Dati bibliografici
Autore: Alfredo Gargiulo
Tratto da: La Critica
Numero: 6
Anno: 1908
Pagine: 229-234
Mi pare che il Gentile nel discorrere dell’allegoria in Dante a proposito del libro del Vossler, facendo alcune opportunissime avvertenze circa le esigenze di una compiuta e spregiudicata critica dantesca, abbia lasciato qualcosa nell'ombra, che potrebbe ingenerare equivoci. Desidero perciò aggiungere alcune considerazioni intorno al difficile argomento; e lo faccio con la sicurezza di essere in sostanza perfettamente d’accordo col pensiero (se non sempre con le parole) del Gentile.
Il Vossler dice nel suo libro che «la teoria artistica di Dante ci serve per intendere le imperfezioni e i difetti della sua poesia». E spiega: «Appunto perché essa è falsa (la teoria dantesca del valore allegorico), può farsi valere in quei luoghi, dove anche la sua arte è falsa. Dove sono i difetti, e lì soltanto, deve entrare il metodo d’interpetrazione allegorica voluto da Dante. Dai buchi della veste artistica guarda la fragilità della sua filosofia. Certo, è più facile alzargli sul capo la camicia e mostrarlo nella nudità dei suoi concetti, che scoprire nel tessuto vivente i bucherelli e gli strappi, e quello che ogni volta ci sta dietro». Fatta la riserva, molto ovvia, che le imperfezioni della poesia dantesca non sono sempre da spiegarsi con l’interpetrazione allegorica (Dante poté peccare artisticamente per varie cagioni, come qualunque altro poeta), io credo che bisogni sottoscrivere a due mani alla norma di giudizio indicata dal Vossler. E dico anche che l’audace metafora dei bucherelli e strappi della camicia artistica rende nel modo più efficace il più genuino pensiero del De Sanctis sull’allegoria dantesca; com’è facile dimostrare, aprendo semplicemente la sua Storia della letteratura, al capitolo su La Commedia.
Il Gentile riconosce anch’egli che «in questa teoria così eloquentemente difesa dal Vossler è facile sentire l’eco del pensiero del De Sanctis»; ma mostra di pensare che questo è un punto in cui il De Sanctis dev’essere corretto con lo stesso De Sanctis. Dico «mostra di pensare», perché non è da supporre che egli creda possibile una giustificazione estetica dell’allegoria, e che tale giustificazione possa trovarsi coerentemente nel pensiero del De Sanctis. Il Gentile conosce profondamente l’estetica di Hegel, della quale, come il Croce disse, il De Sanctis «succhiò tutta la parte vitale»; e quindi sa quale aborrimento per l’allegoria, e in generale pel significato fuori del segno, essa sia atta a suscitare.
Ma, in realtà, nel pensare ad una correzione del De Sanctis con lo stesso De Sanctis, il Gentile ha la mira ad altro, e non all’allegoria propriamente detta. Ed ecco come. Egli osserva, nel suo articolo, che è un difetto della critica del De Sanctis rispetto a Dante quello di aver voluto vedere Dante senza tutto il suo patrimonio filosofico e religioso, teorico in generale, comprese le teorie estetiche, e di averlo considerato invece come semplice uomo, soltanto come capace delle più comuni passioni dell’animo umano. «Quindi quella specie di proporzione inversa nello svolgimento della Commedia, per cui nell’Inferno si avrebbe un massimo di poesia e un minimo di filosofia, e nel Paradiso un minimo di poesia e un massimo di filosofia; quindi la giustificazione di quella valutazione estetica corrente, che vede le maggiori creazioni del genio artistico dantesco in mezzo al più violento turbine delle passioni umane eternate nell’Inferno». E conchiude che per intendere il poema bisogna guardare tutta la complessa anima di Dante, in tutta la sua ricchezza; «quindi con tutte le sue idee, anche le false, poiché in lui non erano false, e gli facevano vedere il mondo a un certo modo».
Il Gentile dunque, nel correggere il De Sanctis col De Sanctis, intende indicare nel grande critico la direzione quasi costante in cui questi, nella critica in atto (per effetto sopratutto del suo temperamento), deviò dal suo stesso concetto fondamentale della forma artistica. In virtù di questo suo concetto il De Sanctis, difatti, non aveva alcuna ragione per trovar l’Inferno più poetico del Paradiso, sol perché in quest’ultima cantica il poeta è più imbevuto di dottrine filosofiche e religiose: la forma artistica, anche per lui, qui poteva esser raggiunta proprio come nell’Inferno. È solo per spontanea predilezione del suo gusto che il De Sanctis ama la corpulenza e la passione; preferisce Francesca a Beatrice; «fa di cappello allo spirito, ma adora la carne», come dice egli stesso del peccatore; vede una «dissoluzione della forma» nella terza cantica, soltanto perché, forse, i corpi ivi diventano luce, e ogni anima un inno d’amore e beatitudine senza contrasti. Di questo difetto della sua critica si trova larga traccia in tutta la sua produzione, sebbene esso sia, naturalmente, più visibile nella critica dantesca. Il Gentile dice: «In questa materia pare a me che il De Sanctis contraddicesse al suo principio del valore della forma artistica, obbedendo inconsciamente al suo temperamento, che lo portava a reagire, anche esagerando nel senso opposto, a certe forme ultime del romanticismo». Ed è verissimo: è in giuoco qui il suo temperamento; e si sa che il temperamento di un critico, derivante da tanti quasi imponderabili fattori, può impedirgli di rivivere pienamente certe opere d’arte, e togliergli per conseguenza la condizione prima per pronunziare il suo giudizio; il quale, soddisfatta quella condizione, sarebbe stato forse anche giustissimo, perché fondato sopra concetti rigorosi. Oltre che da una reazione alle forme ultime del romanticismo, io credo che il temperamento del De Sanctis fosse eccitato e confermato in certe predilezioni di gusto dall’estetica di Hegel, nella quale continuamente la forma è intesa in senso materiale, e quindi in maggiore o minor composizione con lo spirito, sino alla sua evanescenza nella scienza. L’impronta di Hegel sul De Sanctis, per questa parte non accettabile della sua estetica, mi sembra notevole.
Sarebbe inutile osservare, — ma è bene insistervi un momento, — che la correzione del De Sanctis con lo stesso De Sanctis, voluta giustamente dal Gentile, non è una correzione che colpisce la teoria. Son da correggere in alcuni casi i giudizii concreti del De Sanctis; non è da correggere il concetto propriamente suo della forma artistica. Le deviazioni spontanee del suo gusto, e i suggerimenti hegeliani od altre cause, che aiutarono quelle deviazioni, non assunsero mai in lui carattere teorico, non furono elevati a dignità di concetti estetici; e se talvolta il suo pensiero fondamentale ne fu scosso, riprese subito il predominio. Ecco come egregiamente il De Sanctis teorico parla della stessa Commedia: «Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per lui una cosa così seria, come per tutti i credenti, seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza, ma la scienza non lo dissolveva, anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso fosse una figura, una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura così l’altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà, che ha in se stessa il suo valore e il suo significato». È chiaro dunque che il grande critico sentiva, almeno in linea generale, l’esigenza proclamata fortemente dal Gentile: il brano citato dice appunto che la scienza di Dante è tutt’uno con la realtà della sua visione; è ciò, come dice il Gentile, che gli fa «vedere il mondo a un certo modo».
Intanto, si noti: il Vossler parlava esclusivamente dell’allegoria; e il Gentile, invece, gli risponde, mettendolo in guardia contro l’errore desanctisiano della maggior poeticità dell'Inferno, e, in generale, contro la tendenza a trovar meno poesia ove è più filosofia. Ma anche in seguito, dove il Gentile espressamente si riferisce all’allegoria, a me non pare ch’egli abbia inteso discorrere dell’allegoria vera e propria. Egli dice: «Quanto all’elemento allegorico, forse i suoi dritti di buona cittadinanza nel campo dell’arte non sono egualmente evidenti; ma non per ciò mi sembrano meno incontestabili». Anche qui la sua mira è altrove.
Infatti, nel suo articolo si distingue, in primo luogo, un’allegoria susseguente all’opera d’arte, come escogitazione posteriore dell’artista, il quale «in funzione di critico, crede di elevare o creare il valore, attribuendole un significato intellettuale, realmente estraneo al suo processo artistico». È un errore estetico innocente, — osserva giustamente il Gentile, — perché essa è come una «critica (falsa), che interviene nell'arte (senza guastarla, per altro, se essa è già arte vera)». Come possono essere dell’artista stesso, le escogitazioni e le sovrapposizioni intellettuali possono essere di altri; e l’opera d’arte, per fortuna, resta sempre quello che era. Ma, in secondo luogo, domanda il Gentile: «è tale in genere l’allegoria di Dante? La sua Beatrice, il suo Virgilio, il suo carro trionfale tirato dal Grifone sono stati mai nella sua fantasia (dico nella sua fantasia creatrice della Commedia) nella loro immediata e cruda realtà, privi della loro significazione simbolica, che è appunto l’alimento della liricità del poeta?» No, si risponde subito (e si può rispondere con le parole stesse del De Sanctis): tutti questi che in Dante noi diciamo elementi allegorici, non furono per lui, in genere, figura e simbolo, ma «vivace e seria realtà»; e dire il contrario significherebbe «correre sino a Goethe». Non furono in genere; ma resta a vedere, caso per caso, quando i cosiddetti elementi allegorici furono parti vive della visione, tutti impregnati com’erano di significazione filosofica o religiosa, e quando furono vera allegoria, cioè semplice segno fuori del significato; allegoria, quindi, interna all’opera d’arte, non escogitazione posteriore.
«Lesse mai Dante, — continua il Gentile, — lo suo maestro con quella stessa pura commozione estetica, come lo lesse più tardi un Monti, un Carducci, e senza un vago sentimento mistico della verità ascosa sotto il velame di quei versi, senza la riverenza profonda pel savio gentile, il quale aveva incarnato quell’alto ideale di poesia, che l’educazione filosofico-estetica di Dante faceva brillare innanzi alla sua mente, come apparisce dal Convivio: poesia di verità? Come fare quindi a staccare nella figura dantesca di Virgilio il significato letterale dall’allegorico? Come intendere quindi questa figura senza vederci dentro l’allegoria che il poeta credette adombrarvi?». Certamente: l’immagine dantesca di Virgilio non è quella che ne ebbero il Monti o il Carducci: è quella di Dante, «la reale intuizione di Dante». Ma neppure è..... l’astratta ragione. Il Virgilio di Dante è un uomo in cui predomina la saviezza di una forte e vigile ragione; è una figura viva; è una particolare figurazione di Virgilio. Ma qui è più che evidente che il Gentile non vuol parlare punto della vera allegoria; perché, difatti, quand’egli dice che Virgilio non è l’astratta ragione, viene ad escludere ogni significato allegorico vero, e quindi ogni conciliazione col significato letterale. La sua mira è sempre quella: impedire che l’elemento religioso e filosofico dell’anima di Dante, il quale investe tutte le sue figurazioni, sia trascurato. Ciò che il Gentile chiama impropriamente «allegorico», è equivalente di «religioso» o «filosofico»: gli «elementi allegorici» sono per lui soltanto una realtà a cui noi non prestiamo più fede, o da noi filosoficamente superata. Ed insiste, affinché questa realtà sia riconosciuta in tutto il suo complesso, e non sia arbitrariamente ridotta alla realtà nostra. Sono veramente allegorici, per esempio, come il De Sanctis vorrebbe, «il Grifone del Purgatorio, l’Aquila del Paradiso, e il Lucifero, e il Dante con le sette P incise sulla fronte?». L’avvertimento del Gentile è contro questo pericolo, che, per trascuranza dell'anima religiosa e filosofica di Dante, si trovi nel suo poema più allegoria di quanta in realtà ve ne sia.
L’aver taciuto però dell’allegoria vera e propria, per aver avuto in mira soltanto quel pericolo, espone intanto il Gentile ad una interpetrazione equivoca del suo pensiero: può dar luogo alla credenza che egli ritenga possibile una legittimazione estetica dell’allegoria in senso proprio (e non già del pensiero filosofico e religioso), e che in tal senso pensi che si possa correggere il pensiero del De Sanctis.
L’allegoria vera non è un’escogitazione susseguente all’opera d’arte, e fatta dall’artista o da altri; ma è una costruzione intellettuale a priori, cioè persistente come tale nell’opera d’arte, e che può turbare la visione dell’artista e sostituirsi, nei punti deboli, ad essa. In quei punti deboli, — i bucherelli del Vossler, — l’allegoria non si presenta altrimenti che come qualcosa di assurdo ed inspiegabile nella totalità della visione. Lasciamo parlare il De Sanctis: nell’allegoria, — egli spiega, — «hai due realtà distinte, l’una fuori dell’altra, l’una figura e adombramento dell’altra, perciò ambedue incompiute e astratte»; «a quel modo che il paragone non esprime di sé se non quello solo che sia immagine della cosa paragonata». L’allegoria «è già la realtà, che però non ha valore in sé stessa, ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di sé, nel figurato, oggetto o concetto che sia. E poiché nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtà divenuta allegorica vi è necessariamente guasta e mutilata». «Talora la figura fa dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo più nel senso letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano, e per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni». — Questa allegoria, così perspicuamente definita, questo dualismo insuperato, è ciò di cui nessuna giustificazione estetica è possibile, e che è esclusa dal concetto della forma artistica — per definizione.
Questa allegoria, la vera, sarà piccola parte nella Commedia? Io lo credo; e il Gentile, col suo ammonimento, tende appunto a vederla ridotta. Il De Sanctis stesso disse di Dante: «Nel caldo dell’ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi, e formar figure mozze, che vi rispondano appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce ai mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l’allegoria, diviene sé stessa, il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione dei commentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini». — Si tratta, perciò, di trovare l’allegoria caso per caso. Non sarà allegoria, per esempio, il Lucifero; ma sarà allegoria, certo, la selva, che rappresenta la vita. «La selva, — dice il De Sanctis, — è figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto perché figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e immobile come un concetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta; e non propriamente suo, perché quel corpo singolare, che chiamasi figura, serve a due padroni, è sé ed un altro, è insieme lettera e figura, un corpo a due anime, rappresentato in guisa, che prima paia sé stesso, la selva, e considerato attentamente mostri in sé le orme di un altro».
Poiché dunque il Vossler annunziava soltanto di voler cercare i bucherelli allegorici, cioè quei punti in cui la visione dantesca è interrotta nella sua concretezza da riferimenti che son fuori di essa, le osservazioni del Gentile si riducono, se non sbaglio, ad un avvertimento di prudenza.