L’allegosimo dantesco secondo Robert Hollander: esegesi retorica e scritturale tra Convivio e Commedia [Matteo Maselli]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Matteo Maselli

Tratto da: Rivista Internazionale di Ricerche Dantesche

Numero: III

Anno: 2022

Pagine: 211-232

«Quantum distat inter nigredinem corvorum nitoremque columbarum lactearum,
imo et amplius, distat inter occidentem litteram et vivificantem spiritum»
(Ruperto, In Cant., 1.5)

1. Premesse teoriche: il quadruplice senso scritturale

Nell’introdurre le questioni che avrebbe poi trattato nei suoi Dante Studies (1954-58), Charles Singleton lamentava il disinteresse per l’allegoria dantesca – è il caso di Croce – o la corrotta inclinazione di lettura di contenuti sovra-testuali da parte degli esegeti del suo tempo. Questi, a detta dello studioso, erano ancora inebriati dai precetti rinascimentali che professavano un certo discredito per i retaggi medievali dai quali discendeva quella che Singleton stesso definiva la principale allegoria della Commedia o allegoria dei teologi.
A distanza di circa quindici anni da questa costatazione, Robert Hollander in Allegory in Dante’s Commedia (1969) esterna il medesimo rammarico. Ritenere l’allegoria dei teologi secondaria rispetto ad altre forme di significazione non comporta solo il privarsi della corretta prospettiva d’indagine del poema, ma implica anche il dimenticarsi come la cultura di Dante fosse coerente con la quadripartizione del senso scritturale espressa tra gli altri in Tommaso, e questo pur ammettendo alcune volontarie deviazioni dalle sue norme come la plausibilità d’impiego di un dispositivo di esclusiva pertinenza divina. Tuttavia, anche tale anacronismo risulterà legittimo se si terrà conto del fatto che Dante era intenzionato ad imitare il modo di scrivere di Dio e non animato dalla pretesa di esserne un sostituto nell’atto creativo. D’altronde, se Tommaso riteneva impossibile per un umano scrivere secondo l’allegoria dei teologi, non sembra abbia vietato la possibilità di imitare tale tecnica.
Risulta così conveniente volgere l’attenzione a ciò che l’Aquinate scrive nella Summa Theologiae, con la premessa che egli sottintende la distinzione allegorica operata da Agostino nel De Trinitate tra un significato in verbis ed uno in facto:

auctor sacrae Scripturae est Deus, in cuius potestate est ut non solum voces ad significandum accommodet (quod etiam homo facere potest), sed etiam res ipsas. Et ideo, cum in omnibus scientiis voces significent, hoc habet proprium ista scientia, quod ipsae res significatae per voces, etiam significant aliquid. Illa ergo prima significatio, qua voces significant res, pertinet ad primum sensum, qui est sensus historicus vel litteralis. Illa vero significatio qua res significatae per voces, iterum res alias significant, dicitur sensus spiritualis; qui super litteralem fundatur, et eum supponit. Hic autem sensus spiritualis trifariam dividitur. Sicut enim dicit apostolus […] lex vetus figura est novae legis, et ipsa nova lex, ut dicit Dionysius in ecclesiastica hierarchia, est figura futurae gloriae, in nova etiam lege, ea quae in capite sunt gesta, sunt signa eorum quae nos agere debemus. Secundum ergo quod ea quae sunt veteris legis, significant ea quae sunt novae legis, est sensus allegoricus, secundum vero quod ea quae in Christo sunt facta, vel in his quae Christum significant, sunt signa eorum quae nos agere debemus, est sensus moralis, prout vero significant ea quae sunt in aeterna gloria, est sensus anagogicus

Contrariamente alla voce umana, il cui valore evocativo è chiuso nei confini della lettera, la Parola di Cristo si fa carne e così ogni sua emanazione verbale, raccolta poi nelle Scritture, avrà la facoltà di esprimere contenuti in rapporto diretto con la realtà fattuale. La Bibbia sarà dunque una trasposizione scritta di fatti reali e azioni storicamente fondate nella provvidenza divina. Tuttavia, anche Dio può proporre contenuti fuori dalla logica della verità storica. Ricorrendo ad una metafora musicale, diffusasi in tutto il Medioevo, Agostino diceva chiaramente che le Scritture avevano le stesse proprietà sonore di una cetra: se tutta la struttura concorre al suono, solamente le corde pizzicate dal musicista lo producono. Ugualmente, non tutte le sezioni del testo sacro sono partecipi della verità ultima, la quale risuonerà soltanto dove la parola intrattiene un rapporto diretto con le disposizioni evocative di Dio.
Chi legge la Bibbia avrà la possibilità di cogliere questo iato nei racconti parabolici o nei proverbi poiché questi sono concepiti come momenti in cui professare una lezione morale che potrà essere condivisa con maggiore facilità se definita ricorrendo ad immagini idealizzate e astoriche. La stessa mancanza di fondatezza storica è ravvisabile in quei passaggi apposti nel testo al solo fine di puntualizzare o adornare i temi affrontati dove la parola è incarnata. Per converso vi saranno passaggi privilegiati nel prestarsi meglio di altri ad evocare significati riposti oltre la lettera.
La necessità che porta a compiere una distinzione tra diversi gradi di verità testuale è dovuta al fatto che solo laddove è confermata una configurazione storica potranno ammettersi i quattro sensi teologici. Non tutto il contenuto delle Sacre Scritture, così come quello della Commedia, è dunque deputato a contenere verità assolute.
Alla luce di ciò, vi sarà possibilità di sopraggiungere a quest’ultime solo se in possesso di una ferma conoscenza dei livelli di avvicinamento progressivo alla rivelazione teleologica. È dunque necessario che questi siano esplicitati nei loro tratti costitutivi.
Il senso letterale, il primo che il lettore incontra, mostra intuitivamente il verificarsi di un evento così come appare sulla superfice esterna del testo. Quando è storicamente significativo può però essere inteso spiritualmente o «pneumaticamente», ovvero si fa portatore al suo interno di una verità preziosa e nascosta – «foris in historia littera; intus intelligentia spiritali». La tradizione esegetica ha descritto tale situazione ricorrendo ad un repertorio d’immagini molto vario. In questo caso il livello letterale si costituirà di altri tre significati interni: allegorico, morale e anagogico.
Dei tre quello di più ostica identificazione è l’allegorico, noto anche come senso tipologico in quanto usato per istituire una relazione tra «tipi». L’esempio proposto da Hollander aiuta a comprendere meglio questa forma di interazione: i tre giorni che Giona trascorre nel ventre della balena, seguiti poi dalla sua riemersione, rappresentano un’immagine tipologica dei tre giorni che Gesù ha trascorso sulla terra dopo la Crocifissione ai quali è seguita la Resurrezione. La complessità dell’allegorismo scritturale è dovuta proprio a questo meccanismo di evocazione tipologica. Quando un evento di un passo biblico o suoi singoli vocaboli hanno la facoltà di significare simultaneamente altro rispetto a quanto mostrano nella lettera, esprimono una facoltà figurativa: l’evento testuale è umbra, tipo o figura di un altro evento. Può ben comprendersi come la corretta individuazione dell’elemento tipologico di rapporto al passo ad esso umbratile condizionerà quanto potrà ricavarsi degli ultimi due livelli scritturali e altresì come l’operazione di raccordo tra tipi non sia immediata e di facile gestione. Se nelle prime prove esegetiche alle Scritture la lettura tipologica era prevalentemente adoperata per portare alla luce le sole prefigurazioni di Cristo o della Chiesa secondo la massima gregoriana del «Christus et Ecclesia, una persona est», con lo stabilizzarsi della tecnica gli ambiti di evocazione tipologica si sono viepiù diversificati nel numero e nelle entità coinvolte.
Tuttavia, nonostante il moltiplicarsi delle possibilità deduttive, i Padri della Chiesa erano piuttosto concordi nella decifrazione del senso allegorico. Lo stesso non può invece affermarsi per il livello morale o tropologico, ovvero l’insegnamento cristiano ricavato dalla comprensione del figuralismo e rivolto all’utilità del vivere terreno in preparazione di quello ultraterreno espresso poi dal livello anagogico. La morale di cui tratta questo senso, poiché dipendente dai dogmi cristiani, regola la vita dell’anima del credente. Proprio la definizione di una prassi comportamentale rende l’adattabilità della lezione morale estremamente duttile in base al contesto a cui si rivolge l’azione dell’uomo. Solo una certa coerenza della lettura, che di norma non dovrebbe essere contraddittoria o comunque tale da rimanere nei limiti delle concessioni della fede, poteva limitare l’inventiva dell’interpretazione tropologica.
L’ultimo senso spirituale, detto anagogico, teleologico o escatologico, permette di rapportare la lezione morale ricavata dalla lettura figurale del testo all’eternità del regno di Dio. Con esso viene dunque portata a compimento quella tendenza innata che, se non deviata dall’esercizio di una corrotta morale, spinge l’uomo da una dimensione contingente ad una immanente permettendogli di riflesso la rivelazione del predefinito piano di Dio.
Nonostante l’enumerazione sciolta dei singoli sensi preme ricordare che gli stessi devono essere intesi come parte di un unicum generalizzato, il cui funzionamento dipende dalla giusta correlazione dei livelli proiettati verso un compimento finale e sommativo. Henri de Lubac ha scritto pagine illuminati su come l’ordine dei piani scritturali si svolga secondo un principio di completamento reciproco. Nonostante non siano mancate permutazioni in merito al rapporto allegoria-tropologia, casi in cui l’anagogia venga assorbita nell’allegoria, preferenze per una tricotomia allegorica o assenza di continuità fissa in uno schema spirituale, il quadro qui considerato tiene conto della successione dei livelli teologici nell’ordine in cui sono stati appena illustrati:

Con un moto naturale e necessario si passa «de historia ad allegoriam, et de allegoria ad moralitatem». L’allegoria è per davvero la verità della storia; questa, se restasse sola, sarebbe incapace di completarsi intelligibilmente; l’allegoria la completa dandole il suo significato. Il mistero che l’allegoria scopre apre a sua volta un nuovo ciclo [che] […] per diventare pienamente se stesso deve doppiamente completarsi. Dapprima esso si interiorizza e produce il suo frutto nella vita spirituale, di cui tratta la tropologia; poi questa vita spirituale deve espandersi al Sole del Regno, in quella fine dei tempi che è oggetto dell’anagogia; perché ciò che adesso realizziamo in Cristo con la volontà deliberata è ciò che […] costituirà l’essenza della vita eterna.

Da una così indissolubile concatentio appare dunque chiaro come uno dei vantaggi permessi dal ricorso all’allegoria scritturale riguardi la possibilità di una rappresentazione che sia all’unisono storica, morale e metafisica, aspetto che anche Dante terrà in considerazione nella predisposizione delle sue opere.

2. L’allegorismo nel Convivio

In tutta la sua produzione Dante discute sistematicamente dell’allegoria in due circostanze. Oltre ai paragrafi VII e VIII dell’Epistola XIII, sui quali si ritornerà successivamente, l’allegorismo è oggetto di discussione nel secondo trattato del Convivio (II, i, 2-6). Nel passo in questione, che è problematico sotto diversi punti di vista, non da ultimo per una lacuna testuale che è stata ovviata solo dagli editori moderni, Dante compie una distinzione tra l’allegoria dei poeti e quella dei teologi.
È risaputo, poiché segnalato nello stesso trattato filosofico, come il senso letterale delle canzoni in esso contenute sia affine a quanto Dante definisce «bella menzogna», implicazione che costringe il ricorso all’allegoria in verbis. Tuttavia, pur non rinnegando una assodata acquisizione della critica, Hollander ritiene che il quadro allegorico del Convivio sia molto più problematico e complesso di quanto si possa ammettere nel riconoscervi la sola applicazione dell’allegoria dei poeti, la cui lettera si limitava a contenere una mera lazione morale.
Per procedere è bene avere sullo sfondo il passo conviviale succitato:

[2] Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi.
[3] L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna […].
[4] E perchè questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.
[5] Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia.
[6] Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria sì, come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera (Conv. II i 2-6)

Questo estratto completa la dichiarazione che chiude il primo capitolo del trattato precedente in cui Dante ha professato l’intenzione di procedere con una lettura interpretativa del contenuto allegorico delle canzoni del Convivio:

per allegorica esposizione quelle [le canzoni] intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata (Conv. I i 18).

L’intenzione di Dante comporta già di per sé una problematica terminologica che rischia di generare un contraddittorio con la sua esplicita volontà di «seguitare […] lo modo de li poeti» accogliendone «lo senso allegorico». La «litterale istoria», che necessita di una prima disamina per poter poi permettere una riflessione allegorica, non sembrerebbe dalle scelte lessicali di Dante riferirsi ad un livello letterale fittizio come ci si aspetterebbe essendo rivolta alle canzoni del Convivio. Al contrario, la denotazione «istorica» potrebbe suggerire quella proprietà di veridicità del testo che è tipica delle Scritture – Hollander è più diretto e parla di un ipotetico parallelo con la «litteralis sive historicus» di Tommaso. Né tantomeno l’inizio del secondo trattato sembra sia funzionale ad appianare i rischi di una paventata incoerenza riscontrata a livello della lettera; al contrario si ha l’impressione che più punti al suo interno non facciano altro che complicare ulteriormente la questione. Il rimando ai «quattro sensi» nel secondo paragrafo è infatti un inequivocabile riferimento all’allegoria biblica, confermato tra l’altro dalla contestualizzazione del termine «scritture» che, per quanto privo dell’aggettivazione sacrale, è una diffusa alternativa lessicale per richiamarsi alla Bibbia. Lo stesso vocabolo ritornerà infatti nel V paragrafo in merito al senso morale che, come il successivo senso anagogico menzionato nel paragrafo VI, è esclusivo del senso letterale quando questo è inteso spiritualmente, eventualità che può ammettersi solo in un testo costruito con allegorie scritturali.
Si ha dunque l’impressione che Dante abbia iniziato a trattare l’allegoria dei poeti e abbia finito per discutere quella dei teologi. Anche gli esempi a corredo delle sue argomentazioni non sembrano smentire questa pratica, ma anzi contribuiscono a rafforzarla: per esemplificare l’elitarismo di un apprendimento morale delle «secretissime cose» che ci richiede «poca compagnia» Dante richiama la salita di Gesù al monte della trasfigurazione seguito da soli tre discepoli, mentre ricorre all’Esodo per chiarire meglio cosa intendesse con il livello teleologico.
Il punto di non ritorno coincide, infine, con il paragrafo finale del primo capitolo del secondo trattato, che riassume il piano operativo di Dante:

Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta delli altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà (Conv. II i 15)

Talvolta, ci dice l’autore, applicherà una procedura interpretativa scritturale – «delli altri sensi toccherò incidentemente» – ad un prodotto letterario e dunque fittizio. A questo punto, Hollander non ha più dubbi: «[t]his makes the poetry of Convivio a hybrid». Insomma, nel dichiarare i modi significandi del Convivio, ovvero l’uso dell’allegoria poetica, Dante, combinando un modello allegorico retorico con uno scritturale, presenta al contempo l’eventualità dell’impiego di un allegorismo teologico e ciò avviene poiché in tal modo è tenuta viva l’eventualità di riconoscere anche ad un poeta la possibilità di ricorrere a metodologie di significato – come l’allegoria in factis – esclusive dei testi sacri.
A seguito di questa constatazione, Hollander si interroga sul come sia possibile una deroga ad una legge interpretativa e retorica secolarmente applicata e dunque rispettata. Un simile tratto è infatti di capitale importanza per la poetica dantesca – potrebbe addirittura azzardarsi che per la Commedia sia l’essenza stessa della pianificazione del poema – in quanto consente a Dante di intrecciare la cultura religiosa con quella secolare. Pertanto, ci si deve chiedere come possa una poesia fatta di «parole fittizie» che formano una «bella menzogna» priva di ogni credibilità storica essere accostata ai quattro sensi dell’allegoria biblica. L’unica possibilità in cui intravedere una minima libertà di movimento riguarda l’autorevolezza della fictio poetica. Hollander può così concludere come, pur non discostandosi dalla prima caratterizzazione della poesia conviviale come forma di «bella menzogna», Dante sia tuttavia persuaso che il significato emerso dall’insieme delle «parole fittizie» possa presentare un valore contenutistico tale da avvicinarsi a quello che, come si vedrà meglio con la Commedia, si riconoscere essere proprio delle Scritture.
Nell’azzardare poi un’ipotesi che giustificasse la frammentarietà finale del trattato, Hollander attribuisce la decisione di Dante di sospendere la stesura del Convivio al ravvedersi del poeta che non avrebbe potuto porsi come cantore della rettitudine affidando la sua voce ad una forma di allegoria che postulava un primo significato menzognero.

3. L’allegorismo nella Commedia

La Lettera a Cangrande della Scala è il miglior accessus in nostro possesso sull’allegorismo della Commedia, che viene affrontato da Dante nei paragrafi VII e VIII:

[7] Per chiarire quello che si dirà bisogna premettere che il significato di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l'altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico.
Questi diversi modi di trattare un argomento si possono esemplificare, per maggior chiarezza, con i versetti: «Allorché dall'Egitto uscì Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; la nazione giudea venne consacrata a Dio; e dominio di Lui venne ad essere Israele». Infatti se guardiamo alla sola lettera del testo, il significato è che i figli di Israele uscirono d'Egitto, al tempo di Mosè; se guardiamo all'allegoria, il significato è che noi siamo stati redenti da Cristo; se guardiamo al significato morale, il senso è che l'anima passa dalle tenebre e dalla infelicità del peccato allo stato di grazia; se guardiamo al significato anagogico, il senso è che l'anima santificata esce dalla schiavitù della presente corruzione terrena alla libertà dell'eterna gloria.
E benché questi significati mistici siano definiti con diversi nomi, generalmente si possono tutti definire allegorici, in quanto si differenziano dal significato letterale ossia storico. Infatti la parola «allegoria» deriva dal greco «alleon» che è reso in latino con «alienum» ossia «diverso».
[8] Ciò premesso è chiaro che il soggetto di un'opera, sotto posto a due diversi significati, sarà duplice. E perciò si dovrà esaminare il soggetto della presente opera se esso si prende alla lettera e poi se s'interpreta allegoricamente.
È dunque il soggetto di tutta l'opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l'opera.
Ma se si considera l'opera sul piano allegorico, il soggetto è l'uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina.

Un dato risalta subito alla lettura dei frammenti riportatati. Nell’Epistola, a prescindere dalla paternità dantesca, vi è una maggiore organicità e linearità teorica rispetto a quanto visto nel Convivio poiché in essa è indicato esplicitamente che il contenuto della Commedia è piegato ai principi dell’allegoria cristiana. Il critico che accetta le indicazioni di lettura dell’Epistola – e Hollander definisce la sua procedura d’indagine rapportandosi a questa necessità – dovrà ora capire come Dante sia riuscito a modellare la sua poetica usando il tecnicismo dell’allegoria teologica. In ciò il testo a Cangrande è la fonte adatta, per certi versi anche l’unica necessaria, per comprendere la delicata fase di istituzione del rapporto tra allegorismo e finzione nella Commedia poiché ci educa chiaramente a considerare la complessità semantica del poema in rapporto alla quadripartizione dei piani scritturali:

The poem has a literal sense which operates whenever the actual events and persons of the afterworld are described immediately, historically, as it were. It has a figural or allegorical sense as what we see there relates to history here (to keep in mind Dante’s continual distincion between the two realms). It has a moral sense as what we see there tells us what we should do here. It has an anagogical sense as what we see there informs us of God’s purpose for the future, or at least shows us that there is such a purpose by letting us see that nothing is either unknown to God or beyond His power, that all is in accord with His plan.

Il senso letterale ci mostra lo stato delle anime dopo la morte di coloro che incontriamo leggendo il poema e che ci sono presentati nelle condizioni conseguenti al modo in cui hanno operato in vita. Il senso allegorico rende evidente la connessione che sussiste tra il loro stato oltremondano e il loro trascorso terreno, mentre il senso morale ci mette in allerta rispetto ai peccati spronandoci all’agire retto dopo aver subito la fascinazione di exempla concepiti da Dante come correlati al piano di Dio. Quest’ultimo ha infatti impostato un ordine di condanne e premi sulla logica della dimensione anagogica.
Se fin qui il quadro teorico è abbastanza lineare poiché apertamente dipendente da quanto espresso nell’Epistola, lo scenario si complica notevolmente riflettendo sulle conseguenze che l’adozione della quadripartizione dei sensi biblici ha nella stesura della Commedia.
È innegabile che con questo connubio Dante definisca di rimando la facies valoriale del suo testo, fondata sulla dottrina cristiana dell’Incarnazione e in contrasto con la tradizione allegorica gnostica che di norma ha guidato l’esegesi dei primi commentatori della Commedia – con poche eccezioni come Filippo Villani e Benvenuto da Imola – impostandola sulla falsa riga dello studio della personificazione allegorica della Psychomachia di Prudenzio. Mentre gli gnostici rinnegano l’atto imitativo dell’arte e la storicità di tale processo poiché ritengono che il mondo al quale la letteratura si rivolge sia ammantato da un velo che ne cela le verità ultime, Dante, muovendosi nell’ottica dell’Incarnazione cristiana, giunge ad altre conclusioni. Seppur concorde sulla consistenza umbratile del mondo terreno rispetto a quello divino, lo considera tuttavia come un’ombra sustanziale, ovvero come se fosse in possesso di una reale e profonda esistenza che lo rende riflesso tipologico del modello divino. La realtà tratteggiata nella lettera della Commedia acquista così una configurazione storicamente fondata come quella del contenuto pregno di significato delle Scritture – paragone che ammette l’uso dell’allegoria dei teologi. Una parte della dantistica riconoscerà in questo tratto il principale segno della superiorità artistica dalla Commedia rispetto a lavori vagamente omologhi:

la «fortuna» di Dante [consiste nella] […] consapevolezza che c’erano – e come riteneva lui – che sempre ci sarebbero stati lettori del poema desiderosi di vedere la Carne nel Verbo ed il Verbo nella Carne, due nature in una, fuse in una visione irriducibile all’una o all’altra.

Se invece si fosse adeguato alla corrente gnostica Dante non avrebbe potuto che limitarsi alla sola allegoria dei poeti poiché ogni forma di letteratura che cercasse di raffigurare il nostro mondo ha, per lo gnostico, un valore assimilabile a quello delle parabole che non contemplano l’impiego dell’allegoria biblica.
Una seconda e naturale conseguenza di un contesto narrativo così formulato è l’apertura alla tradizione del realismo figurale di Auerbach che, stando a quanto ritenuto da Hollander, prepara la ripresa dell’idea aristotelica di imitazione. Proprio perché la Commedia, al pari della Bibbia, considera il senso letterale come se fosse storicamente costituito, Dante va alla ricerca di un grado di perfezione della tecnica della mimesi che proceda di pari passo con quello della dottrina.
Infine, una terza implicazione, così importante da contenere le due precedenti, vede Dante indossare i panni del theologus-poeta, così come Hollander lo canonizza in un noto saggio degli anni ’70 e che già si prefigurava dal ruolo di scriba dei che l’Alighieri stesso si attribuisce in modo più o meno esplicito in diversi punti della sua poetica:

[…] with the exception of Filippo Villani, none of Dante’s fourteenth-century commentators takes his claim seriously, and they rather treat Dante as a poeta-theologus than the theologus-poeta […]. The distinction, which may seem minimal, is crucial. For the champions of the poeta-theologus […] claim a high calling but not the direct inspiration of the Holy Spirit for their own literary productions, which they treat – unlike Dante – as beign literally untrue, if they simultaneously assert their allegocial truth. […] Dante, on the other hand, no matter how veiled the claim, clearly asserts that his poem is divinely inspired and theologically true, […] He is a theologus-poeta, an ispired poet who begins with the truth of what he tells.

La centralità della metamorfosi autoriale di Dante consiste nel riuscire ad eludere con essa un rischioso paradosso che minava l’autorità del suo poema. Nel corso del Medioevo era infatti prassi abbastanza comune riconoscere quasi esclusivamente nei teologi coloro che consideravano il mondo come creazione storica, laddove i letterati erano invece maggiormente interessati ad una forma di letteratura che negava l’utilità dell’imitazione e con essa il senso storico-letterale. Il poeta era dunque inteso come favolista e i suoi lavori delle finzioni prive di fondatezza. Dante e la Commedia, poiché theologus-poeta ed opera di ispirazione divina, sono diametralmente opposti al letterato bugiardo e al testo fasullo.

3.1. Il «figuralismo verbale»

La dichiarazione di poetica che segue al nuovo statuto di theologus-poeta può riassumersi con efficacia in una coincisa e nota apostrofe che Singleton riferisce al testo della Commedia: «[t]he fiction of the Divine Comedy is that it is not fiction». La «fiction» di cui discute Singleton non è né esclusiva «finzione» né limitata «narrazione», ma un esito di reciproci scambi tra i due che sussistono in contemporanea. Scrivendo la Commedia a imitazione di Dio Dante è ovvero intenzionato a promuovere una narrazione che, anche per effetto dell’allegoria dei teologi, non venga ritenuta finta, ma che nonostante ciò rimanga pur sempre una fictio. Poiché la suddetta attribuzione allegorica implica la condivisione dell’autorità della verità scritturale, che dovrà però affiancarsi ad un ambito d’invenzione, Hollander propone di definire la Commedia come una «menzogna vera» – si percepisce chiaramente l’allusione contrastiva alla «bella menzogna» del Convivio –, ovvero un poema il cui significato letterale deve considerarsi vero, storicamente stabilito e non immaginifico. Pertanto, al pari della Bibbia, quanto accade nel poema è parte di una dimensione storica, con l’ovvia eccezione di quelle inserzioni paraboliche che hanno il solo fine di rendere esplicito un messaggio morale e che conterranno dunque quella forma di allegoria consona alle «parole fittizie». Come si vedrà a breve, Dante si premura di richiamare l’attenzione dei suoi lettori quando nel testo si incontrano sezioni di questo tipo appellandosi direttamente loro e, come accade in Inf. IX, pregandoli di «guardare sotto il velo» della lettera.
A questo punto è inevitabile un distinguo in merito alla natura costitutiva del livello letterale di cui si è potuto avere sentore già nell’integrazione della lacuna del secondo trattato del Convivo dove Vandelli e Busnelli lo definiscono come «quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie». È questa una puntualizzazione centrale nella progettazione e nella stesura della Commedia.
Secondo una tradizione che risale quantomeno ad Agostino e Tommaso, l’attribuzione «fittizia» ad una parola la rende semanticamente inerte oltre la sua immediata valenza grafica. Al contrario, quando una parola è detta «vera» avrà la qualità di significare circostanze ed entità altre rispetto alla semplice composizione lessemica. Dante, ben consapevole di questo diverso grado di significazione, riserva per la Commedia «parole vere» sottraendo un primato che era esclusivo delle Sacre Scritture. Viene dunque da chiedersi come possa ammettersi un atto di questo tipo. Per dirimere la questione Hollander ricorda come per l’Alighieri gli eventi registrati nella letteratura dell’antichità pagana avevano una validità storica paragonabile a quella degli eventi registrati nella Bibbia, seppur quest’ultimi possedevano un gradiente di verità maggiore. L’esempio proposto dallo studioso americano, che prefigura delle intuizioni poi sviluppate in studi successivi, riguarda l’analisi di una serie di termini che Dante rivolge a Virgilio e al prodotto della sua attività artistica. Riferendosi al mantovano che gli appare nel drammatico momento di caduta in «basso loco» (Inf. I 71) dopo la comparsa delle fiere in Inf. I, Dante è prodigo di sinceri elogi riconoscendo nel poeta l’«autore» di quel «volume» che ha letto e riletto in ogni sua parte, quell’Eneide che «[sa] tutta quanta» (Inf. XX 114). Stando al conteggio delle occorrenze nella Commedia, il vocabolo «volume» apparirà, oltre nel primo canto dell’Inferno in riferimento all’Eneide, per altre sei volte, tutte nell’ultima cantica dove sta ad indicare la Bibbia o lo stesso Paradiso, il Libro di Dio o la sua Creazione. Ugualmente, il termine «autore» che Dante associa a Virgilio ritornerà prima in Inf. IV (v. 113) per descrivere le anime del Nobile Castello e poi in Par. XXVI dove Dio è detto «verace autore» (v. 40). Virgilio non è dunque un mero favolista e l’Eneide non è una mera favola; Virgilio è un «autore» e la sua fatica quanto di più lontano possa esserci dell’invenzione fine a sé stessa se addirittura Hollander ritiene l’Eneide una controparte del Vecchio Testamento. Ma ciò che più conta è che Dante aveva a disposizione per la sua Commedia, ed egli stesso ce lo dice con la sottigliezza dell’intratestualità lessicale e tematica, un autorevole esempio di come persino il senso letterale di un poema pagano potesse essere storicamente attendibile e non una trascurabile finzione il cui significato ultimo era contenuto nella morale avvolta dal velo di una sterile fabula. L’Alighieri rigetta così la «virgiliaca mendacia», espressione coniata per indicare una fasulla base mitologica dell’esperienza artistica. Inoltre, poiché l’Eneide sembrava condividere la stessa funzione salvifica della Commedia, sotto certi aspetti Dante potrà con il suo poema addirittura inverare e completare il poema pagano di Virgilio.
Poiché questo processo di rievocazione terminologica e integrazione semantica risponde allo stesso principio di adempimento tra tipi nei rapporti figurali, viene sagacemente definito da Hollander come «figuralismo verbale», un fenomeno abbastanza radicato nella Commedia dove si ritrovano le condizioni che ne rendono possibile l’attuazione:

If the poem mirrors universal history, that is, if it behaves like the literal sense of the Bible, then, as it develops it takes on the propensities of universal history by which its inner verbal consistencies are also ordered by a sense of «historical» progression.

Un termine, dunque, rimanda, lungo un asse di andamento progressivo, ad un altro termine che permette di chiarire meglio il vocabolo di partenza in merito al contenuto e alle implicazioni che riverbera nel contesto di riferimento. Per dimostrare l’uso da parte di Dante di questa forma di figuralismo Hollander esamina più di un caso – in aggiunta allo studio virgiliano «autore-volume» visto prima – di cui credo possa essere utile illustrare quello che il critico medesimo ritiene sia la migliore manifestazione dello stesso fenomeno che il poema offra. Il fatto in questione riguarda Ulisse.
Tra i molti particolari che qualificano l’episodio ulissiaco di Inf. XXVI Hollander considera con particolare premura il movimento della nave dell’eroe greco che, dopo l’«orazion picciola», si volge a levante stabilendo la direzione del viaggio:

e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle vole,
sempre acquistando dal lato mancino
(Inf. XXVI 124-126)

In un dialogo tra immagini nautiche la «poppa» riacquista spazio in un ideale luogo testuale, laddove cioè la «poppa» di Ulisse, inabissata per volere divino, scompare per sempre agli occhi del lettore:

Da poppa stava il celestial nocchiero,
tale che faria beato pur descripto;
e più di cento spiriti entro sediero.
(Purg. II 43-45)

In Purg. II l’angelo nocchiero governa la nave di anime salvate alla dannazione e pronte a purgarsi per salire a Dio. Qui, nel riuscito approdo alla spiaggia del secondo regno della barca sulla quale l’angelo «[d]a poppa stava», trova adempimento la figurazione del viaggio di Ulisse che proprio in quelle acque aveva subito le incontrovertibili disposizioni divine interrompendo senza alcuna possibilità di resistenza la sua navigazione. Sempre nella seconda cantica, la «poppa» ricorrerà con intenti descrittivi ancora più nobili. Così Dante si esprime in merito all’apparire di Beatrice nel Paradiso terrestre:

Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incuora
(Purg. XXX, 58-60)

Beatrice si fa ammiraglio «of the fleet of which Dante’s bark is one» in quanto la Commedia stessa «has by now become a ship». Le immagini associate al termine «poppa» formano quindi una successione di adempimento progressivo: dal viaggio di Ulisse al viaggio purgatoriale fino al viaggio didascalico di salvezza dell’anima esposto come fine della Commedia.
L’ultimo elemento della catena figurale consente dunque una migliore comprensione, che si consegue retrospettivamente, degli elementi che lo hanno preceduto ed introdotto e contemporaneamente dell’intera successione. Questo tratto, che riguarda le coordinate temporali in cui il figuralismo si dispiega, sembra essere caratteristico dell’esperienza dantesca e persino fondamentale, al di là di un discorso di allegoresi pura, per una configurazione armonica e modulare dell’intera narrazione del poema.
Poiché per un lettore leggere la Commedia presuppone ovviamente il suo essere ancora in vita, venire a conoscenza delle vicende del regno dei morti implica l’anticipare l’entrata in una realtà che lo attende e che è pertanto ad esso futura. L’andare a disvelare significati reconditi di eventi e/o personaggi di quella dimensione che per noi è ancora da venire vorrà dire muoversi al ritroso (passato) da una condizione già definita di piena compiutezza (futuro). Ogni tentativo di apertura del senso ultimo riposto in quella compiutezza implicherà una sua rottura per dare spazio ad un suo stadio precedente: dal compiuto (dopo) si passerà alla sua formazione (prima).
Quando incontriamo un qualsiasi abitante dell’oltretomba dantesco o assistiamo ad una loro azione siamo prima di tutto al cospetto del loro attuale «stato in morte» e solo successivamente, per quanto quasi contemporaneamente, si farà strada in noi la consapevolezza che quello stato è il compimento di una data condotta terrena. Coerentemente con lo «status animarum post mortem», l’ordine tradizionale del figuralismo è capovolto allorché la ricerca di soggetti o eventi coinvolti nel rapporto tipologico comincerà solo dopo che ne è stato mostrato l’adempimento:

We see the fulfillment and then look for the figura

Dante’s method is unusual in that we must move from his condition now to the previous type of that condition, thus reversing the usual biblical procedure, which moves from then to now.

Lo stesso è notato da Armour a conclusione della disamina sull’allegorismo dantesco in Allegory and Figural Patterns in the Commedia: a review (2005):

[…] the creatures and souls, landscapes and symbols, experiences and lessons which Dante the traveller and his subsequent hearers and readers learn from the literla sense must be read back into the reform of this life which precedes and will predetermine it.

In questo paradigma temporale l’ora di cui parla Hollander diventa per Dante il dopo del «momento precedente», mentre quest’ultimo si attesterà come il prima. Nelle Scritture, al contrario, si passa «ex illis quae facta sunt usque ad ista quae fiunt», dalle cose che sono a quelle che saranno, dal prima al dopo:

[...]

A risentirne è chiaramente anche l’eventualità di una tensione verso il futuro. Per cui, il lettore del poema deve, attraverso ciò che vede «ora» nella lettera quale punto conclusivo di un adempimento figurale progressivo iniziato nel passato, giungere ad un senso morale e poi anagogico che lo spingeranno verso il futuro, dato che il piano morale incide sulle scelte della vita da compiersi solo dopo la percezione di un exemplum, di logica antecedente all’atto morale stesso, e perché il piano anagogico rivela la volontà di Dio che sarà totalmente evidente solo alla fine dei tempi. D’altronde, se, come diceva Gregorio, l’allegoria edificava la fede e la tropologia la carità, l’anagogia edificava la speranza di un’ascensione verso Dio dettata da tempi escatologici.
In aggiunta a quanto detto, Hollander rimanda anche ad un altro aspetto da tenere in considerazione e cioè la presenza di un doppio soggetto nel poema che viene coinvolto nelle spire del figuralismo. Oltre ad un soggetto che vede – e fa vedere – lo stato delle anime dopo la morte attivando il succitato processo di progressione figurale, vi è anche un soggetto che non si limita ad osservare quelle anime, ma entra nella loro sfera d’azione agendovi di conseguenza. Ecco perché Montano ebbe modo di scrivere che «[p]assare attraverso il mondo del male, giungere al regno dei cieli, doveva necessariamente significare, per [Dante], essere nel male, partecipare della beatitudine celeste». Ciò che unisce questi due soggetti è per Hollander proprio il figuralismo e l’esito del loro congiungimento è la determinazione di una storia universale.
Prendiamo come esempio l’inizio dell’ascesa di Dante alla montagna del Purgatorio. Limitandoci a considerare il viaggio che il pellegrino ha compiuto fin qui, fatto dunque di sola osservazione dello stato delle anime dopo la morte, possiamo attribuirgli i consueti quattro significati scritturali: letteralmente Dante comincia la salita lungo le cornici purgatoriali per un cammino che condurrà alla Grazia; allegoricamente viene indicata la crescita etica dell’uomo che segue un percorso di avvicinamento a Dio; moralmente l’ascesa di Dante, nel corso della quale ci verranno mostrati gli effigiati effetti dall’accondiscendenza e del diniego delle virtù, ci insegna la corretta prassi da tenere per essere buoni cristiani; anagogicamente è indicato che la volontà di Dio e il congiungimento tra piano terreno e spirituale si manifestano scegliendo un mortale che sia mediatore della sua lezione presso i suoi simili. Se tuttavia si considerano ora anche gli esiti delle azioni compiute da Dante per arrivare a questo punto della narrazione e vengono rapportati a quelli conseguenti ai comportamenti delle anime incontrate, emergeranno delle estensioni di figuralismo prima non considerate. Quando Dante giunge alla spiaggia purgatoriale, oltre agli attributi della lettura secondo i quattro sensi, sarà altresì figuralmente collegato ad Ulisse poiché è riuscito in un’azione in cui il greco ha fallito dato che la nave di quest’ultimo affonda alla vista del Purgatorio; sarà collegato a Catone poiché esprime l’azione del desiderio di libertà dal male che ha appena visto nell’Inferno, e Catone «libertà va cercando» (Purg. I 71); sarà collegato a Cristo nell’atto di discesa e fuoriuscita dagli Inferi ora confermata dall’approdo purgatoriale. Quest’ultimo paragone è di particolare importanza poiché, seppur secondo modalità di raffronto diverse, può valere anche per lo stesso Catone che è figura Christi poiché è figura di Mosè. Cosa sta dunque accadendo? Quello che si sta verificando è che tutte le entità soggette al figuralismo, dai personaggi agli eventi, Dante come Catone, tendono verso un unico punto di fuga – come suggerisce la doppia equivalenza Dante-Cristo/Catone-Cristo – che esprime un valore di rappresentazione storica totalizzante:

[t]he result is that all the figures come together; and the result of this […] is that the literal sense of the Divine Comedy is joined to universal history.

È questo certamente uno dei grandi vantaggi che possiede un poeta che trae da Dio il suo modo di scrivere e che lo rende atto a ricreare molti momenti in un unico istante, non mere reminiscenze verbali, ma concrete situazioni parallele che il lettore, se esperto e predisposto alla fede, sarà in grado di vedere simultaneamente. Quando Dante, ormai in procinto di chiudere il Paradiso, scriverà che:

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo di squaderna;

sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
(Par. XXXIII 85-90)

la sua competenza figurale avrà così raggiunto la maturazione definitiva riuscendo a conchiudere in un’unica, universale pagina l’interezza dell’esperienza mistica.

3.2. L’allegorismo negli appelli al lettore

In precedenza si è detto come Hollander ritenga che i passaggi in cui Dante sospende la convenzionale narrazione degli eventi poematici siano candidati ideali per accogliere l’allegoria in verbis. Tuttavia, il discorso è molto più complesso di quanto una simile dichiarazione di poetica possa suggerire. Per dimostrarlo, è bene cominciare da uno dei primi appelli al lettore della Commedia, quello di Inf. IX che precede l’apparizione del Messo angelico e segue l’invocazione di Medusa innalzata dalle Erinni :

O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dotrina che s’asconde
sotto il velame degli versi strani.
(Inf. IX 61-63)

Ad una prima lettura la richiesta avanzata da Dante non sembra presenti grossi problemi di decifrazione in quanto i lettori dagli intelletti sani – «lo nostro intelletto […] sano dire si può, quando per malizia d’animo e di corpo impedito non è ne la sua operazione» (Conv. IV xv 11) – sono sollecitati a penetrare l’integumentum, la superficie esterna dello strato letterale e giungere al nucleo nascosto della verità morale. Se la prescrizione dei compiti da svolgere è di per sé chiara, più di un dubbio rimane sul loro ambito d’applicazione. Quali sono ovvero i «versi strani» che devono essere dispogliati della patina di finzione che offusca il valore intrinseco dello scrivere dantesco? Più generazioni di commentatori si sono posti tale domanda. Il metodo adottato da Hollander per individuarli fa leva sull’incongruenza del livello letterale in relazione alla logica complessiva della scena. Se la tonalità degli eventi che si consumano sotto i bastioni chiusi di Dite – l’apparire delle Furie e l’invocazione di Medusa affinché renda Dante di «smalto» – è coerente con il riprocessare il materiale mitico che l’Alighieri trae dall’Eneide e che gli permette di rapportarsi a Teseo ed Enea, apparentemente incomprensibile è invece l’atto di Virgilio che, fatto girare Dante in direzione opposta a Dite, sovrappone le sue mani a quelle del discepolo che già ricoprono i suoi occhi. La stranezza sta nel fatto che Dante stesso si era già mosso per tutelarsi dalla minaccia medusea:

ed elli stessi
mi volse, e non si tenne alle mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi
(Inf. IX 58-60)

Secondo Hollander, dunque, ciò di cui l’autore richiama la nostra attenzione è la strana azione compiuta da Virgilio e pertanto i tre versi che la descrivono sono ritenuti dal critico «strani».
Se la dottrina è celata sotto i versi strani e quest’ultimi sono raffigurati dall’inconsueta azione di Virgilio, interpretare l’agire del poeta mantovano equivale a cogliere la dottrina a cui Dante si riferisce. L’atto di Virgilio non è allora storicamente inteso poiché serve solo a trasmettere una morale; è dunque paragonabile ai passi parabolici o proverbiali della Bibbia. Ciò ha un’incidenza sulla tipologia di allegoria che può trovarsi nelle terzine che, conclude Hollader, non può che essere del tipo dei poeti poiché non è ammessa una forma allegorica scritturale in sezioni testuali prive di autenticità storica. Le azioni di Virgilio sono infatti vere in verbis e non in facto. Questo confermerebbe l’ipotesi del critico secondo la quale i momenti di sospensione della narrazione, proprio perché implicano una parallela interruzione del principio di verità testuale, sono contenitori naturali dell’allegoria dei poeti.
Il prospetto allegorico si complica però notevolmente una volta che viene esplicitata la dottrina che il lettore deve recepire. Se Virgilio ricopre gli occhi di Dante nonostante il discepolo avesse già provveduto da sé a compiere quell’atto difensivo, ciò vorrà dottrinalmente dire che l’uomo comune – qui si percepisce l’approccio interpretativo dei primi commentatori – non ha forza sufficiente per resistere alle tentazioni peccaminose e necessiterà dunque di un sostegno che ne rinvigorisca l’innata debolezza. Virgilio, nelle vesti della Ragione, può fungere da rafforzamento alle mancanze umane. Coerentemente viene così inscenata un’azione di personificazione allegorica (Virgilio-Ragione). Tuttavia, se quest’ultima è sufficiente ad evitare la morte dell’anima del pellegrino, questi non può che dipendere da una forza ancora più alta affinché, dopo aver scampato il pericolo di atrofizzazione morale, possa muoversi verso Dio. Ecco che il Messo angelico verrà a rompere la stasi in cui si trovano Dante e Virgilio. Un evento – arrivo e azione dell’angelo – che è parte di una sezione in cui la lettera è «vera», che è cioè in grado di esprimere contenuti storicamente fondati, completa dunque il significato profondo di una sezione – l’appello al lettore – in cui la lettera è «fittizia». Che il Messo debba ascriversi ad una forma allegorica che non possa prescindere da una verità scritturale è presto dimostrato dalla denominazione del personaggio. L’essere inviato da Dio – «da ciel messo» (Inf. IX 85), dunque signum coeleste – fa dell’angelo un vestigium Dei, una manifestazione della Grazia che Dio invia al fedele che per beneficiarne dovrà scioglierne la forma – la lictera – nella quale si mostra. È inevitabile che lungo questo atto di lettura ci si conformi ai principi di un’ermeneutica scritturale, ovvero a «quel processo straordinario in cui un segno divino illumina altri segni», proprio come nel complesso meccanismo degli eventi di Inf. IX.
Si viene così a determinare una coesistenza, o quantomeno un dialogo serrato, tra tipologie allegoriche contrastanti :

in a very clear example of Dante’s use of the allegory of the poets, we find that the technique is combined with the allegory of the theologians, a literal sense that is to be treated as historical, with the exception of Virgil’s actions, which are not

Altro appello considerato da Hollander, ugualmente apposto da Dante in un momento di interruzione «of the usual technique of the poem, which is to take its literal sense literary or historically», è in Purg. VIII:

Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché ‘l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ‘l trapassar dentro è leggiero
(Purg. VIII 19-21)

Come per Inf. IX, anche questa terzina è associata all’allegoria dei poeti poiché l’avvertimento in essa contenuto sarebbe rivolto alla scena di lotta tra gli Angeli dalle spade mozze e il serpente che minaccia la Valletta dei Principi, conflitto rispetto al quale il lettore deve aguzzare «ben li occhi». La scena è intesa da Hollander come un passaggio parabolico, e dunque di veritas in verbis, funzionante come trasmettitore di un messaggio morale che è quello di essere sempre all’erta alle minacce del peccato e di non rimandare l’azione di attacco contro le tentazioni che lo preannunciano. Sarà infatti questo lo schema d’azione degli Angeli che oltre a fare la guardia alla Valletta sono anche pronti a scagliarsi contro il serpente che lì apparirà. Una sezione priva di validità storica, nonostante l’atmosfera sembri suggerire il contrario, non può che nuovamente imporre la presenza dell’allegoria dei poeti.
La coesistenza di dissimili varietà allegoriche, vista quantomeno con evidenza nel caso dell’appello al lettore di Inf. IX, predispone un’ambivalenza che Hollander riscontra anche rispetto alla tecnica della personificazione allegorica della Commedia.
Tra le prove estratte dal testo, la lettura di Gerione è particolarmente funzionale al discorso che si sta tentando di sviluppare. Come il poema ci suggerisce apertamente, Gerione è certamente l’incarnazione della frode. Eppure, nonostante la concretizzazione di un concetto tangibile ma astratto, il lettore, stando anche alla descrizione fisica e ai movimenti che il mostro compie, ha come l’impressione di trovarsi al cospetto di un demonio reale. Viene cioè a determinarsi una coesistenza tra «figurale» e «figurativo», che coincide perfettamente, dice Hollander, con la differenza che intercorre tra l’allegoria in verbis e quella in factis in merito al principio di verità storica: se l’agire di Gerione, il suo guizzare nell’aria e il volo che compie con Dante e Virgilio in groppa sono tratti che rapportandolo figuralmente al volo di Fetonte (Inf. XVII 107) e a quello di Icaro (Inf. XVII 109) suggeriscono di aver a che fare con un’entità colta storicamente e viva in una dimensione di concretezza, contemporaneamente il mostro rimane comunque una «sozza imagine di froda» (Inf. XVII 7), ovvero una creazione poetica figurale di inconsistenza fattuale. Pertanto Gerione, e tutte le altre entità che condividono questa ambivalenza esistenziale, «both exist and do not exist in the order of the actual world with its actual history».
Dante dà dunque prova del possibile assottigliamento tra due diverse prospettive di creazione, portatrici a loro volta di altrettante tracce allegoriche. Per volere dell’autore viene cioè volontariamente meno la divergenza tra una creatio poetica ed una teologica e con essa anche quella tra l’allegoria in verbis e in factis poiché entità figuralmente operanti possono anche essere, sotto una luce particolare, storicamente espresse.

Date: 2022-12-14