Dati bibliografici
Autori: Erich Auerbach
Tratto da: San Francesco Dante Vico e altri saggi di filologia romanza
Editore: Editori Riuniti, Roma
Anno: 1987
Pagine: 132-140
Nel Terzo Cielo di Dante, il Cielo di Venere, l’anima sulla quale Dante desidera palesemente attirare la nostra attenzione gli viene presentata nel brano seguente da una delle anime beate che le sono compagne:
Ma perché le tue voglie tutte piene
ten porti, che son nate in questa spera,
procedere ancor oltre mi convene.
Tu vo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla,
come raggio di sole in acqua mera.
Or sappi che là entro si tranquilla
Raab, e a nostr’ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla.
Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta,
che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’alma
del triunfo di Cristo fu assunta.
Ben si convenne lei lasciar per palma
in alcun cielo de l’alta vittoria
che s’acquistò con l’una e l’altra palma,
perch’ella favorò la prima gloria
di Iosuè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la memoria .
Il canto prosegue con un violento attacco contro l’avarizia del clero. Questo brano presenta molti aspetti problematici. Raab, nel secondo e nel sesto capitolo del libro di Giosuè, è la prostituta che nasconde nella sua casa le due spie inviate da Giosuè nella città di Gerico e le salva ingannando i loro inseguitori; Raab protesta loro la sua fede nel Dio d’Israele, li aiuta a fuggire facendoli calare con una corda rossa dalla finestra della sua casa sulle mura della città, e li fa giurare che i giudei risparmieranno lei, i suoi genitori e tutta la gente di casa sua. Quegli uomini le chiedono di legare alla finestra, come segno di riconoscimento, la corda scarlatta con la quale li farà fuggire; e così, quando i giudei invadono vittoriosi la città, solo Raab, la prostituta, e la sua casa, sono risparmiate, mentre tutti gli abitanti di Gerico, uomini e donne, vengono messi a morte.
Ebbene, perché mai la grandezza di quella prostituta conferisce al Terzo Cielo il massimo grado di beatitudine? Perché la spiegazione della sua collocazione è in grado di soddisfare l’estremo desiderio che il Cielo di Venere ha suscitato in Dante? Perché fu Raab la prima ad essere assunta in questo Cielo quando Cristo liberò le anime dell’Antico Testamento? Qual è mai il significato della vittoria conseguita con ambo le mani, e cosa ha mai a che fare l’avarizia del papa con il suo aver dimenticato la gloria di Giosuè in Terra Santa?
Tutti questi problemi si risolvono facilmente considerando l’interpretazione figurativa o tipologica del libro di Giosuè, secondo una tradizione ininterrotta che già ebbe pieno sviluppo negli scritti di Tertulliano; spiegazioni del libro o allusioni ad esso si ritrovano in un numero infinito di commentari, di sermoni, di inni, come pure nell’arte figurativa cristiana. Al libro di Giosuè, e specialmente ai primi capitoli, ci si è molto spesso rivolti per interpretarlo in senso allegorico: si volle vedere in Giosuè la figura di Cristo (l’identità dei nomi: Gesù e Giosuè è messa in evidenza già da Tertulliano), e quando egli guida il suo popolo oltre il Giordano (cosi come Mosè conduce il suo popolo fuori dall’Egitto) rappresenta Cristo che conduce l’umanità fuori dalla schiavitù del peccato e della dannazione eterna verso la vera Terra Santa, il regno eterno di Dio. Quanto a Raab, tutti i commentatori antichi la considerano immagine allegorica della Chiesa; solo la sua casa, con tutti i suoi abitanti, si salva dalla perdizione, proprio come soltanto la Chiesa dei credenti si salverà quando Cristo apparirà nel Giudizio Universale. Raab si libera dell’impurità del mondo attraverso la finestra della penitenza cui lega la corda scarlatta, simbolo del sangue di Cristo, «sanguinis Cristi signum». Così essa è la «figura Ecclesiae», e la corda scarlatta, come gli stipiti segnati col sangue dell’Agnello nell’Esodo, diviene simbolo del sacrificio redentore di Cristo. L’immagine di Gerico come dannazione eterna era suffragata dalla parabola del Vangelo di Luca, 10, 30 (un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté nei ladroni), che viene generalmente interpretata come simbolo della caduta dell’uomo. Allo stesso modo, la vittoria ottenuta con ambo le mani allude alla vittoria riportata da Giosuè con l’aiuto delle mani distese di Mosè, simbolo della vittoria di Cristo sulla croce, con le mani distese sull’«arbor vitae crucifixae». Così Raab, ovvero la Chiesa, è posta in questo brano del Paradiso come il trofeo delle due vittorie, quella di Giosuè e quella di Cristo: della vittoria di Giosuè in quanto è prefigurazione di Cristo; di quella di Cristo in quanto Cristo è il compimento di Giosuè («implere»). L’una e l’altra immagine, nel rapporto figurativo o tipologico, sono egualmente reali ed egualmente concrete; il senso figurato non distrugge il senso letterale, come il senso letterale non priva il fatto rappresentato del suo valore di reale evento storico. L’ultima frase del nostro passo (il fatto cioè che il papa abbia dimenticato la gloria di Giosuè in Terra Santa), va ovviamente intesa in modo duplice e tenendo presente il procedimento tipologico. Non è soltanto la Terra Santa, nel suo significato concreto e geografico, che il papa trascura quando combatte contro i cristiani invece di combattere per liberarla; ha anche del tutto dimenticato la città futura, «eterna Jerusalem», per amore del «maledetto fiore», l’aureo fiorino di Firenze. Ed ecco che il significato del brano si è ora completamente chiarito: la prima anima che fu assunta nel cielo di Venere è Raab, simbolo della Chiesa, ovvero della Sposa nel Cantico dei Cantici, innamorata dello Sposo che è Cristo, simbolo della più alta forma di amore; e questa visione, secondo le parole di Folchetto, soddisferà l’estremo desiderio che l’astro di Venere ha suscitato nell’animo di Dante.
Il metodo qui usato per l’interpretazione dei primi capitoli del libro di Giosuè non viene certamente applicato soltanto a questo testo, ma fa parte di tutto un sistema che abbraccia l’intero Antico Testamento. Quando san Paolo si convinse che l’uomo è giustificato solamente dalla fede, e non da un comportamento ossequiente alla legge giudaica, e che Iddio non è soltanto il Dio dei giudei, il carattere dell’Antico Testamento subì una radicale modificazione. Non si trattava più della legge e della storia particolare del popolo ebraico, poiché «tutte queste cose accadevano ai giudei soltanto in figura». La Scrittura diveniva così un susseguirsi di prefigurazioni del Cristo, della sua incarnazione e della sua passione, della fondazione della Chiesa cristiana. San Paolo stesso diede alcune di queste interpretazioni figurate (il concetto di figuralismo in quanto tale non era ignoto alla tradizione giudaica), e tutto il sistema ebbe una così rapida diffusione che noi lo troviamo ormai completamente sviluppato, con incredibile abbondanza di particolari, nella più antica letteratura patristica. E chiaro come questo metodo interpretativo comporti un modo di avvicinare i fenomeni umani e storici completamente diverso dal nostro. Noi siamo soliti considerare i fatti storici e tutto quanto accade nella vita di ogni giorno come uno svolgimento continuo in successione cronologica; l’interpretazione tipologica combina due eventi lontani l’uno dall’altro da un punto di vista causale e cronologico, attribuendo ad essi un significato comune. Invece di uno sviluppo continuo, la cui direzione ed il cui risultato ultimo ci sono ignoti, l’interpreta- zione tipologica implica una conoscenza del significato e dei risultati ultimi della storia umana, in quanto tutto è stato rivelato all’umanità. Secondo questa teoria il significato della storia risiede nella caduta e nella redenzione dell’uomo, nel Giudizio Universale e nel Regno Eterno di Dio. D'altro canto, noi possiamo spiegare solo entro certi limiti ogni singolo fatto storico ricorrendo alle sue cause immediate, e possiamo prevedere solo in qualche misura le sue immediate conseguenze muovendoci, per così dire, su di un piano orizzontale. Con il metodo tipologico, al contrario, per spiegare il significato di un solo fatto storico, l’interprete deve ricorrere alla proiezione verticale di questo fatto sul piano del disegno provvidenziale; così l’evento storico si rivela come una prefigurazione di un compimento o forse come l’imitazione di altri eventi. Considerando il fatto che, fino al XIV secolo, l'educazione e la cultura furono quasi completamente ecclesiastiche, che l’idea di storia umana, come veniva insegnata dalla Chiesa, era dominata dall’interpretazione della Scrittura, e che questa interpretazione era quasi esclusivamente tipologica (e basata sulla trilogia: caduta dell’uomo, incarnazione di Cristo, Giudizio Universale), è evidente che la concezione tipologica della storia dovette esercitare un’influenza profonda e durevole sulla vita spirituale del Medioevo ed anche sui laici. I sermoni, la poesia religiosa (lirica e drammatica), la scultura di soggetti religiosi, e cioè i tre mezzi più importanti per la volgarizzazione della cultura nel Medioevo, erano totalmente impregnati di tipologia. E mi permetto di proporre alla attenzione dei lettori la grande differenza esistente fra tipologia ed altre analoghe forme di pensiero, come l’allegorismo ed il simbolismo. In questi ultimi, almeno uno dei due elementi accostati è un puro simbolo, mentre nella relazione tipologica sia il significante sia il significato sono eventi storici reali e concreti. In un’allegoria dell'amore o in un simbolo religioso, almeno uno dei due termini non appartiene alla storia umana; è un’astrazione o un segno. Ma nel sacrificio d’Isacco, considerato come immagine del sacrificio di Cristo, è essenziale e va energicamente sottolineato che, almeno secondo la tradizione occidentale, né il primo fatto né il secondo perdono la loro realtà letterale e storica, tanto nel loro significato quanto nella loro interrelazione figurativa. Questo punto è veramente importante.
Il pensiero di Dante è profondamente radicato in questa tradizione e non solo credo che molti brani singoli della Divina Commedia si possano spiegare in questo modo, ma anche sono convinto che l’intera concezione del poema debba esser considerata secondo questa prospettiva. Non è difficile provare che la comunità dei beati dell’Empireo, vertice sommo del Paradiso di Dante, è disposta secondo uno schema figurale. Non soltanto il mondo della religione cristiana, ma tutto il mondo antico è incluso nel sistema figurale dantesco; l’impero romano di Augusto è per Dante una immagine del Regno Eterno di Dio ed il ruolo rilevante svolto da Virgilio in quest'opera si fonda proprio su tale presupposto. Dante non fu il primo ad assoggettare tutto il materiale costitutivo della storia umana alla concezione figurale. La storia biblica giudaica e cristiana venne ad essere considerata come storia umana universale e tutto il materiale storico pagano dovette essere inserito ed adattato in questa struttura. In special modo la storia romana fu interpretata da Agostino e da altri padri della Chiesa come una via della storia universale cristiana e del disegno della Provvidenza. Altri autori medievali seguirono questa tradizione e molto spesso se ne servirono a scopi politici nella lunga lotta fra imperium e sacerdotium. Così fece Dante, e la maggior parte delle figure da lui tratte dalla storia romana ha uno stretto rapporto con le sue vedute politiche, come dimostra l’esempio che segue.
Ai piedi della montagna del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano un vecchio venerabile che, con accenti di severa autorità, nella sua qualità di guardiano che controlla l’accesso al monte della purificazione insegna loro come debbano prepararsi all’ascesa. Si tratta di Catone uticense. La scelta di questo particolare personaggio per un tale ruolo ci stupisce enormemente. Infatti Catone fu un pagano, un nemico di Cesare e della monarchia e i suoi alleati, Bruto e Cassio, gli uccisori di Cesare, vengono posti da Dante nel più profondo dell’Inferno, nelle fauci di Lucifero, accanto a Giuda. Inoltre, Catone si suicidò, commettendo così un crimine per il quale, in un altro girone dell’Inferno, si sconta una punizione orribile, Eppure Catone è stato scelto come guardiano del Purgatorio! Il problema si chiarisce se consideriamo le parole che a lui rivolge Virgilio:
Or ti piaccia gradir la sua venuta;
libertà va cercando, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta che al gran dì sarà sì chiara .
Da queste parole risulta ovvio che Catone è una figura, o meglio ancora che il Catone storico è figura del Catone che ci appare nel Purgatorio di Dante. La libertà politica e terrena per la quale egli mori non fu che un’ombra, una prefigurazione della cristiana libertà dal male, la quale porta dalla schiavitù della corruzione al vero dominio di se stessi: è la «libertas gloriae filiorum Dei», una libertà che Dante raggiunge infine sulla vetta del Purgatorio, quando Virgilio lo incorona signore di se stesso. Ovviamente, il suicidio scelto da Catone per evitare la schiavitù non è considerato una colpa ma una figura di quella liberazione. Naturalmente, nella scelta di Catone per questo ruolo, Dante si ispirò al sesto libro di Virgilio, in cui Catone è rappresentato come giudice dei giusti negli Inferi («secretosque pios, his dantem jura Catonem»). Dante fu incoraggiato a trattare Catone in modo particolare anche dall’universale ammirazione che gli era tributata da autori a lui contrari quanto ad opinioni politiche. Catone era uno dei classici esempi di virtus romana sui quali Dante fondava la sua ideologia politica di una monarchia romana universale. Ma il modo in cui il poeta presenta Catone e giustifica il suo ruolo non deriva da Virgilio ed è chiaramente figurale. Tutti e due gli aspetti di Catone, quello storico e quello eterno, sono reali e concreti; il suo compito nell’aldilà presuppone la realtà del suo ruolo storico. Catone non è l’allegoria o il simbolo della libertà, ma una personalità individuale: dalla sua prima condizione di uomo abituato a considerare la libertà politica come il sommo bene, egli viene innalzato alla perfezione finale della sua seconda figura, nella quale la virtù civile o la legge hanno perso il loro valore e la sola cosa che conta è il ben dell'intelletto, il vero sommo bene, la libertà dell'anima immortale nella visione di Dio.
In stridente contrasto con i poeti che lo avevano preceduto e che si erano occupati dell’oltretomba, Dante non priva gli abitanti dei tre regni ultraterreni della forte caratterizzazione individuale propria all’esistenza terrena; al contrario, la loro individualità appare con una intensità e concretezza superiori a quella della loro esistenza terrena; e questo realismo può sussistere nell’aldilà nonostante essi abbiano lasciato la storia per entrare in una situazione eterna ed eternamente immutabile. Tale potente realismo si basa sulla concezione dantesca secondo cui il giudizio di Dio sviluppa e fissa la forma ottima e completa dell’individuo, una concezione che è in accordo con l'antropologia tomista e che è al tempo stesso figurale, in quanto il giudizio di Dio rende partecipe una creatura terrena della sua perfezione definitiva ed assoluta.
I poeti precedenti non fanno mai uso del figuralismo in modo così universale ed audace e nella maggior parte dei casi limitano il procedimento figuralistico all’illustrazione poetica della storia sacra; l’interpretazione figurale di altri eventi o della vita in genere è per lo più inconscia.
Fin dai primordi dell’arte e della poesia cristiana, le figurae tendono ad apparire disposte in serie. Tali serie di figure possono già essere ritrovate su antichi sarcofaghi cristiani; vediamo ad esempio la liberazione di Giuseppe dal pozzo, la liberazione di Giona dal ventre della balena (dopo tre giorni), e la resurrezione di Cristo (anch’essa dopo tre giorni), raffigurate l’una accanto all’altra come immagini della resurrezione di Cristo. Ma il pieno sviluppo delle serie figurali nella poesia cristiana è un fenomeno medievale piuttosto che della tarda antichità. Per quanto mi è dato vedere, gli innologi latini del periodo carolingio, e specialmente Notker Balbulus, l’inventore delle sequenze, furono i primi ad usare consapevolmente questa forma. Il grande maestro di quelle che chiamerei le eulogie figurative è Adamo di San Vittore. Il XII secolo segna l’apogeo del figuralismo ed in particolare delle serie figurative. Le Laudi alla Vergine, ad esempio, in molte delle sequenze di Adamo e dei suoi imitatori, consistono proprio in tali serie. La Madonna viene rappresentata successivamente come Sara che ride all’annunzio della nascita d’Isacco, come la scala di Giacobbe la cui sommità raggiunge il cielo, come il roveto ardente di Mosè che le fiamme non consumano, come la verga di Aronne che getta fronde, come il vello di Gedeone bagnato di rugiada, come l’Arca dell’ Alleanza che racchiude la manna celeste, come il trono ed il letto del vero Salomone che è Cristo, il ramo di Isaia che scaturisce dalla radice di Jesse, la porta di Ezechiele rivolta verso Oriente che verrà chiusa, essendo passato il Signore; Maria è il giardino recinto, la fonte sigillata, la fontana dei giardini, la sorgente d’acqua viva del Cantico dei Cantici, e così via. Chi abbia studiato la letteratura francese medievale ricorderà a questo punto la serie figurale dei Misteri, particolarmente nel più famoso di essi, nel Jeu d’Adam, con la processione dei profeti. Costoro non sono i profeti nel senso proprio della parola ma in generale personaggi dell’ Antico Testamento: oltre a Isaia, Daniele e Geremia, vi appaiono Abramo e Mosè, Davide e Salomone, Balaam e Nabuccodonosor, ed altri ancora. Ciascuno di essi incomincia a parlare in latino con una citazione tratta dalla Bibbia, poi seguita in francese spiegandone il significato di annuncio del Cristo. Ad esempio, Isaia non enuncerà tutta la sua profezia circa il futuro di Gerusalemme ed il re di Babilonia, ma Dante lo presenta per introdurre questa sua sola frase: «egredietur virga de radice Jesse...», che era considerata una predizione della Vergine e di Cristo; così come Abramo viene presentato a causa della promessa fattagli da Dio, ed Aronne per la sua verga che getta fronde. Questo è figuralismo puro, come ho detto sopra. L'Antico Testamento si trasforma in una successione di prefigurazioni isolate o, se preferite, profezie figurate di Cristo. In questo sistema persino Adamo può diventare non solo una figura, ma un profeta figurale di Cristo. Il suo sonno, durante il quale dalla sua costola viene creata Eva, la madre carnale dell’umanità, prefigura la morte di Cristo, o meglio il sonno di Cristo prima della resurrezione, quando uno dei soldati lo colpì con una lancia e dal costato usci sangue ed acqua, simboli dei sacramenti della Chiesa, la madre spirituale dell’umanità. Il sonno di Adamo è il sonno mistico della contemplazione o dell’estasi. Appena si sveglia Adamo comincia a profetizzare: «Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua donna ed essi saranno una sola carne». Questo brano è stato sempre interpretato come metafora dell’unione di Cristo con la Chiesa, una delle immagini più antiche e venerabili, una delle poche citate dallo stesso San Paolo (Eph, 5, 29-32): «sacramentum hoc magnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia». Questa interpretazione di Adamo quale profeta figurale preannunciante Cristo e la Chiesa è ormai tradizione incontestata.
Me ne resi conto per la prima volta leggendo un sermone di san Bernardo, il secondo di Settuagesima. Il Jeu d’Adam, questo è vero, non ci presenta Adamo nella processione dei profeti; e tuttavia, in un altro passo dell’opera, Adamo predice chiaramente la venuta di Cristo. Dopo la caduta, quando si abbandona alla disperazione ed a prolisse autoaccuse, egli scorge un solo raggio di speranza: «Non ci sarà salvezza per me, se non dal figlio che nascerà dalla Vergine» («Deus... ne me ferat ja nul aie fors le fils qu’istra de Marie»). Nella sua più profonda disperazione Adamo diviene consapevole della redenzione futura, conosce il futuro. Questa gioiosa anticipazione del futuro ci può sembrare una naiveté medievale, mancanza di prospettiva storica, la stessa ingenuità storica con la quale Adamo ed Eva o, in altre opere, altri personaggi biblici, vengono realisticamente descritti come francesi del XII e XIII secolo. E, naturalmente, in questi fenomeni è veramente implicata una naiveté ed una mancanza di prospettiva storica. Tuttavia, tale valutazione non sarebbe esauriente.
L’interpretazione figurale, nonostante la sua aspirazione ad una compiutezza storica, trae ispirazione dall’eterna sapienza di Dio, nella mente del quale non esistono differenze di tempo. Secondo la visione divina ciò che accade qui ed ora è accaduto fin dal principio, e potrà accadere di nuovo in qualunque momento del decorso temporale. In ogni tempo e in ogni luogo Adamo cade, Cristo sacrifica se stesso, e l’umanità, la sposa del Cantico dei Cantici, piena di fede, di speranza e di amore, va alla sua ricerca.
Un personaggio che è una figura Christi, quale è Adamo, è a conoscenza del futuro provvidenziale; Cristo sapeva che Giuda lo avrebbe tradito, proprio come un’altra figura di Cristo, Carlo Magno, «Charles li reis, nostre emperere maignes», nella Chanson de Roland, sa fin dall’inizio che Ganelon è un traditore. L’eterna coesistenza nella mente di Dio di tutti gli eventi storici è una concezione che Agostino ha espresso assai bene nella sua dottrina: Dio ha presente nella sua mente tutte le cose passate e future nella loro vera realtà; sicché non è corretto parlare della prescienza di Dio, ma semplicemente della sua scienza («scientia Dei non praescientia sed tantum scientia dici potest»).
Il figuralismo fornisce la base per la fusione medievale tra naiveté realistica e sapienza ultraterrena.