Dati bibliografici
Autore: Daniele Maria Pegorari
Tratto da: Giornale Storico della Letteratura Italiana
Numero: 132
Anno: 2015
Pagine: 523-541
La «novità» degli ultimi quarantasei versi, un terzo esatto, del canto XVI dell’Inferno è data, com'è noto, non tanto dall’informazione sull’abbigliamento del poeta, che ci rivela di esser cinto ai fianchi da «una corda», ma da un’altra e più clamorosa aggiunta denotativa: «[...] con essa pensai alcuna volta / prender la lonza a la pelle dipinta» (vv. 107-108). Siamo dinanzi a un delicatissimo caso di autocorrezione di tipo integrativo, in quanto il poeta aggiunge qualcosa che sarebbe avvenuto in precedenza, ma che non ci aveva detto: nel caso specifico egli c’informa solo ora che nel celeberrimo incontro con le tre fiere, quindici canti prima, aveva avuto la meglio sulla lonza grazie all'utilizzo della «corda». In un poema così ampio, composto in tempi lunghissimi, le auto-correzioni integrative devono avere un significato specialissimo, poiché corrispondono a un ripensamento non formale o a un improvviso bisogno di chiarificazione.
L’intera tradizione esegetica si è impantanata nella giustificazione di un inopinato collegamento fra Gerione (senza ombra di dubbio figura della frode) e la lonza, la cui funzione sembrava conchiusa nel primo canto e la cui interpretazione, essa stessa tribolata, si è generalmente adagiata sull’opinione degli antichi che ne facevano l’immagine della lussuria, attribuendo poi al leone la superbia e alla lupa l’avarizia . Dato questo punto di partenza, il lettore si lascia sorprendere da un riproporsi del ricordo della lonza in un punto della Commedia in cui non solo i quattro cerchi dell’incontinenza sono ormai lontani, ma pure i tre gironi della violenza sono quasi archiviati. Ecco che i commentatori sono costretti, dunque, o a dare alla «corda» un valore allegorico, individuandovi una virtù che possa soggiogare tanto la frode quanto la lussuria (dunque non tutta l’incontinenza, ma solo un suo caso specifico e il più leggero), oppure ad attribuire un significato peculiare al fatto che la «corda», lanciata verso il fondo dell’ottavo cerchio da Virgilio, sacerdote muto di questo strano rito, non venga più recuperata. Nel caso si opti per una virtù ugualmente abile a frenare lussuria e frode, la migliore interpretazione rimane la classica lettura di Pasquazi che vede nella «corda» la legge civile realizzata nell'Impero, quella che viene a mancare a Firenze di cui pure la lonza dovrebbe essere allegoria (se Dante ricavava dalla fonte biblica anche la sua matrice politica ) e che è capace di addomesticare anche Gerione che, secondo la fonte virgiliana, si oppone nell’Ade a Enea, prefigurazione, appunto, dell’Impero.
Tuttavia anche in questo caso Pasquazi ipotizza che il lancio della «corda» significhi una rinuncia alla legge umana e al controllo dell’Impero in quanto forze troppo deboli per contrastare non solo la frode, ma la stessa usura, la cui analisi ancora dev'essere affrontata da Dante nel successivo canto XVII. In tal caso però — vorrei obiettare — non sapremmo più spiegarci il rimprovero ai signori d’Italia e all’imperatore, ripetuto più volte nella Commedia, come nella celebre invettiva di Purg. VI, 76-126, culminante, come si sa, nell'attacco ad Alberto I d'Austria, responsabile proprio di non aver saputo tenere le redini, la «corda», vorrei dire, dell’Italia.
Accanto a questa prima ipotesi, come si è detto, vi è quella di chi ritiene si tratti di una virtù utile e frenare la lussuria, ma assolutamente inadatta a contrastare la frode, il peccato più grave dell'Inferno, e dunque tutt'al più rifunzionalizzabile come mero richiamo per il mostro alato : in questo caso si è pensato alla moderazione, freno efficace contro la lussuria, ma inutile dinanzi ai peccati più empi. Ma davvero siamo convinti che, come la legge, la moderazione non serva ancora all’uomo pio che si vuol salvare dai dieci tipi di frode, proprio quelli che sono accesi dalla favilla della superbia (e infatti l'insieme di Malebolge e Cocito è sostituito nel Purgatorio dalla prima cornice dei superbi)? Non contribuisce forse la moderazione o temperanza a sedare l’istinto alla simonia, al peculato, al furto e alla falsificazione del conio? Né, d’altra parte, ha trovato una dimostrazione l’ipotesi che il cingolo francescano sia stato realmente indossato da Dante, in quanto aderente all’ordine terziario e, dunque, vincolato ai voti di continenza. Il dibattito su questa questione si è, dunque, avvitato sulla confutazione reciproca delle ipotesi.
Probabilmente, ed è questa la mia personale, fermissima convinzione, ad essere inappropriato è il punto di partenza. L'invenzione dell’integrazione (quasi un flashback) della cattura della lonza potrebbe contenere proprio la chiave interpretativa del canto I: direi, cioè, che il fine del nostro discorso non dev’essere spiegare il finale del canto XVI sulla base di ciò che pensiamo di sapere del canto proemiale, ma, al contrario, cogliere qui il sorprendente disvelamento dell’allegoria delle tre fiere. È lecito, a mio avviso, ritenere che Dante si fosse accorto della poca perspicuità di quella triplice figurazione e avesse deciso di inserire qui la chiave di quell’enigma.
D’altra parte la caratterizzazione maculata del vello sia di Gerione («lo dosso e ’X petto e ambedue le coste / dipinti avea di nodi e di rotelle. / Con più color, sommesse e sovraposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi, / né fuor tai tele per Aragne imposte», si leggerà in Inf. xVI, 14-18) che della lonza («quella fiera a la gaetta pelle» «di pel macolato [...] coverta», si dice in Inf I, 42 e 33; «la lonza a la pelle dipinta» in Inf XVI, 108) è troppo suggestiva per non indurci a prendere in considerazione l’ipotesi che il poeta volesse creare ai nostri occhi un’immagine speculare, finalizzata a riconoscere anche nella lonza l’allegoria della frode. La «corda», dunque, sarebbe la trovata iconica per sancire il legame, appunto, l’unione, la similarità, insomma l’intercambiabilità delle due bestie mostruose. Data l’indiscutibile spiegazione della lupa come cupidigia o incontinenza (le terzine spese nel canto I per descriverne le attitudini e l’apostrofe del canto XX del Purgatorio, scagliata contro la lupa come prosopopea della colpa scontata nella quinta cornice, non lasciano equivoci ), non resta, per esclusione, che attribuire al leone il credibilissimo significato della violenza (e, insieme, di quell’invidia ch’è sempre il motore di ogni atto aggressivo contro la persona o le cose). Accettando questa ipotesi, ecco che l’allegoria delle tre fiere, al di là della sua certa origine biblico-politica, acquista il valore di un argumentum corrispondente a quello che introduce i poemi epici, ovvero di un’inventio anticipata dei mali che il pellegrino avrebbe attraversato nei trentatré canti successivi, con una dispostitio, insieme, di climax e anticlimax.
Si parte, infatti, dai due più gravi, che il pellegrino smarrito, sì, ma disposto alla virtù sa riconoscere ed evitare, e si conclude col più leggero, ma per questo più infido e mortale, dinanzi al quale egli ha bisogno di un soccorso. Nello stesso ordine Ciacco elencherà le disposizioni al male dei fiorentini (Inf. VI, 74: «superbia, invidia e avarizia», l’ultima delle quali ritengo riassuma per sineddoche tutto lo spettro dell’incontinenza; d’altra parte san Paolo definiva la cupiditas «radix omnium malorum» ), mentre Brunetto (dopo che nel canto XI Virgilio aveva dato voce all’illustrazione del regno infero) ricolloca le medesime colpe fiorentine secondo il naturale ordine crescente di gravità: «gent’è avara, invidiosa e superba: / dai lor costumi fa che tu ti forbi» (Inf. XV, 68-69). Proprio il triplice richiamo nel canto XVI a Firenze, alla sua superbia (v. 74: «orgoglio e dismisura») e alla frode rappresentata dall’anticipata apparizione di Gerione, ‘legato’ appunto alla lonza dall'immagine della «corda», mi persuade che queste misteriose terzine altro non siano che il disvelamento del significato della lonza e, di conseguenza, delle altre due fiere. Anziché affidare alla «corda» una valenza primariamente allegorica (che semmai acquisterebbe solo in seconda battuta), suggerirei di pensarla innanzitutto come chiave simbolico-strutturale, nel senso che essa appare l’oggetto ideale per stabilire una connessione fra i due luoghi e le due figure del poema.
Dunque si giungerebbe, per questa via, a confutare la tesi degli antichi commenti al canto I, che, identificando nella prima e nella terza fiera altrettanti peccati di incontinenza, e nella fiera centrale il vizio capitale più grave espiato nel Purgatorio, propongono un’attribuzione allegorica totalmente asimmetrica e priva di qualunque gradazione, crescente o decrescente. Riconoscere, invece, in questo passaggio il funzionamento «del classico, o meglio medievalmente rivisitato, sistema della retorica» equivale ad accogliere il suggerimento di uno dei maggiori esperti in materia, Francesco Tateo, il quale ha non molto tempo fa ricordato che nella Commedia la «disposizione con cui nasce ogni inventio [...] richiede la ‘rilettura’ perché sia riconosciuta nella sua complessa significazione» , e ha aggiunto: «Inventio e dispositio possono [...] far parte di una lettura che voglia principalmente esemplificare l’uso dantesco di dislocare analogie in modo che si riconoscano e che rimandino a concetti svolti in momenti diversi, eppur disposti in modo da costituire una serie». Ragionamento che si attaglia, spero, perfettamente ai passi del Poema che sto accostando in queste pagine. Di contro, affidandosi alla tradizione dei commenti al canto I, il lettore non è indotto a cercare nella direzione delle simmetrie e delle corrispondenze interne, e deve semmai scegliere fra la preponderante spiegazione della lonza come figura della «lussuria» e quella minoritaria che guarda alla «vanagloria», attestate dai due grandi chiosatori omonimi del Trecento, Jacopo Alighieri e Jacopo della Lana.
Quest’ultimo forse si avvicinò all’interpretazione delle fiere come categorie generali del male, allorché vide nella lonza una bestia estranea all’incontinenza, già ben rappresentata dalla temibilissima lupa, ma poi sottilizzò fra la «vanagloria» della lonza (riferita alle «varie cagioni» della «bellezza», della «gentilezza», della «fortezza», della «scienza», della «ricchezza etc.») e la «superbia» riferita al «Leone lo quale per sua fortezza signoreggia li altri animali», con termini che tuttavia possono riferirsi a ciò che propriamente chiameremmo arroganza e prepotenza, e dunque inclinano alla violenza del medio Inferno . Jacopo Alighieri puntava, invece, l’attenzione sulla «lussuria», significata dalla «lonza, però che come lei è macchiata di molti e diversi colori, sì come di molti e diversi piaceri, e a simigliante umida e superflua caldezza disposta»: un’identificazione che sarà seguita nei secoli senza essere appannata dal dubbio, nemmeno allorché prevarrà l'abitudine di leggere le simbologie, le corrispondenze, le classificazioni dottrinali e gli ordinamenti morali del poema annettendo ad essi un rigore lessicale che, per la verità, non animava Jacopo che parlava di «lussuria» non solo, com'è ovvio, a proposito del «V Capitolo», ma anche per una delle «tre furie infernal di sangue tinte» di Inf. IX, 38 e, addirittura, per «l'ardente fuoco» che incendia i sodomiti «contra natura» , evidentemente non preoccupandosi quanto il padre di distinguere l’incontinenza della carne dalla violenza che plagia i corpi e le coscienze e offende Dio stesso. Il caso della lonza mi sembra esemplare della possibilità che l'immaginario e la stessa competenza linguistica dei commentatori antichi possano essere confutati attraverso una nuova esegesi, fondata sull’incontro fra sensibilità contemporanea e studio delle fonti bibliche, latine e cristiane, come cominciò a fare, giusto all’alba del Novecento, un dantista dimenticato come Paride Chistoni.
Questi, in un saggio offerto ad Arturo Graf nel 1903 , documenta come la lonza, qualora volgarizzi il pardus del libro di Geremia — cosa di cui non è ragionevole dubitare —, erediti tutta una tradizione patristica per la quale quella bestia incarnava il vizio della frode e per questo non si opponeva a Gerione nel finale del canto XVI, come invece sono costretti a cercare di dimostrare i sostenitori dell’ipotesi classica, ma di «quella sozza imagine di froda» (Inf. XVII, 7) sarebbe stata equivalente, direi anche ‘figura’, secondo l’accezione auerbachiana. Benvenuto da Imola, che descrive «tria [...] animalia» caratterizzati dal manto variegato, «scilicet lynx, sive lynceus, qui vulgariter dicitur lupus cerviarius, pardus et panthera», non ha dubbi a identificare la lonza dantesca col pardo, «quia istud vocabulum Florentinum lonza videtur magis importare pardum, quam aliam feram», secondo la richiamata testimonianza del «suavissimus Boccatius de Certaldo». Ora, se è vero che questo precoce commentatore trecentesco opta con decisione per l’identificazione del pardus e anche della panthera con «la lussuria», egli non sa trattenersi dall’insinuare anche un carattere marcatamente seduttivo e traditore: «pardus quamvis familiariter domesticetur, saepe fallit et prodit, imo saepe vincit leonem fraude [...]. Potes etiam per lontiam intelligere pantheram; nam panthera suo halitu odorifero attràhit ad se alia animalia cum vult pasci, et illa, quae eligit, sibi vorat» . Così la prima fiera si connoterebbe come animale frodolento (a dispetto di qualche nebuloso bestiario), con un'interessante superiorità sul leone, quale gli assegnava in ordine alla velocità e all’audacia qualche autore mediolatino, come frate Benincasa nella vita di san Ranieri pisano o come Jacques de Vitry che nella sua Historia orientalis dice di un certo lonzanus : «a cuius saevitia nullum animal potest esse tutum: et ut dicunt, terret leonem». E se si pensa che per le medesime capacità il leone, a sua volta, è superiore alla lupa, ecco che la gradatio del canto I trova il suo fondamento.
Il contributo decisivo per dirimere non solo l’enigma del pardus, ma l’intera questione dell’interpretazione allegorica delle tre fiere mi pare sia dato dal commento che non uno scoliaste minore, ma un ermeneuta d’eccezione come san Tommaso diede del passo di Geremia : interpretando le tre bestie come allegorie della prepotenza di Nabuccodonosor contro Israele, nei diversi aspetti della ferocitas, della velocitas e della fraudolentia, egli non solo associava al «pardus vigilans» il significato della frode (confortando il passo con un altro di Geremia, XII, 23, in cui la «picchiettatura» del «pardus» è spiegata come «dolositatem, vel diversitatem peccatorum») , ma completava il ragionamento attribuendo al leone la ferocitas (quella violenza che, con un calco traduttivo che conservava l’allusione etimologica alla ferinità, Dante chiamava «matta / bestialitade»: Inf. XI, 82-83) e al lupo la velocità, che probabilmente ispirava a Dante l’accostamento con la cupidigia, per la celerità e la facilità con cui si propagano tutti i peccati d’incontinenza. Almeno per quanto concerne l'associazione fra le varietates del pardus e la frode da parte del doctor angelicus, si dovrà riconoscere che essa si colloca nell’ambito di una tradizione esegetica veterotestamentaria, ben rappresentata da Alanus de Insulis che, interpretando un passo del Cantico dei cantici ben caro a Dante , mette in immediata relazione il colore varius della bestia con le «mille artes nocendi» di cui è capace , e da Alberto Magno, il maestro di Tommaso, il quale non solo nel libro di Abacuc (1, 8) coglie un riferimento alla dolositas del leopardo , ma nel libro di Daniele (VII, 6) spiega le sue varietates come allegoria degli ipocriti : e gli fa eco Riccardo da San Vittore, il quale nel De eruditione interioris hominis afferma che «Recte hypocritarum fraudulentia in pardo figuratur qui per totum corpus maculis quibusdam respergitur. Nam hypocritae quidem sanctitatem opere praetendunt, sed perversum est quod diligunt [...]. Agunt itàque qui ejusmodi sunt, bona in manifesto, et mala in occulto» . Sembra di poter cogliere in queste glosse di Alberto e Riccardo ciò che per Dante sarebbe stato sufficiente a scegliere la lonza per rappresentare nel ‘sommario’ del poema quelli che nella sesta bolgia porteranno il «faticoso manto» dorato «di fuor», «ma dentro» piombato (Inf. XXIII, 64-67).
Spinto da suggestioni di questo genere, il già ricordato Chistoni si era avventurato in una serie di ipotesi per le quali i singoli particolari dell'aspetto di Gerione — anticipati da alcuni tratti accennati a proposito della lonza in Inf. I e XVI — potrebbero essere addirittura allusioni alla varietas peccaminosa di Malebolge (e forse anche del successivo cerchio dei traditori). Ma, se queste conclusioni possono apparire e sono forzate, forse è possibile ipotizzare — ma lo faccio con molta cautela — che la «corda», ammesso che non sia altro che l’espediente per ‘legare’, in senso proprio e figurato, la fiera e il mostro, possa essere il correlativo oggettivo della giustizia e della fede, di cui il pellegrino appare già dotato allorché reagisce alla lonza sul limitare della selva oscura. Questo significato del «cingulum lumborum» Dante potrebbe aver trovato in testi canonici come il libro di Isaia e la lettera agli Efesini , e potrebbe poi averlo voluto variare (non negare, né superare) nel correlativo della saggezza empirica, fors’anche della razionalità senz’altro, quando lo fa manipolare dalle mani sapienti del poeta latino, il cui valore di mediazione suggerirebbe, a questo punto, che la fede deve, sì, precedere ogni altro requisito, ma è un dono che può appartenere anche a un uomo semplice, mentre la capacità di tradurre la scienza umana in azione effettuale può non essere da tutti e richiedere la lezione di un maestro.
E che nell’educazione alle virtù e alle cose umane e divine esista per Dante una progressione, quasi un curriculum studiorum, è significato massimamente, come si sa, nel concepimento della terza cantica come materia per soli iniziati al «pan de li angeli» (Par. II, 11), suprema aspirazione per una mente orientata alla teologia, ma certo non indispensabile alla formazione di una retta coscienza. A Nicola Zingarelli dobbiamo l’intuizione che il Virgilio dantesco rappresenti la più articolata delle icone parentali del Poema, con un’oscillazione di funzioni, e di corrispondenti caratterizzazioni psicologiche, che prevede sia l’alto ammaestramento sia il pietoso soccorso: questo avviene sin dalla scena iniziale, nella quale è dato ravvisare l’«identità delle due situazioni», quella dello «scampare di Enea dall’incendio di Troia» e quello del «fuggire dalla selva oscura» con «l’ombra di Virgilio», «specialista — dice il nostro — di tali salvataggi» , e credo che il paragone tentato da Zingarelli emerga in tutta evidenza se si aggiunge che la catastrofe di Troia poteva apparire a Dante come ‘figura’ della crisi politica contemporanea (e di Firenze e dell’Italia), bisognosa di una rinascita, anzi proprio di una rifondazione dell’Impero sulle coste del Lazio. Ma ciò che più aiuta a comprendere il funzionamento semiotico dell’ipotesto virgiliano è che un’allusione al romanzo di Enea può trovarsi proprio in entrambe le ‘radici retoriche’ del Poema.
Intendo che la prima metafora (quella della «selva») e la prima similitudine (quella del naufrago), così essenziali alla fondazione della semantica della Commedia, potrebbero essere cagionate proprio dal ricordo del naufragio di Enea (veramente figura Dantis) e dal suo aggirarsi nel mezzo del bosco libico, disorientato e bisognoso di soccorso, principe spodestato ed eroe sconfitto che avrebbe ben potuto dire per sé quello che dice Dante: «Tant'è amara che poco è più morte: / ma per trattar del ben ch'i’ vi trovai, / dirò de l’altre cose ch’i’ v'ho scorte». Il «bene», nel caso del troiano, fu il soccorso della madre Venere, così come per il fiorentino esso è rappresentato dall'intervento di colui che a quella antica storia aveva saputo dare la forma di mirabili esametri. D’altra parte, i commentatori moderni (da ultimo anche Bellomo ) sono persuasi che la stessa variazione del pardus di Geremia nella lonza dipenda da una sorta d’interferenza provocata dal ricordo, proprio fra la similitudine del naufrago e l’apparizione di Virgilio, della lynx maculosa della cui pelliccia era vestita Venere al suo primo apparire in pro del figlio: «Cui mater media sese tulit obvia silva, / virginis os habitumque gerens et virginis arma [...]./ Namque umeris de more habilem suspenderat arcum / venatrix dederatque comam diffundere ventis, / nuda genu nodoque sinus collecta fluentis. / Ac prior «Heus» inquit «iuvenes, monstrate, mearum / vidistis si quam hic errantem forte sororum, / succinctam pharetra et maculosae tegmine lyncis» (Aen. I, 314-323) . Ma, se questo è l’ipotesto e si conviene che in nessun caso Dante avrebbe trascurato di associarvi l’accezione fraudolenta propria del pardus veterotestamentario e patristico, si dovrà abbandonare definitivamente la tradizione esegetica più diffusa e rileggere questo passo dell’Eneide senza le incrostazioni determinate dalle chiose accumulatesi da Jacopo Alighieri in poi.
Da Servio, il principale commentatore di Virgilio, ai latinisti contemporanei , l’intera tradizione di lettura del poema antico — di cui un certo segmento Dante doveva pur frequentare — non addebita a Venus genétrix (come l’appellò ufficialmente Giulio Cesare) alcun tratto lussurioso, ma semmai la capacità seduttiva, che viene messa a frutto già come espediente per conquistare la fiducia dell’ignaro figlio e anche in altri luoghi del poema, ma sempre come provvidenziale intervento per guidare la macchina narrativa verso la salvezza dei suoi discendenti e l'approdo a una patria più grande. Anche a voler vedere riverberata nel vello della lince di cui sono rivestite le sorelle di Venere (e lei medesima, si deve immaginare) una qualità morale che, al netto delle intenzioni positive della Aeneddum genètrix, si rovescia in un peccato, non s'intende come questo possa essere la lussuria e non invece la seduzione, che è la libidine attinta con l’inganno e che Dante, seguendo da presso il suo Aristotele, distingue dall’incontinenza e colloca in testa al cerchio della frode. Virgilio aveva trasferito a Venere i medesimi caratteri che la tradizione poetica greca aveva attribuito ad Afrodite, anch'ella mai connotata come lussuriosa, bensì come orditrice di inganni, δολοπλόκος come viene appellata al v. 2 del celeberrimo Inno ad Afrodite di Saffo , con abbinamento a un'ulteriore qualificazione oltremodo probante per il nostro caso: ποικιλόθρονς, ‘dal trono fregiato’, un composto nel quale viene usato l'aggettivo ποιϰίλος, che corrisponde perfettamente al latino varius nella doppia accezione letterale (‘screziato’) e morale (‘equivoco’) e che, guarda caso, veniva usato da Omero nell’Iliade per indicare prima la pelle di pardo con cui si copre le spalle Menelao nel libro X (παρδαλέῃ [...] / ποιϰίλη, vv. 29-30) e poi il cinto prestato da Afrodite a Era per sedurre magicamente Zeus e distoglierlo così dall’appoggio ai Troiani, in un celebre episodio del libro XIV (vv. 214-217), che viene così raccontato: «[...] e si sfilò dal petto un reggiseno ricamato / multicolore (ποιϰίλη), nel quale aveva raccolto tutti gli incanti (θελϰτήϱια): /c’era l’amore, e il desiderio, e il colloquio segreto, / la persuasione (πάϱϕασις), che ruba il cervello a chi pure ha saldo pensiero» . E evidente anche in questo episodio che le facoltà di Afrodite attengono allo spazio degli ‘incantesimi dilettevoli” (θελϰτήϱια) e delle ‘parole ingannevoli’ (πάϱ(α)ϕασις), sempre in bilico fra finalità positiva e inganno — come conferma al v. 360 l’espressione έν ϕιλότητι παήπαϕεν εύνηθήναι, letteralmente ‘ha indotto con inganno a giacere in amore’ — dunque al riparo da connotazioni incontinenti che certo non avrebbero potuto essere trasmesse dalla Ciprigena a Era.
E Dante conosceva indirettamente questo passo omerico e la sua esegesi morale, attraverso il libro via dell’Etica nicomachea di Aristotele, probabilmente nella versione latina di Guglielmo di Moerbeke commentata ancora da san Tommaso, che così si serve del passo omerico come esempio della dolositas di Venere: «Quemadmodum Venerem aiunt: “Dolosae enim Ciprigenae”, et: “Variam corrigiam”. Et Homerus: “Deceptio (‘inganno’) quae furata est intellectum spisse sapientis» , dove notevole è che ποιϰίλον venga tradotto, come di consueto, con variam e ίμάντα con corrigiar di cui, se non si vuol seguire la già ricordata fonte biblica del cingulum lumborum, può pure essere memore la «corda» di Inf. XVI. Non è inverosimile, infatti, che la «corda», se è il mezzo di equazione tra le due bestie, rappresenti essa stessa la frode, o quanto meno la «scaltrezza», come suggeriva nel 1862 Domenico Mauro, il letterato e patriota arbéresh di Calabria, richiamandosi anche a Cristoforo Landino, Alessandro Vellutello e Pompeo Venturi . La corda sarebbe, quindi, un astuto accorgimento per attirare l’attenzione di Gerione che crede sia giunta un’altra anima dannata da collocare nella bolgia corrispondente: il fraudolento, si sa, finisce con l’essere frenato da un opposto atto di frode, come Guido da Montefeltro frodato dalla minaccia di scomunica pronunciata da Bonifacio VIII in Inf. XXVII .
Così interpreta l’Aquinate il significato della corrigiam nel passo aristotelico: «Venere, infatti, era stata la regina di Cipro, per cui le si dà l'appellativo di ‘Ciprigena’ [, quasi fosse nata a Cipro, e le attribuiscono qualcosa come di tessitrice d’inganni]; e dicono che avesse una cintura variegata che alluderebbe alla concupiscenza che lega le menti; si dice pure che essa fosse ‘variegata’ perché tendeva a ciò che si presenta come un bene in quanto è piacevole, e tuttavia è un male in assoluto. Omero ci fa sapere che l’astuzia di Venere ha plagiato l’intelligenza densa, cioè molto grande, di un sapiente, perché succede anche che la concupiscenza, in forma latente, riesca a infiltrarsi nei cuori di persone molto sagge, e nel singolo caso, ne lega il giudizio della ragione» . Di questa equivalenza qualitativa e morale fra maculosus e varius era sicuramente ben conscio Virgilio, il quale aveva raccolto dalla matrice greca un’iconografia indubbiamente non neutra nel suo significato, ma, appunto, non in direzione della lussuria, bensì in quella del δόλοϛ e della ποιϰιλία, ovvero dell'inganno e dell’astuzia, tipiche della divinità che con i suoi artifici può fiaccare la volontà di chiunque e occultamente confondere realtà e illusione amorosa. Dante ignorava, sì, i testi greci, ma costruiva la propria semantica attraverso questa mediazione latina classica e medievale, di cui deve tener conto il commentatore della Commedia, revocando in dubbio l’ipotesi morale di Jacopo Alighieri e preservando con maggior cura l’originaria simbologia della ποιϰιλία / varietas che grava sulla madre soccorritrice di Enea. D’altra parte mi pare metodologicamente scorretto cercare di spiegare cosa per Dante sarebbe stata la lince/lonza a partire da un qualsivoglia valore predeterminato di Venere, poiché è semmai la lince che, proprio per la sua funzione di ‘maschera’, deve trasferire a chi ne indossa la pelliccia i suoi connotati.
Quali essi siano ce lo spiega con impareggiabile nettezza il commento di Servio Grammatico, il quale (peraltro negando che, nella fattispecie, maculosa avesse un valore spregiativo) si rifà, pur senza esplicitarlo, alla canonica narrazione mitologica delle Metamorfosi (V, 650-660) di Ovidio (largamente compulsate ed emulate dal poeta fiorentino), per la quale l’origine della lince è spiegata dalla vicenda del re della Scizia, Linco, il quale, visitato dal giovane ateniese Triptolemo — che era giunto per via celeste sul cocchio di Cerere per donare i semi che, sparsi per i campi, avrebbero dato messi fruttifere e alimenti maturi — affinché fosse considerato lui l’autore di un’opera tanto grande, finse di volerlo accogliere nella sua casa per tentarne poi nottetempo l’assassinio. Al che Cerere ne fermò il colpo letale e trasformò Linco in una lince . Per la precisione, va segnalato che per Ovidio il movente dell’azione criminosa del re barbaro, l’aspirazione a usurpare il ruolo di benefattore dell’umanità, era propriamente l’invidia («Barbarus invidit», sentenzia lapidariamente), la qual cosa non si può escludere del tutto che venisse considerata da Dante motivo di contrappasso e che se ne ricordasse al momento di dare alla sua lonza un valore allegorico. Ma quel che più importa segnalare ora è che nemmeno in Ovidio la lince assume connotazioni lussuriose o latamente incontinenti e che il richiamato commento erudito all’Eneide di Servio Grammatico ricava dal mito metamorfico una specifica interpretazione morale legandola esclusivamente al tratto più caratteristico della lynx, il suo vello maculato.
Così sintetizza ad locum: «Lyncus rex Scythiae fuit, qui missum a Cerere Triptolemum, ut hominibus frumenta monstraret, susceptum hospitio, ut in se gloria tanta migraret, interimere cogitavit. Ob quam rem irata Ceres eum convertit in lyncem, feram varii coloris, ut ipse variae mentis extiterat». L’identico sintagma, rens varia, traducibile come ‘carattere inaffidabile’, ricorre nel commento di Probo a un’altra occorrenza di lynx nell'opera di Virgilio , questa volta nelle Georgiche (11, 264) , laddove le lynces variae sono associate al dio Bacco «ut per earum colorem indicetur in vino varias hominum esse mentes» , con la consueta interpretazione morale dell’aggettivo cromatico varius . Alla lince, come si vede agevolmente, sono associati invariabilmente connotati fraudolenti che addirittura dal mito di Linco paiono riverberarsi fino ai peggiori fra i fraudolenti danteschi, i traditori che occupano l’intero nono cerchio, fra cui ricorderemo la specifica menzione, nella zona Tolomea, di coloro che non protessero gli ospiti (Inf. XXXIII, 91-157). Dante, dunque, poteva ben scegliere l’ingannevole lince virgiliana come immagine della più grave fra le categorie del male, traducendola col volgare «lonza», perché — come spiega ancora Zingarelli da eccellente linguista — esso «è un derivato di lynx per via di lunx (cfr. grotta da crypta), ma nella forma aggettivale luncea e per tramite francese» .
L’archetipo dell’Eneide poteva suggerire a Dante un'ulteriore e per me decisiva connotazione morale, quella della falsificazione dell’identità di cui Venere si è servita per soccorrere il figlio, ma che, disgiunta dal fine morale, si rovescia nel peccato sanzionato nella decima bolgia. Non dovrà sfuggirci, infatti, che l’attitudine metamorfica che qui Virgilio attribuisce a Venere è una connotazione funzionale a costruire un parallelismo fra l’intervento della dea in favore del naufrago Enea e quello di Atena in soccorso di Ulisse all’inizio del libro vi dell’Odissea, laddove «la dea dagli occhi lucenti» (θεάγλανϰώπιϛ, come per quattro volte viene designata ai vv. 19, 27, 47 e 78) appare nelle vesti di una fanciulla recante una brocca per soccorrere l’eroe appena naufragato sulla spiaggia dei Feaci, indicandogli la strada per la dimora di Alcinoo. Naturalmente l’implicita allusione di Virgilio alla fonte greca era pur essa finalizzata a sottolineare la diversa relazione instauratasi all’interno delle due coppie, giacché la premurosa attenzione di Venere è enfatizzata dal suo essere insieme dea e madre dell’eroe, proiettando su quest’ultimo un disegno provvidenziale che molto suggestionò le letture cristiane del poema latino.
Dall’insieme di questi elementi ricavo la conclusione che Dante non poteva coprire il senso letterale dell’episodio virgiliano con un’interpretazione morale che facesse velo alla pietas, diciamo pure alla religiosità dell’incontro fra Enea e la madre, attribuendo a quest’ultima un sentimento meno che puro: e tuttavia, secondo il procedimento ermeneutico dell’interpretatio (quello, per intenderci, per il quale egli poteva conoscere il senso letterale dell’apostrofe contro l’avarizia di Aen. III, 56-57: «Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames? [...]» e, contemporaneamente, volerlo risemantizzare in un’invettiva contro l'equivalente opposto della prodigalità in Purg. XXII, 40-41), Dante poteva ricavare dall'immagine della Aeneadum genetrix un equivalente opposto delle sue virtù, da trasferire all'immagine della lonza, la cui pelliccia, quando non è più indossata dal soccorritore (cioè non più usata a fin di bene), rimane un misero segno di disonestà, finzione, mascheramento . Peraltro, il valore ancipite delle allegorie teratologiche, ora positivo, ora negativo a seconda delle intenzioni e degli obiettivi che si combinano con le facoltà, ispira l’iconografia araldica, ove il felino con la pelle maculata (lince, leopardo o pantera che sia) rappresenta la sottigliezza astuta del potere che sa esprimere la sua aggressività e la sua volontà di dominio attraverso il fascino, la seduzione, l’influenza, la capacità adattiva e trasformistica, come magistralmente ricorderà Tomasi di Lampedusa nell’allegoria risorgimentale del suo Gattopardo .
Qualora poi non fosse sufficiente questo tema morale, che pure è quello più connaturato all'episodio virgiliano ricreato in Inf. I, 61-93, si potrebbe ricordare un altro carattere mitologico della lince, sicuramente tramandato dall’antichità al medioevo, sebbene non vi sia alcun indizio che Dante volesse farci caso. Mi riferisco alla leggenda del /yucurium, ben nota anche a Leopardi che alla lince dedica l’intero “Capo XVIII” del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, con una messe di fonti fra le quali fanno subito bella mostra di sé tanto Ovidio e Servio, quanto il Virgilio delle Georgiche e dell'Eneide a proposito della topica connotazione della pelliccia. Ebbene, il poeta di Recanati dedica un passaggio specifico alla «favola molto nota e molto divulgata presso gli antichi», per la quale esisterebbe una pietra preziosa (non dissimile dall’ambra o dalla tormalina, secondo Tommaseo) che sarebbe il prodotto dell’urina di lince, mineralizzata e dotata di speciali poteri elettrici e finanche terapeutici . Ad esempio sarebbe stata insostituibile per la cura delle malattie renali, secondo il Dittamondo di Fazio degli Uberti: «Similemente ci si truova alcuna [pietra] / la qual linguria nomo, ch’a le reni, / qual v'ha dolor, miglior non so niuna» (libro III, cap. XI, 103-105) . La lince avrebbe avuto l’abitudine di nascondere sotto la sabbia questa pietra miracolosa per nasconderla a chi avesse voluto impossessarsene, il che aveva suggerito a Francesco D’Ovidio che la lonza dantesca derivasse da quella leggenda l’allusione al vizio capitale dell’invidia, che, come si è detto poc'anzi, potrebbe anche essere autorizzata dall’esplicita menzione dell’invidia di Linco nelle Metamorfosi; così D’Ovidio e altri con lui, lasciando al leone il significato della superbia e alla lupa quello dell’incontinenza, tentavano di affidare alla triplice figurazione il compito di rappresentare le tre grandi partizioni purgatoriali, ancorché senza l’ossequio (a mio modesto parere, doveroso) alla progressione dei vizi capitali .
Dante poteva essere a conoscenza di questa supposta abilità magica della lince, per la quale trovava una fonte per lui ancora più agevole dei bestiari: in un altro punto delle Metamorfosi, infatti, Ovidio riporta cursoriamente la stessa leggenda («Victa racemifero lyncas dedit India Baccho; / e quibus, ut memorant, quidquid vesica remisit, / vertitur in lapides et congelat aére tacto», XV, 413-415) , senza alcuna allusione all’ipotesi di una conseguente disposizione invidiosa della bestia, che, dunque, o Dante avrebbe dovuto creare da sé o piuttosto avrebbe potuto surrogare con un’ulteriore connotazione fraudolenta della bestia, in aggiunta e non certo in sostituzione della seduzione, dell’inaffidabilità traditrice e della falsificazione dell’identità. Azzarderei infatti, e sia pure con prudenza, che il poeta potesse vedere nella magia alchemica del lincurio un’allegoria dell’adulterazione dei metalli, ancora e invariabilmente, dunque, entro i confini di una fenomenologia dell’inganno. Dalla varietas di questa colpa, dal peccato rappresentato dal leone (presumibilmente la violenza, a questo punto) e, soprattutto, da quello figurato nella lupa (certamente la cupiditas, che è quanto dire l’incontinenza) potrà schermarlo il soccorso di Virgilio. Ed è ancora a questo valore mediatore della poesia morale latina che allude l'episodio dell’apparizione di Gerione, già richiamato in apertura di queste pagine, che si apre con lo scioglimento della «corda» richiesto proprio da Virgilio (Inf. XVI, 109-111), il quale poi la getta verso il basso (Inf. XVI, 112-114), figurando così il moto discendente (ma progrediente verso la virtù) che i due poeti stanno per compiere sul dorso del mostro ; questa orbita si chiuderà, poi, con la similitudine dello scioglimento dell’ancora (Inf. XVI, 133-135), cui segue la risalita verso l’alto del marinaio (Inf. XVI, 136). Il paragone fra il movimento nell’acqua e quello nell’aria è qui tanto forzato quanto necessario all'inserimento di questo passo all’interno di una sfera semantica ampiamente attestata in tutte e tre le cantiche, allorché il poeta deve esprimersi sull’eccezionalità del viaggio di conoscenza e redenzione (e, sottotraccia, sulla difficoltà della stesura del poema), ricorrendo sì alla metafora della navigazione per mare (la più avventurosa e perigliosa per i suoi tempi), ma arricchendola di iperboli o altri procedimenti consimili, relativi all’icario archetipo del volo, col fine di rimarcarne, appunto, la meraviglia. Per esemplificare la questione non occorrerà, in questa sede, andare oltre il ricordo della ‘madre’ di tutte le similitudini, quella del naufrago del canto I dell’Inferno («E come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata», con quel che segue: vv. 22-27) e il duplice richiamo al «folle volo» del canto XXVI dell'Inferno e al «vasello snelletto e leggero / tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva» dell’angelo nocchiero di Purg. II, 40-43, costruito, non si dimentichi, come un palese rovesciamento testuale e simbolico dell’ultimo viaggio di Ulisse.
In questo caso il paragone fra l’alato Gerione e il marinaio che scioglie l'ancora allude alla necessità di riprendere il viaggio, dopo un indugio nel settimo cerchio che dura complessivamente sei canti, dal XII al XVII. L'incontro con Brunetto, Guerra, Aldobrandi e Rusticucci, peccatori, sì, ma di nobile intelletto e di indubbio fascino per un Dante disposto alla laudatio temporis acti, non deve distogliere il pellegrino dalla necessità di affrontare la parte più spaventosa e impressionante del viaggio, quella che lo porterà fino al mostruoso abbraccio delle «vellute coste» di Satana (Inf. XXXIV, 73). Anche per questa via si dimostra, dunque, il valore funzionale di questa epifania anticipata di Gerione, preparando il lettore a una prossima ripresa del cammino nonostante il protrarsi della visita fra gli usurai del canto successivo: e non sarà fuori luogo ricordare che la ripresa dell’immagine di Gerione nel canto seguente lo vedrà ancora accostato alla sfera semantica della navigazione, poiché egli attende sull’orlo del settimo cerchio con la «coda» sospesa «nel vano», «come talvolta stanno a riva i burchi [il nome di un barcone mercantile che sarà caro al Montale di Iride] (48) / che parte sono in acqua e parte in terra» (Inf. XVII, 19-25).
In questo caso i due movimenti sono contrari per direzione e costruiscono una sorta di straordinaria coreografia retorica di rara efficacia e di magica icasticità. Il sofisticato richiamo intratestuale fra i due passaggi è corroborato, altresì, da figure di ripetizione di ordine lessicale o fonico: a «l’ebbi [...] sciolta» del v. 109 corrisponde l’azione del «solver» del v. 134, alla corda «aggroppata» del v. 111 fa eco l’ancora «aggrappata» dello stesso v. 134, mentre l’insistenza sulla profondità è data dalla replicazione dell’avverbio «giuso» ai vv. 114 e 133. Questa rete di rinvii fra le parti estreme dell’episodio, proprio quelle più suggestive e misteriose, consente di immaginare che l’immagine della «corda» sia primariamente scaturita da ragioni tutte interne a questo testo e che solo secondariamente debba sopportare decifrazioni allegoriche extratestuali.
Non è da escludere, infatti, che il proposito di paragonare l’inesperibile volo di Gerione all’ordinaria risalita del marinaio abbia suggerito la necessità di creare un oggetto parallelo a quello dell’«ancora», proprio come è da ritenersi che, nel canto XVI come in altri casi, sia il ricordo di un luogo realmente attraversato dal poeta a suggerire di ricrearne la scena nell’oltremondo . La corda, dunque, è un duplice medium comparationis atto a definire Gerione: al paragone esplicito degli ultimi versi che lo connotano quasi coreograficamente, si accompagna, come ho cercato di argomentare, l’implicita assimilazione alla lonza, facendo di questo canto una delle principali chiavi di accesso alla comprensione del poema o, per il lettore temerario che si avventuri «in piccioletta barca» (Par. II, 1), uno scoglio impreveduto e sciagurato. Un timore, d’altra parte, che non può abbandonare chiunque si cimenti con gli enigmi della Commedia e che accende il pungolo della verifica.