Dati bibliografici
Autore: Elio Franzini
Tratto da: Nel perimetro del libro. Interpretazioni di Dante a confronto
Editore: Lubrina, Bergamo
Anno: 1998
Pagine: 17-24
Può stupire che un grande poeta e pensatore quale Dante, che a lungo si è occupato del problema dell’interpretazione, non compaia neppure marginalmente nel “testo sacro” dell'ermeneutica contemporanea, cioè in Verità e metodo di Hans Georg Gadamer. Peraltro, anche altre correnti della moderna teoria dell'interpretazione, spesso in implicita polemica con l’ermeneutica gadameriana, come Teorie del simbolo di Tzvetan Todorov, pur attente a questioni di filosofia medievale, ignorano il contributo dantesco. Senza dubbio questa assenza di Dante dagli sguardi storici e teorici sull’interpretazione non è né assoluta né categorica : ma il fatto che le sue osservazioni non entrino mai nelle più recenti elaborazioni teoriche suscita certo, in chi non è studioso di filosofia medievale, un sospettoso stupore. Motivo dunque di questo breve intervento non è elaborare una linea di lettura specialistica sulle teorie ermeneutiche del medioevo bensì interrogarsi (con un'ottica, temo, pericolosamente contemporaneistica) su questa assenza cercando, peraltro con una tipica operazione ermeneutica (meritevole dunque, lo si ammette, di sospetto, e fors’anche di biasimo da parte dello studioso medievista), di riportarne alcune prospettive di ricerca sull’interpretazione nell’ambito del dibattito contemporaneo. Per scoprire, forse, che il contributo è tutt'altro che secondario e che dunque il silenzio sulle argomentazioni di Dante è il risultato di una precisa scelta, derivante dalle conclusioni che dalla sua opera si possono trarre.
In vari luoghi dei suoi scritti Dante, oltre ad accettare il termine interpretatio, sembra volerne intendere il senso in una direzione molto vicina a quei punti di vista che oggi potrebbero dirsi “testualisti”. L’interpretazione di un testo è infatti per lui la traduzione del testo stesso in altri linguaggi che originano ulteriori testi, capaci di spiegare i molteplici “sensi” del testo originario. Di conseguenza, l’interpretazione si presenta come una relazione dinamica tra il linguaggio e il significato, con il presupposto, peraltro molto “ermeneutico”, che il significato possa essere “oscuro” e debba quindi sottomettersi a una pratica linguistica, un'interpretazione che può articolarsi in varie “tradizioni”.
Accentuare l'oscurità di un testo, come a fine Settecento osserverà Hamann , induce, se si è di fronte a un testo poetico, a ricercarne il significato in un linguaggio che ne afferrerà la dimensione veritativa, sino a confondersi con essa. Se invece maggiormente si sottolinea la molteplicità di tradizioni che possono interpretare il testo stesso, come accade nella linea che si avvia da Schleiermacher e si conclude con Gadamer, si finisce per negargli una definitiva assolutezza, che viene piuttosto attribuita al metodo dell’interpretazione, gettando a volte nel relativismo il suo specifico oggetto, che non può infatti avere una sua “verità” indipendente dal metodo che la interpreta.
La teoria dell'interpretazione di Dante, che è certo difficile “tipologizzare”, vede la compresenza di entrambe queste tendenze, che a volte sembrano accentuare la direzione metafisica, altre imboccare la strada “relativista”. In lui infatti si incrociano, di fronte all'interpretazione di testi poetici, prospettive retorico-linguistiche, metafisico-simboliche ed estetico-filosofiche: e la molteplicità dei punti di vista può forse, come ipotizzava Croce, far cadere nell’equivoco che in lui non vi sia nulla di tutto questo e che si sia dunque di fronte, come Croce appunto sostiene nell’Estetica, a un raffinato retore che ha la colpa veniale di cadere in qualche velleità filosofica e interpretativa .
Tuttavia, se è inopportuno enfatizzare il significato teorico di Dante, ancor di più è colpevole il riduzionismo crociano: è infatti indubbio, come testimonia la Vita nova (1294), che in Dante esista una precisa volontà interpretativa, che rende a indagare il senso della poesia. Nel momento in cui si vuole giustificare la dignità di una nuova lingua – il volgare – si è consapevoli che tale dignità ha il suo primo fondamento nella interpretazione di un suo contenuto veritativo. I testi poetici sono così sottoposti a un “commento” sia storico sia tematico, secondo una tradizione che Dante, come informa Contini , trae dai poeti occitani e dai trovatori ma che ha in lui il primario scopo teorico di “indirizzare” l'interpretazione.
Tale commento segue infatti un “metodo” ben preciso che, al di là di ogni pedante allegorismo, ha evidentemente il suo progenitore nell’autoanalisi di Agostino (e Boezio). Il richiamo alla tradizione agostiniana (da Todorov considerata il fondamento della semiotica occidentale) , è particolarmente rilevante se si considera che essa prende avvio dal presupposto della non identità del segno con se stesso o, per lo meno, dell’ambiguità del rapporto. Per Agostino, il segno è originariamente duplice, ha cioè una parte “sensibile” e una “intelligibile” o, come scriverà Dante nel De vulgari eloquentia (I, 3), con implicito riferimento agostiniano, si divide tra “figura” (articolata a sua volta in una molteplicità di figure) e “senso”. Inoltre, nel Convivio, che è propriamente una raccolta di insegnamenti sotto forma di canzoni, in cui la teoria interpretativa di Dante si fa esplicita (e a parer nostro consapevole), il metodo introspettivo, acquisendo consapevolezza di sé, esce dall’intimismo psicologico della Vita nuova e tende piuttosto a definire progressivamente i legami tra figure linguistiche e senso per costruire uno specifico orizzonte simbolico, che indica un vero e proprio “statuto” della strategia interpretativa.
Nel Convivio sono infatti frequenti gli “atteggiamenti” canonici dell’interpretazione e delle principali tipologie in precedenza ricordate. Se infatti, in primo luogo, si tende a dichiarare il “senso letterale” delle canzoni, si è consapevoli che ad esso segue un “senso allegorico”. Si ammette così che il loro linguaggio ha, nella sua manifestazione sensibile, un significato “oscuro”, che è la loro “nascosta veritade”. Questa “verità nascosta” è teoricamente plurisemantica, anche se Dante, pur accennando alla presenza «de li altri sensi», compie una precisa scelta metodico-operativa, considerando in primo luogo l'interpretazione come esplicitazione del senso allegorico delle canzoni.
Su questi presupposti può allora operare una sorta di “smontaggio del linguaggio figurato della poesia, spiegando come interpretare sia tradurre l’enunciato metaforico in enunciato “proprio” per poi esplicitare i contenuti filosofici dell'allegoria e sancire la separazione tra un “senso proprio” e un “senso figurato”, che appartiene alla lettera. Al tempo stesso, con un atteggiamento che si potrebbe definire “sensualista”, identico a quello che assumerà Valéry di fronte all'interpretazione del suo Cimitero marino , dichiara esplicitamente che è impossibile tradurre la poesia, che sempre mantiene un nucleo “forte” irriducibile a ogni interpretazione possibile . Interpretazione che tuttavia ha il compito di mostrare i “quattro sensi” (letterale, allegorico, morale e anagogico) che i testi possiedono.
Tra tali sensi appare di particolare rilevanza la “dialettica” tra senso letterale e senso allegorico. Vero è che, sin dall’antichità , esistono diverse tradizioni per intendere quest’ultimo termine, che Dante utilizza in una direzione tipologica, o figurale, che ha i suoi precedenti nell’esegesi biblica di Origene e S. Bonaventura. L'interpretazione figurale, scrive Auerbach , «stabilisce tra due fatti e persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende e adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali». Tale interpretazione, che ha una lunga tradizione , viene inglobata da Dante alla teoria dei “quattro sensi”: si costruiscono così, e consapevolmente, innumerevoli incroci strutturali, con precise e differenziate finalità, morali, culturali, filosofiche, espressive, ecc.
Complicare infatti l’interpretazione figurale permette a Dante non solo di inserire con facilità la cultura pagana e le sue “figure” nel contesto cristiano ma anche, e soprattutto, di modificarne a piacere i riferimenti tipologici, con il fine di costruire con modalità del tutto nuove le funzioni dei personaggi. In tal modo, attraverso tali incroci interpretativi e allegorici, genera, in particolare con la Comedia, una nuova totalità tipologica che attribuisce alla narrazione un'assoluta autonomia di significato, irriducibile alle allegorie da cui ha preso avvio. Questa originale “tipologia interna” assume sempre più, come comprende Hegel nella sua Estetica, precisi significati estetico-filosofici: tende cioè a costruire, con la Comedia, «l'epos artistico vero e proprio del Medioevo cattolico» , che ha per oggetto non significati particolari e contingenti bensì «l'agire eterno, il fine ultimo assoluto, l’amore divino nel suo intramontabile accadere e nelle sue sfere inalterabili». In questa direzione gli incroci interpretativi (apparentemente allegorici) formano un poema che «abbraccia la totalità della vita più oggettiva» .
Nel momento, dunque, in cui conduce l’allegoria all'esperienza espressiva, alla poesia, l’autoallegoresi non solo non è più intimismo psicologico, ma anche, e soprattutto, manifesta la consapevolezza delle funzioni dell'interpretazione attraverso le quali si mostra tale complessità polisemantica di un testo e dei motivi culturali sui quali è strutturato. Quando infatti Dante stesso applica tale paradigma interpretativo, come accade nella Epistola a Cangrande del 1317, alla sua stessa Comedia, rivela in essa proprio una complessa trama costruttiva che suscita e autorizza molteplici “livelli” di lettura, senza per questo annullare l'unitarietà poetico-filosofica del testo.
Il discorso di Dante non è qui solo “stilistico”: al contrario, vuole mostrare come l’unitarietà stilistica della Comedia risulti indebolita (e al limite arbitraria) se non si tiene in debito conto la sua varietà semantica. La struttura figurale, scrive Auerbach in Mimesis , «assicura ai due poli, tanto alla figura quanto al compimento, il carattere storico e concreto della realtà - diversamente da quanto avviene per le forme simboliche e allegoriche». Si può allora affermare che, di fronte alla sua opera maggiore, Dante raggiunge una consapevolezza implicita nei suoi scritti precedenti, che cioè l’interpretazione non può essere univoca e monodirezionale: è invece un processo indirizzato dallo stile usato, cioè dalle sue specificità espressive e, in questo contesto, dall’uso degli artifici retorici e simbolici.
Cogliere il presupposto “stilistico” dell’interpretazione non è, ovviamente, un’opzione retorica. Al contrario, ed è una prima conclusione possibile, Dante, utilizzando gli strumenti storici delle tradizioni teoriche precedenti, rende a sottolineare come il testo poetico debba essere oggetto di un’interpretazione semantica o, meglio, “polisemantica”, tesa a mettere in luce come la poesia sia la manifestazione espressiva di un implicito da chiarificare (anche se il processo di chiarificazione non possiede un termine certo proprio per il carattere “sensuale” del poetico stesso).
In questo modo Dante è consapevole che la poesia esprime quella zona di “implicito” presente nel linguaggio: non soltanto un “implicito” relativo e contingente, cioè riconoscibile ed esauribile all’interno di una situazione (come accade nella Vita nuova e nel Convivio stesso, oltre che nelle “piccole impalcature” che tramano il grande affresco della Comedia), ma un implicito, come lo chiama Ducrot , assoluto, «ciò che si introduce da sé nel discorso, ciò che il locutore dice senza volerlo e persino senza saperlo». Il “regno” di questo implicito assoluto è evidentemente la poesia: e l’interpretazione è essenzialmente la “tipologizzazione” di tale assoluto e della sua essenziale “intertestualità”.
Se allora l’implicito relativo conduce verso il senso “letterale” del testo poetico, con le sue presupposizioni semantiche e pragmatiche, quando si oltrepassa tale livello letterale si accede a un implicito indiretto non letterale , che è il campo dell’allegoria e del simbolo (che, prima della distinzione romantica, è forse arbitrario separare e che si possono dunque considerare come “modi” diversi di una comune volontà “figurale”), che a sua volta introduce a quell'implicito assoluto che è la “grande impalcatura” della Comedia.
In questa “grande impalcatura”, l’allegoria come giustapposizione di forma e contenuto, e il simbolo come loro organica unità, sono del tutto compresenti e cooperanti. Esistono cioè in quanto tracce che guidano l'interpretazione: al di là di ogni mimetismo, nella Comedia non si incontrano “cose” o “persone” bensì “personificazioni”, che offrono vari elementi – emblematici sono i casi di Virgilio o di Beatrice – di autointerpretazione, indirizzando in tal modo l'interpretazione del lettore.
Tuttavia, accanto a tali “indizi”, che costruiscono i vari piani dell’allegoria, la Comedia approfondisce la sua struttura “simbolica” perché Dante, quasi portando a compimento le osservazioni teoriche sparse nei suoi scritti precedenti, lascia in essa ampie zone di indeterminatezza o, appunto, di “implicito”. Implicito che non deriva soltanto da “imbarazzi” narrativi (pur presenti, come nella cesura tra i primi sette canti e i successivi dell’Inferno) ma che si presenta, accanto all’allegorico, in quanto dato strutturale. Ciò permette di concludere che la Comedia vuole presentarsi all’interpretazione come testo in cui il poetico si rivela irriducibile non solo al mimetismo e alle sue contingenze, ma all’allegorismo stesso: vi è un piano “altro” (quello, appunto, che oggi potrebbe chiamarsi “simbolico”) che testimonia e mantiene vivo il carattere polisemantico della poesia. Ma, invece di perdersi in modo mistico nell’assolutezza simbolica dell’implicito, Dante, nella Comedia stessa, ne indirizza l’interpretazione, suggerendo dove cercare i piani semantici che mutano il senso simbolico della sua opera.
Porsi sul piano della “semantica” conduce l’interpretazione verso un terreno filosofico: ed è qui che il testo poetico presenta la sua verità dialogica, la rete stessa di esperienze che la determinano. Infatti, dopo avere teorizzato la molteplicità dei sensi di un testo, dopo essere giunto alla conclusione che se essi dimostrano che non esiste un senso “vero” di un’opera poetica, tende con forza a sottolineare che tuttavia vi è in essa, attraverso vari linguaggi e figure, una verità polisemantica. Tale verità non è solo linguistica (e autoreferenziale) poiché indica nel piano filosofico, o estetico-filosofico, il suo terreno simbolico di radicamento.
È noto, a questo proposito, che Dante, senza cercare un'assoluta originalità filosofica, è in gran parte debitore alla cultura del suo tempo. Per esempio, nella definizione della bellezza, riprende le idee tomiste di consonantia e claritas. Tuttavia, nella Comedia, conferisce, attraverso il linguaggio poetico, un valore simbolico – e metafisico – alla bellezza stessa o, più in generale, all'arte e ai processi costruttivi. L'amore è così indicato quale fonte di creazione, l’arte è quasi “nipote di Dio” : e se definisce (come pro domo sua sottolinea Croce) la poesia in quanto “finzione” o “bella menzogna” non applica mai tale generico paradigma alla sua propria opera, che è piuttosto, in particolare nella Comedia, un’esperienza veritativa. Tale esperienza ha come suo obiettivo la bellezza: bellezza che va però intesa in quanto nucleo simbolico del poetico e che dunque indirizza l'interpretazione non verso un dato formale ma su un orizzonte metafisico che può essere “detto” in modi diversi e che ha in tale diversità la sua stessa ricchezza filosofica, espressiva, interpretativa.
È allora questa connessione tra arte, poesia e bellezza il piano simbolico che costituisce l'implicito “assoluto” che Dante presenta all’interprete della sua Comedia. L’arte è qui la dimensione in cui si offre un’esperienza simbolica. La poesia è quella dimensione dell’esperienza in cui può apparire l'oscuro nei suoi contenuti assoluti. La bellezza, infine, è la manifestazione simbolica di una verità teologico-filosofico-metafisica, simboleggiata a sua volta dalla multisemanticità del poetico e dalla ricerca dei suoi molteplici orizzonti (figurali) di esibizione possibile.
È su tale piano, dunque, che Dante pone il problema più profondo e autentico dell’interpretazione della poesia: ed è forse proprio la presenza di questa conclusione teorica a far comprendere il motivo della sua assenza nei testi “sacri” dell'ermeneutica contemporanea. L'interpretazione non è infatti per lui, anche se non raggiunge la certezza assoluta, una storia degli effetti che regredisce all'infinito, di implicito relativo in implicito relativo, bensì un piano simbolico o, meglio, estetico-simbolico, che vuole condurre su un piano veritativo che soltanto la poesia, con le sue proprie specifiche strutture e figure, con i suoi stilemi, può rilevare nelle sue intrinseche potenzialità stilistiche ed espressive, nei suoi stessi legami con una complessa rete esperienziale culturale e filosofica. Così, come scrive Ezra Pound, i versi di Dante «vanno dritti al loro scopo, cioè tirano in movimento l'occhio del lettore, invece di cullarlo in un’amaca. L’elemento fondamentale non è sacrificato al dettaglio. Per quanto ciò appare semplice nel dirlo, ci vuole tempo per imparare a farlo» .