptismo sanguinis per imitationem operis. Similiter etiam virtus spiritus sancti operatur in Baptismo aquae per quandam virtutem latentem; in Baptismo autem poenitentiae per cordis commotionem; sed in Baptismo sanguinis per potissimum dilectionis et affectionis fervorem, secundum illud Ioan. XV, maiorem hac dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis pro amicis suis.»
Orbene, quale è il processo per il quale il battesimo redime i peccati? Per ciò, ci vuole, come si è già visto, che la passione di Cristo agisca sul peccatore, che i suoi effetti trascendano su di lui, per cui il peccatore deve — e usiamo i termini tecnici teologici ai quali la nostra similitudine iconicamente rimanda — configurarsi con la passione di Cristo e incorporarsi ad essa. Questo “configurarsi” con Cristo, “in-corporarsi” a Lui, consiste in diventare membri Suoi, parti del Suo corpo mistico, poiché in questo modo il peccatore partecipa direttamente della Sua morte e grazie ad essa raggiunge la remissione dei peccati e il conseguimento della grazia e della gloria:
«sicut apostolus dicit, Rom. vI, quicumque baptizati sumus in Christo Iesu, in morte ipsius baptizati sumus, consepulti enim sumus ei per Baptismum in mortem, ita scilicet quod homo per Baptismum incorporatur ipsi morti Christi».
In conclusione, pensiamo che questa “incorporazione” alla passione di Cristo che fa il cristiano è quello che viene rappresentato per l’immagine della polvere («le minuzie d’i corpi») illuminata dal raggio della passione: quella polvere non è più polvere-peccatrice ma polvere illuminata, redenta dalla grazia della passione e che, perciò, si “incorpora” ad essa, si fa parte del corpo mistico di Cristo e che, grazie a questo, gli arrivano gli effetti redentori del martirio. Si spiega così pure che i beati si “con-figurino” — cioè formino la stessa figura — con la croce, e che in essa “lampeggi”’ il corpo di Cristo, in modo che si identificano le due figure, quella del corpo e quella del simbolo formato dai beati (vv. 103-108).
Si potrebbe giustamente obiettare che questo nostro ragionamento è valido per quei beati — Cacciaguida, Orlando, Giuda — che effettivamente soffrirono martirio, e perciò battesimo di sangue, ma non per quelli che, anche se combattenti per la fede, non morirono in combattimento e non riceverono quindi il battesimo di sangue. Ma l’obiezione dimenticherebbe che si tratta di una allegoria, cioè non del fatto che questi personaggi concreti si incorporino alla passione di Cristo ma che rappresentano quella incorporazione alla luce. Infatti — e ora ritorniamo al senso anagogico — la passione di Cristo fa il suo effeto in tutti i cristiani perché si “configurano” con Lui: «ad hoc quod consequamur effectum passionis Christi, oportet nos ei configurari». O, in altre parole, essere cristiano consiste nel configurarsi con Cristo attraverso la sua passione, in modo che il cristiano diventa un solo corpo con Lui — il corpo mistico, la santa società, la Chiesa — e, grazie a questo, gli arrivano gli effetti redentori e “soddisfattori” della passione: «Christus non solum per suam passionem sibi, sed etiam omnibus suis membris meruit salutem». Redenzione e incorporazione al corpo di Cristo sono quindi la stessa cosa: «caput et membra sunt quasi una persona mystica. Et ideo satisfactio Christi ad omnes fideles pertinet sicut ad sua membra».
Questa è la ragione, a nostro parere, per la quale i beati risplendono nel momento di unirsi e incrociarsi nella croce («scintillando forte / nel congiungersi insieme e nel trapasso», XIV 110-111), visto che, allegorizzando i cristiani come membri del corpo mistico, come incorporati a Cristo, il loro risplendere rappresenta il fatto che formano una sola cosa in virtù della carità, intesa ora come amore al prossimo: «Inquantum etiam duo homines sunt unum in caritate, unus pro alio satisfacere potest».
In questo modo, resta anche ribadita l’immagine della luce, perché è appunto la grazia illuminante quella che Cristo, grazie alla sua passione, fa attuare sui Suoi membri:
«Christo data est gratia non solum sicut singulari personae, sed inquantum est caput Ecclesiae, ut scilicet ab ipso redundaret ad membra. Et ideo opera Christi hoc modo se habent tam ad se quam ad sua membra, sicut se habent opera alterius hominis in gratia constituti ad ipsum».
Non sembra necessario estendersi nell'immagine del raggio di luce come simbolo della grazia. Solo segnaleremo che la grazia in Cristo è grazia in atto puro, e perciò agisce sui Suoi membri, allo stesso modo in cui nell’immagine della polvere illuminata la luce è completamente attualizzata per diventare principio di azione sulla polvere.
In questo modo, con la similitudine analizzata si introduce un tema che sarà, a nostro parere, chiave in questo cielo: l'appartenenza dei cristiani, in virtù della passione di Cristo, a una santa società, a un corpo unitario del quale sono membri. Questa idea, fondamentale nella cosmovisione organicista proveniente dal feudalesimo, verrà sviluppata, in primo luogo, nella similitudine dell’arpa e della giga, e poi nella storia di Firenze raccontata da Cacciaguida.
La similitudine dell’arpa e la giga illustra il canto dei beati e l’effetto che produce in Dante:
E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva senza intender l’inno.
(Par. XIV 118-23)
La similitudine presenta un grave problema di lettura letterale, chiave per accedere al senso allegorico. Per una grande parte dei commentatori, le note che compongono la melodia, quelle che si nascondono sotto il «dolce tintinno» conformandolo, non sarebbero distinte a causa di insufficienza da parte dell’ascoltatore. Così, ad esempio, Mattalia: «anche a chi, forse, inesperto di musica, non intende, non riesce a individuare le “note”, gli elementi musicali di cui risulta l’accordo». O Anna Maria Chiavacci:
«oggi i più preferiscono intendere, seguendo Monterosso (ED I, p. 389), che non si tratti di difetto dell’ascoltante, ma di “indeterminatezza originaria del suono stesso”. Tuttavia questa interpretazione non si corrisponde né alla formulazione del testo (la nota non è intesa), né soprattutto all’altro termine del paragone (vv. 121-3), dove Dante appare rapito pur senza intendere le parole dell’inno, che evidentemente esistevano».
Noi pensiamo che la difficoltà per individualizzare le note all’interno dell’insieme armonico è provocata dalla natura della musica e degli strumenti. Non a caso Dante sceglie due strumenti di corda e specialmente l’arpa, quello di corde più lunghe e perciò di suono più indeterminato. In essa, nel momento di suonare l’accordo, le vibrazioni delle corde, anche se diverse perché diversa la loro lunghezza, si armonizzano in un insieme come conseguenza di un’attrazione simpatica, in modo che restano indeterminate e si sente soltanto l’insieme di tutte loro. Come spiega R. Monterosso:
«Ora, l’alto numero delle corde, l’ampia possibilità di ricavare suoni armonici, facilitati certo dalla particolare accordatura delle corde medesime, la speciale risonanza, incrementata dalla mancanza di smorzi sì che le corde, una volta eccitate, continuavano lungamente a vibrare sino al totale estinguersi dei nodi e dei ventri (provocando al tempo stesso sensibili fenomeni di oscillazione simpatica), tutto ciò, a un orecchio di raffinata sensibilità, poteva ben suggerire l’immagine di Pd XIV. La quale, secondo noi, non può essere interpretata secondo la più corrente spiegazione, ossia che il suono risultante dalla temperata armonia dello strumento è dolce anche per colui che non è in grado di intendere lo sviluppo della melodia e di distinguere le note che la formano. Non si tratta di maggiore o minore capacità recettiva da parte dell’ascoltante, sì piuttosto di indeterminatezza originaria del suono stesso, il quale esce dalla sorgente che lo genera non articolato in una serie acustica matematicamente scomponibile, ma ovattato e stemperato in un’unica sensazione, fatta di estrema vaghezza appunto perché rimane a uno stadio quasi premusicale. [...] L'esatta puntualizzazione dello strumento musicale citato da D[ante] diventa dunque elemento non trascurabile per intendere in tutta la sua portata una similitudine».
Così, anche se le corde sono pizzicate e perciò si emettono diverse note nelle diverse corde, il suono risultante esce già dagli strumenti indeterminato, con le note raccolte in un insieme armonico risultato dell’attrazione simpatica delle vibrazioni delle corde, il che è quello a cui fa riferimento l’espressione «in tempra tesa», cioè, “in tensa armonia o simpatia”, che potrebbe essere parafrasato con una costruzione causale: “E come giga e arpa, a causa dell’armonia tensa delle loro molte corde, fanno un dolce tintinno per chi non è in grado di discernere le note (cioè per ogni ascoltante e non solo per inesperti in musica), ecc.”
Precisare questo a livello letterale è di cruciale importanza per raggiungere i livelli allegorici perché, a nostro parere, il testo insiste su una caratteristica anche indicata nelle similitudini precedenti: la diversità di elementi che si uniscono in un insieme armonico. Nella similitudine della Via Lattea il bianco insieme che forma la costellazione è composto per una grande diversità di stelle individuali, ognuna delle quali ha la sua specifica luminosità e virtù: «come distinta / da minori e maggi lumi biancheggia tra ’ poli del mondo Galassia» (XIV 97-99). Questo significa che la virtù del cielo, in contrasto coi cieli di un solo pianeta, viene distribuita in diverso grado per le diverse stelle. Nella similitudine della polvere illuminata la lettera del passo si occupa di segnalare, per mezzo di coppie di aggettivi la varietà del le “minuzie” di polvere, che sono «diverse e torte», «veloci e tarde», «lunghe e corte». Orbene, tutte queste particole diverse si incorporano a un insieme unitario, cioè al raggio di luce che le rivela e che, a loro volta, esse materializzano. Per ultimo, la similitudine della giga e l’arpa sottolinea lo stesso tratto in due modi diversi. Da una parte, i beati vengono comparati con le diverse corde che costituiscono un unico strumento: sono cioè corde diverse ma accordate («in tempra»). D’altra parte, il canto che intonano i beati è come la musica che esce da un’arpa, composta da diverse note che, tuttavia, non si percepiscono individualmente ma come un accordo armonizzato. In questo modo, con la musica dei beati succede la stessa cosa che con il loro movimento, poiché questo è, da una parte, diverso, anche se questa diversità è percepita da Dante come un riflesso, un effetto, ma, d’altra parte, questa varietà resta unificata in una figura, quella della croce, che loro configurano come un insieme.
In un primo senso, si deve concludere che le testimonianze di fede di questi beati furono diverse in intensità e forma, che, come le stelle di Galassia, i loro atti ebbero la stessa virtù ma distribuita in modo ineguale, cioè, che il loro sacrificio e combatte per la fede fu differente in misura e valore. Tutti loro, però, in maniera unitaria, armonizzata, concorde, sono una testimonianza completa della fede nella passione di Cristo e, perciò, tutti nel loro insieme configurano e rassomigliano il sacrificio massimo, quello divino. Si capisce allora che, sopra le note particolari, tutti intonino un canto comune di loda alla passione e risurrezione di Cristo (XIV 124-26), anche perché la loda è innanzi tutto una testimonianza, un atto esterno di fede. Così i beati rappresentano nel cielo di Marte la stessa cosa che in terra fu la causa del loro merito: una testimonianza pubblica di fede.
Per questa ragione, in un secondo senso, le similitudini portano a concludere che i beati di questo cielo rappresentano, per anagogia, il sacrificio più elevato, quello del quale furono testimoni e nel quale la fede dei cristiani ha il suo obietto: la passione e morte di Cristo. E questo è dovuto a che, come spiega Agostino nel De civ. Dei X 20 e riporta Tommaso, «huius veri sacrificii multiplicia variaque signa erant sacrificia prisca sanctorum, cum hoc unum per multa figuraretur, tanquam verbis multis res una diceretur, ut sine fastidio multum commendaretur». Resta allora più chiaro in quale senso una diveristà di note produce una melodia, una diversità di stelle, uno stesso albore, una diversità di sacrifici un unico sacrificio maggiore.
Nella similitudine della giga e dell’arpa si enfatizza il fatto che tutte le testimonianze di fede costituiscono un insieme armonizzato. Si indica così allegoricamente che l’effetto principale della passione di Cristo in quanto sacrificio è l’unione in una sola collettività, in un solo corpo, di quelli per cui il sacrificio fu realizzato. Dice Agostino nel De civ. Dei (X 6), e cita Tommaso: «verum sacrificium est omne opus quod agitur ut sancta societate Deo inhaereamus», o, in altre parole, l’obiettivo finale del sacrificio è la comunione dell’uomo con Dio nella figura di Cristo, e questo si produce appunto perché, di nuovo in parole agostiniane (De Trinitate IV 14) riportate da Tommaso, il sacrificio di Cristo «unum cum illo maneret cui offerebat». In conclusione, la similitudine della giga e dell’arpa rappresenta iconicamente come a causa della passione di Cristo tutti i cristiani nella loro diversità formano una unità, una comunità, cioè intonano una melodia comune che gli permette di superare le loro individualità, diventare un solo corpo, un’unica figura, un unico canto. Se la similitudine della polvere illuminata illumina sulle nozioni di incorporazione al corpo di Cristo e configurazione con Lui, questa, che la segue immediatamente, la completa illustrando il senso del sacrificio divino come comunione fra i fedeli, cioè fra i testimoni di fede, quando, grazie al sacrificio, si riconciliano con Dio.
Arrivati a questo punto dell’analisi esegetica, crediamo che si può discernere bene il fatto che la disposizione iconografica del cielo di Marte e la sua descrizione per mezzo delle similitudini analitiche, che chiariscono i suoi significati allegorici — fatta, nella logica testuale, da Dante-commentatore, il personaggio che, ritornato dal viaggio, o dalla visio, conosce il suo significato profondo e lo rivela al lettore —, sia una cornice propedeutica indispensabile per capire il fondamento morale-teologico del discorso di Cacciaguida sulla storia di Firenze e sull’esilio di Dante. Non ci possiamo soffermare sulla questione, che avrebbe bisogno di un altro lavoro tanto lungo quanto questo, ma vorremmo accennare, come abbiamo fatto in altra sede, che la storia di Firenze altro non è che una riproduzione in negativo della storia dell’umanità redenta e salvata dalla passione di Cristo. Rispetto all’esilio di Dante, che è risultato — come un vomito — della disgregazione e malattia del corpo sociale, questo si presenta come sacrificio, in quanto che, attraverso le anche cruciali similitudini del dubbio di Fetonte (XVII 1-6) e dell’esilio di Ippolito (XVII 46-48), suppone diffidenza e conflitto col padre, cioè con Colui che dà l’essere ontologico-sociale, il che finalmente avviene in entrambi i miti, e quindi nel discorso finale di Cacciaguida (XVII 124-42), risolto in positivo — cioè come risurrezione — per mezzo della riconciliazione con Lui.
Bastino questi pochi e superficiali accenni per indicare che la comprensione delle similitudini analitiche e con esse della cornice iconografica del cosiddetto trittico di Cacciaguida è imprescindibile per capire il fondamento teologico delle implicazioni storico-biografiche e politico-ideologiche del suo discorso. Ovviamente non vogliamo dire che questi sensi non siano importantissimi, forse i più importanti dell’episodio, ma crediamo che non si possono valutare bene senza la cornice iconografico-teologica in cui l’autore li inserisce, e a questa non si può arrivare senza una attenta analisi delle similitudini.
In realtà, i sensi svelati dall’analisi delle similitudini servono non soltanto per capire più in profondità la coerenza teologica della narrazione di Cacciaguida, ma anche quella di altri elementi narrativi dell’episodio che, senza di essa, a livello semplicemente letterale, resterebbero slegati, come se fossero capricci o battute dell’autore. Perché Dante fa olocausto all’entrata del cielo? Perché Cacciaguida fa Dante pronunciare di viva voce i suoi pensieri? Perché Cacciaguida parla prima in latino, poi — a causa de «l’ardente affetto» (XV 43-45) — in una lingua incomprensibile, troppo elevata per l’intelletto umano, e per ultimo «con preciso / latin» (XVII 34-35)? Che rapporto hanno queste questioni con il ripetutissimo motivo dell’affetto interiore che si deve esprimere a voce e far manifesto (XIV 88-92, XV 73-85, XVI 3, XVII 7-9, 127- 28, XVIII 10-15, 22-27)? Perché Dante passa dal “tu”al “voi” nel rivolgersi a Cacciaguida e questo provoca il sorriso di Beatrice, nell’importantissima similitudine della dama di Malehaute (XVI 10-15)?
Sono questi motivi narrativi che, per la loro eccessiva peculiarità a livello letterale, lo “sguardo allegorico” aperto da Carlos Lopez Cortezo fa diventare domande, enigmi, che non possono restare senza una spiegazione che vada al di là del senso letterale. Non possiamo soffermarci su di esse, pena di eccedere i già superatissimi limiti spaziali di questo lavoro, ma rapidissimamente faremo i seguenti accenni:
1) l’olocausto — parola che etimologicamente significa “tutto bruciato” («l’ardor del sacrificio», XIV 92) — è, come si sa, il principale dei sacrifici, offerto a Dio come speciale omaggio alla sua maestà, quando uno offre a Dio tutto ciò che possiede, ed è quindi molto coerente che Dante apra questo cielo sacrificale con un olocausto;
2) il sacrificio, come confessione di fede, è riguardo alla fede interiore come la parola esterna riguardo a quanto concepisce il cuore, ed è quindi molto coerente che Cacciaguida faccia esprimere a Dante a viva voce quanto è nel suo cuore, e che, a sua volta, Dante esprima diverse volte i suoi dubbi sulla sua capacità di esprimere esternamente l’affetto interiore, perché negli umani, a differenza di quanto succede ai beati di questo cielo — e quanto gli è successo in vita —, l'affetto e il senno, la voglia e gli argomenti, cioè il caldo e la luce (XV 73-84), non vanno d’un modo;
3) se Beatrice rimane lungo l’incontro fra Dante e Cacciaguida «un poco scevra» (XVI 13) e sorride, come la dama di Malehaute, per farsi presente; se Dante sembra dimenticarsi all’inizio del cielo di guardare Beatrice, il che mette in rilievo in versi certamente gonfiati e, perciò, allegoricamente enigmatici (XIV 130-139), è perché la certezza intellettualmente affettiva che offre la fede è superiore a quella che offrono le virtù intellettuali e la scienza, il che significa che per una volta l’ascolto con cui si identifica la fede si antepone alla vista con cui si identifica l’azione intellettuale, come succede a Dante all’inizio dell’episodio quando, rapito dal canto dei beati, dimentica guardare Beatrice.
Insomma, speriamo che questi brevissimi e imprecisi accenni possano offrire un barlume che confermi che attraverso il senso allegorico svelato dall’analisi delle similitudini e dell’iconografia del cielo il testo non solo guadagna in profondità di senso — e quindi in bellezza — ma anche in coerenza testuale, visto che il livello allegorico e sì obiettivo e presente, articolato e ricco di ulteriori suggestioni interpretative, come quello letterale. E ci si consenta un finale — vista la sede di questo articolo ma anche il suo tema — di tipo militante: senza lo “sguardo allegorico” aperto dal lavoro filologico di Carlos Lopez Cortezo seguendo la scia — e sulle spalle — di altri grandi maestri del Novecento, come Singleton o Auerbach, risulta non facile arrivare alla profondità, alla suggestività, agli insegnamenti vitali, alla bellezza sensibile e intellettuale che le immagini e le parole de la Commedia velano e rivelano.