Dati bibliografici
Autore: Francesco Bruni
Tratto da: Per beneficio e concordia di studio. Studi danteschi offerti a Enrico Malato per i suoi ottant'anni
Editore: Bertoncello Artigrafiche, Cittadella
Anno: 2015
Pagine: 221-237
Da molti anni Enrico Malato persegue una grande, ambiziosa impresa dantesca, che va dalla Nuova Edizione commentata delle Opere di Dante (NECOD) alla «Rivista di studi danteschi», dall’imponente edizione dei commenti della Divina Commedia alle lecturae Dantis, dalla pubblicazione di volumi ai facsimile di codici di particolare interesse anche figurativo, per non parlare delle tante iniziative che interessano un pubblico più ampio della cerchia degli specialisti. Alla festa offerta all'amico benemerito in occasione del suo ottantesimo compleanno, e motivata dalla straordinaria vitalità della sua attività di studioso e di sapiente organizzatore della ricerca in tempi difficili, capace di superare fattivamente la polverizzazione degli studi umanistici, porto il piccolo donum natalicium di un contributo stimolato dall’imminente nuova pubblicazione, curata da chi scrive, del libro misconosciuto di Rocco Montano, Dante filosofo e poeta. In quest'opera, che è l'approdo di una lunga e molto originale attività dedicata a Dante, Montano si sofferma sulla duplice interpretazione medievale del concetto di allegoria. Poiché l'argomento è toccato in modo piuttosto rapido e potrebbe sfuggire all'attenzione dei lettori, mi è parso utile tornarvi sopra, senza particolari pretese di originalità, per una rilettura del capitolo del Convivio, oggetto di questa nota, in rapporto a un passo dell’Epistola a Cangrande. Un aspetto fondamentale dell’interpretazione del poema dipende da come si interpretano i due testi considerati di per sé e nel rapporto tra loro e con il poema.
A partire dall’edizione pubblicata nel 1921 dalla Società Dantesca Italiana, il passo è stato letto a lungo in questa lezione (Conv. II 1 2-4):
Dico che, si come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, si come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto ’L manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: si come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà.
Nella sua nuova edizione critica del Convivio, F. Brambilla Ageno è stata più prudente, e ha integrato il testo limitandosi a ricostruire la lacuna, dovuta a omeoteleuto, in modo parziale (cito solo il segmento che interessa):
L'uno si chiama litterale, e questo è quello che [... L’altro si chiama allegorico e questo è quello che] si nasconde sotto ’L manto di queste favole, ecc.
Segue il testo Ageno la recente edizione, con un commento molto pregevole, di G. Fioravanti.
La lacuna colpisce un passo delicato, e gli strumenti di ricerca disponibili oggi consentirebbero un'integrazione fondata su basi molto più ricche di quelle che furono usate nel Dante del 1921 per colmare il salto du méme au méme; e se l'edizione Ageno riduce le integrazioni, lo fa lasciando alcune parole in bianco. Fortunatamente il significato del “senso letterale” nel capitolo II 1 non si presta a differenze esegetiche importanti, dal momento che individua la comprensione precisa del testo come fondamento di ulteriori interpretazioni del testo stesso, ed è conforme a una convinzione generale nella tradizione classica e medievale (per non dire delle età successive, fino a oggi).
Ciò premesso, neppure l’esemplificazione che tiene dietro alla definizione, in parte mancante, del senso «litterale», dà adito a difficoltà particolari, e con essa la distinzione tra senso letterale e allegorico, che rendeva possibili ulteriori operazioni interpretative. Come è noto, già in età classica i racconti della letteratura arcaica non risultavano più credibili a coscienze di diversa cultura: come era possibile prestar fede alle tante divinità, spesso litigiose, che costellavano in Grecia e in Roma i miti delle origini di popoli e città 0, peggio, a Diomede che nel v dell’Iliade ferisce Venere, una divinità, alla mano? E davvero la lupa aveva allattato Romolo e Remo? Si diffuse una lettura razionalizzante (detta comunemente evemeristica) che negava credito al racconto del mito, lo banalizzava in base a un senso comune un po’ piatto, e però gli attribuiva un contenuto morale che lo rendeva accettabile. Perciò i fondatori di città erano eroi poi promossi al rango di divinità, e la lupa capitolina era in realtà una prostituta che aveva nutrito i gemelli. In tal modo, la decifrazione del significato letterale portava a scoprire un secondo significato: il testo poteva veicolare un messaggio intendendo “altro” da ciò che la lettera suonava: appunto il “dire altro” dell’allegoria. Il procedimento degli esegeti pagani divenne ancora più importante in età cristiana, e favori l'accettazione della cultura classica all’interno di una civiltà diversamente orientata e pronta, insieme, ad assimilarla e reinterpretarla.
In Conv., II 1, Dante, che conosce i procedimenti delle scuole, si sofferma su Orfeo nelle Metamorfosi ovidiane: fallito il tentativo di far tornare tra i vivi l'amata Euridice, Orfeo cerca consolazione nel canto, accompagnato dalla cetra, dei miti. Lo ascolta un pubblico di esseri, animati e no, che per non perdere le sue parole lo segue incantato: con il fascino del canto Orfeo, su un colle, attira alberi di molte specie che gli offrono ombra e, al canto del vate, insieme con il bosco gli si raccolgono intorno animali feroci e uccelli (Met., X 143-44):
Tale nemus vates attraxerat inque ferarum
concilio medius turba volucrumque sedebat;
lo seguono perfino le pietre (Met., XI 1-2):
Carmine dum tali silvas animosque ferarum
Threicius vates et saxa sequentia ducit […]
Tornando a Dante, la rappresentazione del canto di Orfeo, non credibile sul piano della lettera, si poteva razionalizzare allegoricamente come espressione della poesia e del suo potere di civilizzazione, di forza mansueta che persuade gli uomini, anche i più ottusi, ad abbandonare la vita selvaggia e a unirsi in società, sicché sotto il fascino del canto le pietre sembrano muoversi da sole e costruire le mura e le case degli uomini riuniti nel consorzio sociale. Il poeta dice qualcosa ma ne intende un’altra, e il metodo allegorico è applicato da Dante a questo come ad altri episodi: anche se il significato letterale è fittizio, Ovidio trasmette un utile significato allegorico.
Un Ovidio moralizzato o allegorizzato, comunque commentato, fa parte degli autori della letteratura elevata riconosciuti dal canone medievale, e come si sa le Metamorfosi, insieme con i poemi epici di Virgilio, Stazio e Lucano, sono lette e interpretate nelle scuole. Tuttavia, qualche tempo fa un dantista ha dato giusto rilievo a un’altra fonte classica, nella quale è esplicita l’idea di un Orfeo incivilitore attraverso la poesia e il canto. Si tratta dell’Ars Poetica di Orazio (vv. 391-96):
silvestres homines sacer interpresque deorum
caedibus et victu foedo deterruit Orpheus,
dictus ob hoc lenire tigres rabidosque leones.
Dictus et Amphion, Thebanae conditor urbis,
saxa movere sono testudinis et prece blanda
ducere quo vellet.
La sovrapposizione semantica e anche lessicale dei due testi latini sul Convivio è piuttosto forte: il Convivio parla di «fiere», cui rispondono «ferarum» di Met. (due occorrenze) e «tigres rabidosque leones» di A.P; di «arbori» a fronte di «nemus» e «silvas» di Met. e «silvestres homines» di A.P; di «pietre» contro i «saxa» in movimento di Met. e di A.P (che li attribuisce all’altro vate mitico Anfione). Solo Orazio, invece, esprime in modo esplicito la funzione civilizzatrice di Orfeo e della poesia accompagnata dalla cetra e (perciò) cantata, che si ripresenta nella spiegazione allegorica offerta dal Convivio.
Tuttavia Ovidio rimane in gioco, sia perché Dante lo cita sia perché l’allegoria di Orfeo «vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed umiliare li crudeli cuori». In Orazio manca il riferimento al «savio homo», che a partire dall’Orfeo della tradizione Dante tratteggia come un idealtipo capace di ammansire con la sua «voce» la violenza che è nel cuore degli uomini. Nelle Metamorfosi la prefigurazione di un autorevole oratore-affabulatore e di un'assemblea che lo ascolta suggerisce un parallelo tra le istituzioni romane e la transizione incipiente dalla barbarie alla civiltà simboleggiata da Orfeo: «vates […] inque ferarum concilio medius turba volucrumque sedebat».
Mi pare che in questo caso Dante riveli un procedimento praticato dalla lirica in volgare d'oc e di sì (non so se in altri generi testuali), consistente nell’associare sulla base di un comun denominatore lessicale due testi diversi e nell’imitarli contaminandoli. Dunque non si tratta solo di individuare una o più fonti attive nel testo di Dante, ma anche di ricostruire un suo metodo compositivo che ha rispondenza nella cultura lirica nella quale si è formato. Il caso particolare che qui si osserva non permette di estendere il principio dell’associazione-contaminazione al dominio della prosa, ma si segnala il fenomeno per futuri accertamenti che non è possibile condurre in questa sede.
Lo spunto sull’assemblea di Orfeo in Ovidio impone anzi l’associazione con almeno un terzo testo, questa volta in prosa, cosa che si può affermare grazie all'analisi al microscopio condotta da André Pézard, eccellente dantista francese. Questi accostò il testo del Convivio al Tresor di Brunetto Latini e alla fonte di Brunetto, che è il De inventione ciceroniano. L’anonima Rhetorica ad Herennium, allora attribuita a Cicerone, e il De inventione erano due libri di testo di larghissima diffusione, basilari per il primo avvio all’ars dictaminis, nelle cui scuole si citavano comunemente come Rethorica nova e Rethorica vetus (di entrambe le opere fa menzione Dante).
Dunque Brunetto Latini, avviando al principio del m libro del Tresor la trattazione della retorica cita l'autorità di Cicerone (Tulles), sulla scia del quale immagina lo scenario dell'umanità primitiva che, molto tempo dopo, Vico avrebbe ridisegnato da par suo. Brunetto Latini menziona «un saige home bien parlant» — da accostare a «lo savio uomo » del Convivio, il quale ridusse l'umanità primitiva ad abbandonare la vita selvatica, a stabilirsi in un luogo (da intendersi come città), a osservare il diritto e la giustizia. Fonte di Brunetto sono le prime pagine del De inventione (1 2 2), lì dove Cicerone, esposta l’idea dell’intreccio necessario di sapientia e di eloquentia (solo la loro unione giova al consorzio sociale), prosegue descrivendo un tempo primitivo nel quale
fuit quoddam tempus cum in agris homines passim bestiarum modo vagabantur et sibi victu fero vitam propagabant [finché un] quidam magnus videlicet vir et sapiens [...] qui dispersos homines in agros et in tectis silvestribus abditos ratione quadam compulit unum in locum et congregavit et eos in unam quamque rem inducens utilem atque honestam primo propter insolentiam reclamantes, deinde propter rationem atque orationem studiosius audientes ex feris etimmanibus mites reddidit et mansuetos.
Brunetto Latini è anche autore di un volgarizzamento dei primi diciassette capitoli del I libro del De inventione, accompagnato da un commento piuttosto ampio. Senza escludere il Tresor, certo noto a Dante, dietro la pagina del Convivio c'è, con quelli di Ovidio e di Orazio, il testo di Cicerone (o più esattamente, come si dirà ora, di Brunetto Latini commentatore di Cicerone).
Senza insistere su alcune convergenze semantiche e talvolta lessicali, che non si possono non notare, con il passo di Orazio (in verità la vita precivile non poteva che essere concepita e immaginata in termini di “selva selvaggia”, di belve e così via), la mente di Dante deve aver operato la connessione del De inventione con i testi di Ovidio e Orazio. Lo dimostra il fatto che le belve rese “mansuete” di cui si parla nel Convivio (e l'aggettivo è ripreso dal successivo «mansuescere», in conformità con le strategie espositive dell’opera) sono presenti nel De inventione, mentre mancano assolutamente tanto in Ovidio che in Orazio. Il testo di Cicerone, poi, è strettamente congiunto con il commento di Brunetto Latini, dal quale risultano alcune significative coincidenze lessicali: ecco dunque «alcuno savio e molto bello dicitore», «uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia», «il savio uomo fece tanto per senno e per eloquenza» e ancora il «savio uomo» in coincidenza con «il savio uomo» del Convivio appena ricordato; costui gli uomini «li arecò umili e mansueti dalla fierezza e crudeltà che aveano»; «li ritrasse di loro fierezza e di loro crudeltade […] e feceli umili e mansueti», dove mansueti ha riscontro con il Convivio (non con Ovidio e Orazio), e lo stesso vale per umili e crudeltà /-ade.
Dunque, insieme con il canto dei vati anche l’oratoria (e la retorica che la nutre) rivendicava un suo ruolo nel far compiere all'umanità selvaggia i primi passi verso l’incivilimento.
Dopo aver definito i sensi «litterale» e «allegorico» Dante passa al «morale», quindi al quarto e ultimo, che è l’«anagogico». Il capitolo del Convivio si sovrappone parzialmente, come si sa, a un passo dell’Epistola a Cangrande, anche se i due testi non devono essere confusi tra loro: per i molti anni che li separano e per i rapidi sviluppi del pensiero di Dante, che però non cambiano questo punto di dottrina, comune nell’esegesi medievale esercitata sulla sacra pagina e sui classici di Roma antica. L’Epistola a Cangrande presenta i quattro sensi dell’esegesi in due modi diversi ma non contraddittori, nella prima e nella terza delle tre unità di contenuto dedicate al problema. La prima è questa (Ep., XIII 7 20):
sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus diciturlitteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus.
La presentazione «primus»-«alius» annuncia, di contro alla quadripartizione del Convivio, una bipartizione, ribadita dai «sive»-«sive» del seguito. Il senso letterale, insomma, è distinto dagli altri tre. Dopo aver esemplificato il suo asserto sulla base del salmo 113 1-2, sul quale torneremo fra poco, riporto la terza e ultima unità di contenuto sui quattro sensi (Ep., XIII 7 22):
Et quomodo isti sensus mistici variis appellantur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab “alleon” grece, quod in latinum dicitur “alienum?” sive “diversum”.
In realtà, “allegoria” si può intendere sia come uno dei tre sensi che vengono dopo il senso letterale (spesso, ma non sempre, al secondo posto), sia come un iperonimo che contiene sotto di sé tre iponimi, cioè i sensi allegorico (in accezione stretta), morale, anagogico. Lo dimostra l’esemplificazione della seconda unità di contenuto, che è articolata appunto secondo i quattro sensi. La riporto, in parallelo al luogo del Convivio dedicato al senso anagogico:
Conv, II 1 7-8
Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [che sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa delle superne cose dell’etternal gloria: si come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che nell’uscita del popolo d’Israel d'Egitto Giudea è fatta santa e libera: che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che nell’uscita dell’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate.
Ep., XIII 7 21
Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in istis versibus: «In exitu Israel de Egipto, domus Jacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius». Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, significatur nobis nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatar nobis conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie; si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eternam glorie libertatem.
ll senso letterale della Bibbia trasmette significati che corrispondono a fatti storici, a loro volta veicolo degli altri tre sensi. Dante, inoltre, non cita il racconto dell’Esodo, ma i versus di un salmo, cantato e accompagnato dalla lira: è l'equivalente, nella storia sacra, dell’Orfeo che canta e incanta (ma nel caso di Orfeo la lettera non ha valore storico). In tal modo l’Epistola a Cangrande si accosta al testo biblico non solo dal punto di vista della veridicità-storicità della lettera e dei quattro sensi, ma anche dell’organizzazione della poesia e della sua bellezza formale. In altre parole, Dante non cita l’Esodo, bensi il salmo che celebra la lode dell’evento narrato nell’Esodo, perché nel salmo la Commedia trova il suo diretto termine di confronto teologico e letterario. Che i versi del salmo siano cantati si coglie al vivo nella Commedia, con le anime trasportate in purgatorio sulla nave guidata dall’angelo (Purg., 11 46-48):
«In exitu Israel de Egypto»
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poco dopo, l’incontro con Casella provocherà il ritorno sulla scena di Catone e il rimprovero che ne consegue; qui interessa che Casella esegua la canzone commentata nel III libro del Convivio che, essendo fittizia nella lettera come insegna il Convivio, può ricevere, dopo l’esegesi letterale, la spiegazione allegorica riservata ai poeti (Purg., II 106-14):
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona,
venendo qui, è affannata tanto!
Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor si dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lasciando da parte il problema della relazione tra lirica e musica in Italia durante l’età medievale, mi sembra pertinente richiamare la controversa definizione della poesis secondo il De vulgari eloquentia: «fictio rethorica musicaque poita» (II 4 2): nella quale la musica non va esclusa (né intesa solo come principio astratto), e, per ciò che qui interessa direttamente, fictio può ben intendersi in rapporto alla lettera, falsa, dei poeti.
Tornando al primo capitolo del n libro, ho messo in rilievo con il corsivo, per il motivo che esporrò nel § 3, superne («superne cose»), aggettivo che rende in volgare ana- ‘su’ di anagogico. Da notare ancora la libertà e insieme la precisione con cui Dante rende in volgare l’inizio del salmo 113:
In exitu Israel de Aegypto,
domus lacob de populo barbaro,
facta est Iudea sanctificatio eius,
Israel potestas eius […],
partendo dalla lettera per definirne il senso anagogico (Conv, II 7):
nell’uscita del popolo d’Israel d'Egitto Giudea è fatta santa e libera: che avegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che nell’uscita dell'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate.
A «In exitu» corrisponde un doppio «nell’uscita», introduttore il primo dell’interpretazione letterale (che coincide con il testo latino), il secondo dell’interpretazione spirituale («spiritualmente») o anagogica, costruita sul solido fondamento di un senso letterale storico. A «sanctificatio» e «potestas» corrispondono nel primo membretto «santa e libera»; nel secondo «santa e libera in sua potestate» con recupero di «potestas» omesso nel primo membretto. Uscita dal peccato, l’anima non ne è più schiava ed è «in sua potestate», con transizione del significato di podestà dal significato politico di ‘potere’ (attributo di un popolo padrone di sé, non sottomesso alla tirannide di un altro popolo) alla dimensione etica individuale dell'anima che ha recuperato la libertà del bene.
Per venire finalmente al centro del problema, va ricordata l’osservazione con cui si conclude la spiegazione del senso allegorico in Conv., II 1 5:
Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.
Benché opera di pensiero, il Convivio è scritto secondo l’allegoria dei poeti perché consta di un commento a testi poetici — le canzoni — la cui lettera è falsa, dal momento che la “donna” di cui si parla (almeno nelle due canzoni commentate nel i e m libro), è spiegata allegoricamente come la filosofia. Alla luce di questa distinzione, di ciò che risulta dall’Epistola a Cangrande, e ovviamente dall'esame intrinseco della Divina Commedia, Montano sostiene (a mio avviso con ragione) che il capolavoro di Dante è condotto secondo l’allegoria dei teologi. Nel capitolo L’allegorismo medievale e il simbolismo dantesco il critico si serve dell’Epistola a Cangrande ma va oltre, spiega che la cultura medievale, non solo Dante, distingue «una allegoria in rebus, propria della Sacra Dottrina, e una allegoria in verbis, propria del discorso umano e delle opere dei poeti. Nel primo caso il significato letterale è storico, si riferisce a fatti reali». Più avanti, a proposito del concetto di analogia, lo stesso studioso scrive che nel Medioevo esiste una «similarità delle cose con Dio, o anzi presenza di Dio nelle cose».
Se la lettera è vera, reale, allora l’allegoria che se ne ricava ha ben altro fondamento di un’allegoria ricavata da una «bella menzogna»; e che l’allegoria dei teologi si fondi sulle res significate dalla lettera è detto chiaramente nel passo citato del Convivio, in cui si legge che se il senso letterale è vero, allora la verità della lettera «per le cose significate [dalla lettera] significa delle superne cose dell’etternal gloria [anagogia]»: non dai verba della lettera all'allegoria, ma dalle res significate dalla lettera alle res dell’allegoria.
Dante può designare l’allegoria dei poeti con la dittologia sinonimica «esposizione fittizia e litterale» che garantisce la transizione alla «vera sentenza», quella allegorica (II 15 2): si interpreta la bella menzogna della lettera e si va oltre, verso l’allegoria. Ben diversa è la dittologia usata nell’Epistola a Cangrande, nella quale a litteralis si accompagna historialis li dove, nel passo già citato, si legge che i sensus mistici possono chiamarsi tutti allegorici, «cum sint a litterali sive historiali diversi» (XIII 7 22).
Per la verità Montano non è stato il primo a sostenere che la Commedia sia stata scritta secondo l’allegoria dei teologi: già André Pézard aveva raccolto numerose testimonianze mediolatine che portavano a questa conclusione, e analogamente Singleton, di cui Montano, per primo, fece tradurre in italiano i Dante Studies, 1. Elements of Structure (1954). Ma gli studi danteschi italiani sembrano restii a discutere un problema che, tuttavia, è di rilevanza non trascurabile né, per limitarci al capitolo del Convivio oggetto di questa nota, i commenti offrono indicazioni adeguate. Senza risalire a quello di G. Busnelli e G. Vandelli, basterà considerare il commento assai ricco e impegnativo di C. Vasoli, che al capitolo dedica lunghe annotazioni con ampia citazione di testi mediolatini e abbondanti rinvii alla letteratura secondaria, ma senza una linea interpretativa chiara, con il risultato di non fare chiarezza sull'argomento trattato da Dante. Si apprende cosi che l’Anticlaudianus di Alano di Lilla sarebbe «un tipo di poema che anche per la sua forma letteraria precorre la Commedia», mentre è evidente che le figure storiche di Dante poco hanno che fare con le astratte, fittizie personificazioni di Alano (la “menzogna” della lettera!); più avanti, dopo aver rammentato la distinzione tra la lettera falsa dei poeti e quella vera della Bibbia, prosegue sostenendo che per i teologi «la Bibbia narra, in primo luogo, eventi reali e storici che hanno un'assoluta verità e sono indiscutibili, il che non toglie che le cose significate dalla Parola divina possano avere poi anche altri sensi reconditi allegorici, morali e anagogici che Dio stesso ha inteso significare, attraverso la narrazione degli eventi della storia sacra»: sfugge allo studioso che la verità letterale da cui parte l’esegesi degli altri sensi conferisce alla scienza di Dio un fonda mento ben più saldo dell’allegoria, accettabile o meno, che un commentatore ricava dalla lettera falsa dei poeti.
Il commento recente di G. Fioravanti rappresenta indubbiamente un progresso netto, e le spiegazioni sul capitolo dei quattro sensi sono coerenti oltre che aggiornate, anche se è a mio avviso discutibile la conclusione:
non possiamo fare a meno di notare che Dante, a dispetto delle affermazioni precedenti (II 1 5 «mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare»), sostenendo e argomentando il primato del senso letterale proprio all’inizio della sua autoesegesi, sembra comportarsi verso le proprie canzoni esattamente come i teologi nei confronti della Sacra Scrittura: in questo schema esse non rientrerebbero più nel mondo delle favole poetiche, ma dovrebbero assumere anche nella loro lettera un valore di verità.
Appare chiaro, infatti, che il «primato del senso letterale» è cosa distinta dalla sua veridicità e concerne la successione delle operazioni ermeneutiche perché, come si è già detto, la comprensione della lettera è prioritaria rispetto all’individuazione dell’allegoria, che può essere intesa rettamente solo dopo che l’intelligenza della lettera sia assicurata. In attesa che le indagini su questo argomento continuino, ovviamente anche con l’aiuto degli strumenti informatici oggi disponibili, sarebbe fin d’ora possibile e necessario usare l’opera capitale di Henri de Lubac, Esegesi medievale, poco citata e meno usata negli studi danteschi, e non solo e non tanto per le pagine dedicate a Dante, quanto per la ricchissima messe di indicazioni sulla tradizione cristiana, ottimo accessus a un aspetto essenziale della cultura e delle idee di Dante.
Poiché questa nota è nata in margine alla riedizione del Dante filosofo e poeta di Montano, concludo segnalando una domanda, posta da quel libro, sul valore letterale della poesia nella Divina Commedia, andando oltre ciò che dell’Eneide si legge nel IV del Convivio. Nel Convivio, infatti, ma soprattutto nel n libro della Monarchia, Dante scopre l’Eneide come opera storica che gli rivela il senso della storia di Roma, in sé e per sé e in rapporto al diffondersi della nuova religione cristiana entro i canali — oggi li chiameremmo globali — dell'impero di Augusto: una convinzione riproposta nel canto di Giustiniano (Par., vi). In fondo a una nota del Dante filosofo e poeta Montano, che torna più volte, con pagine affascinanti, sul rapporto di Dante con Virgilio autore e personaggio del poema, pone un problema che si affaccia alla mente di ogni lettore della Commedia: «Parlando del mito di Orfeo nel Convivio Dante aveva detto esplicitamente che si trattava di “bella menzogna” (II 1 3). Ma è possibile che su questo punto il suo pensiero fosse cambiato quando scrisse la Commedia. In questa il mito classico è indicato sempre come un adombramento del vero». È un suggerimento, avanzato con molta discrezione, che indica possibili piste di studio, come avviene quando, impostati e risolti alcuni problemi, se ne individuano per ciò stesso di nuovi secondo quell’avanzamento inesauribile da una domanda all’altra che è inerente a ogni ricerca vitale.