Dati bibliografici
Autore: Simon Gilson
Tratto da: Leggere Dante a Firenze. Da Boccaccio a Cristoforo Landino (1350-1481)
Editore: Carocci, Roma
Anno: 2019
Pagine: 73-81; 111-115; 210-213; 236-240
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Nel giugno 1373 alcuni cittadini fiorentini fecero richiesta formale alle autorità di nominare un uomo sapiente e qualificato «perché leggesse nella città di Firenze il libro comunemente noto come “il Dante” a tutti coloro che lo volessero ascoltare». Chiedendo che la lettura del “libro di Dante” fosse resa accessibile a tutti i cittadini, inclusi coloro che non conoscevano il latino, ma che aspiravano alla virtù, a evitare il vizio e a coltivare l’eloquenza, la petizione riconosceva il valore della Commedia come fonte di insegnamento etico . In seguito all’approvazione della richiesta, il 25 agosto l’incarico venne conferito a Boccaccio per un anno. La prima lettura si tenne domenica 23 ottobre 1373 nella cappella di Santo Stefano in Badia; dopo circa sei lezioni, nel gennaio 1374 il ciclo fu sospeso all’altezza dei versi iniziali di Inferno XVII a causa delle cattive condizioni di salute di Boccaccio, ma forse anche delle reazioni polemiche suscitate dalle sue lecturae, come quattro sonetti di retractatio fanno sospettare . Boccaccio non riprese più il lavoro e morì il 21 dicembre 1375.
Non esiste una versione definitiva delle lezioni, che sono piene di aggiunte e correzioni a margine, ma, per quanto incompiute, le Esposizioni sopra la Comedia costituiscono comunque il giudizio più diretto e dettagliato di Boccaccio sul poema dantesco e restano imprescindibili anche per il successo che ebbero e l'influenza che esercitarono. Molte delle caratteristiche già individuate nel Trattatello — gli elementi biografici e aneddotici, l’ingratitudine di Firenze, le critiche moralizzanti sull’avarizia, sulle donne e sulla cultura mercantile, il rema del poeta-teologo e le digressioni sulla poesia, le controversie sull’uso dantesco del volgare – vengono sviluppate anche nelle Esposizioni, mala loro natura ibrida – che mescola testimonianze orali e scritte, rifacendosi alla tradizione esegetica precedente, pur rispondendo anche a preoccupazioni del momento – si risolve in una peculiarità sia formale sia contenutistica. Per illustrare queste qualità e per dare un’idea di come il testo metta insieme sia interpretazioni precedenti sia interessi nuovi, è necessario distinguere quelle aree del commento che dipendono strettamente dalla tradizione esegetica da passaggi che invece rappresentano traiettorie nuove, informate da problematiche coeve e personali. Come altri commenti medievali, inclusa la prima esegesi della Commedia, le Esposizioni contengono un accessus ad auctorem di tipo scolastico, ovvero un’introduzione all’autore e al testo sviluppata sulla base di categorie filosofiche e letterarie prestabilite. L’accessus di Boccaccio comincia con un proemio in cui si esprime l’intenzione di «spiegare l’artificioso testo, la moltitudine delle storie e la sublimità de’ sensi nascosi sotto il poetico velo della Comedia del nostro Dante» (Esp., Accessus, 3). Questa affermazione già rivela la preferenza di Boccaccio per la narrazione storica e l’importanza che egli conferisce all’esegesi allegorica, ed è seguita da una descrizione del triplice obiettivo dell’accessus: illustrare le quattro cause del poema, discuterne il titolo e individuare il ramo della filosofia a cui esso appartiene. Boccaccio descrive le quattro cause e discute l’etimologia del titolo “Comedìa” notando con una certa perplessità che si tratta di una designazione inadeguata a descrivere le qualità stilistiche del poema . Successivamente fornisce un breve schizzo biografico della vita di Dante e una discussione del suo nome che riecheggiano il Trattatello. A seguire si trovano un breve commento sul rapporto fra il poema e l’insegnamento etico, una lunga parte sull’Inferno e infine una giustificazione della decisione dantesca di scrivere la Commedia in volgare. Da questo riassunto si può constatare come molte delle preoccupazioni del “secondo Boccaccio” siano qui nuovamente affrontate, ma alcuni tratti sono peculiari del linguaggio critico degli accessus, inclusi il rilievo dato al valore etico della letteratura e al contenuto dottrinale.
Le glosse ai primi diciassette canti dell’Inferno hanno molto in comune con le modalità esegetiche dei primi commenti danteschi non fiorentini. Come nelle Expositiones di Guido da Pisa, ogni canto riceve prima un commento letterale e poi uno allegorico (l’interpretazione allegorica manca nei canti X-XI e XV-XVI ed è drasticamente ridotta nel canto VIII). Come in molti commenti antecedenti e successivi, l’esposizione allegorica di Boccaccio si dilunga spesso in modo abnorme: ad esempio, i vermi e il sangue che tormentano gli ignavi (Inf. III, 67-69) sono oggetto di lunghe spiegazioni, che danno una lettura morale di ogni aspetto della pena, enfatizzando la gravità del peccato stesso. Come nel commento di Guido da Pisa, nell’esposizione letterale ogni canto viene suddiviso dettagliatamente in parti, in conformità con la tecnica della divisio textus ampiamente utilizzata in tutta l’esegesi tardomedievale. Nell’esposizione letterale Boccaccio offre molte parafrasi, normalmente precedute da indicazioni come “cioè”, “quasi voglia dire”, “quasi voglia dinotare”. I primi commentatori trecenteschi impiegano tecniche simili, ma Boccaccio, rispetto a costoro, mostra lungo tutte le Esposizioni un profondo interesse per il senso letterale, come dimostra l'esempio seguente, dove si commenta la descrizione dantesca di Cerbero (Inf. VI, 16-18):
Con tre gole, per ciò che tre capi avea, caninamente latra; e in questo atto dimostra lui essere cane, come i poeti il descrivono; Sopra la gente che quivi è sommersa, sotto la grandine e l’acqua e la neve [...]. Gli occhi ha vermigli, questo Cerbero, e la barba unta e atra, cioè nera. E ‘l ventre largo, da poter, mangiando, assai cose riporre, e unghiate le mani, per poter prendere e arrappare; Graffia gli spiriti, con quelle unghie, e ingoia, divorandogli, e squarta, graffiandogli (Esp. VI [I], 6-7).
Se il corpo a corpo di Boccaccio con il testo di Dante è discontinuo e viene in molti casi interrotto da interessi di tipo personale, la struttura aperta e ibrida della forma commento viene sfruttata per introdurre inserti narrativi, con temi e ritmi che richiamano da vicino il Decameron . Inoltre, la preoccupazione nei confronti della correttezza del testo del poema non trova una risposta adeguata nella valutazione delle varianti; nelle poche occasioni in cui Boccaccio spiega perché preferisce una certa lezione a un’altra, lo fa sulla base delle proprie preferenze o di un’idea del tutto personale di coerenza del testo .
Come in quasi tutti i primi commenti a Dante, le glosse più lunghe di Boccaccio dedicano particolare attenzione a temi che si prestano a digressioni enciclopediche, per quanto piegate agli interessi del commentatore. Nelle Esposizioni Boccaccio sviluppa la tecnica della compilazione erudita soprattutto in riferimento alla cultura classica (storia, letteratura e mitologia), al diritto medievale, alla teologia, alla geografia e a vari rami della scienza naturale (medicina, meteorologia, astrologia e astronomia) . In molte di queste glosse si registra anche una sovrapposizione evidente e considerevole fra le Esposizioni e il materiale che si trova nelle enciclopedie latine di Boccaccio, le Genealogie e il De montibus .
Nel commento, inoltre, Boccaccio discute, prende in prestito e adatta chiose specifiche dei commentatori danteschi precedenti: è facile trovarlo a esaminare le varie opinioni espresse su un dato passo, che talvolta si limita semplicemente a riportare, ma che in altri casi discute e capovolge. In particolare, egli nega – in polemica con l’interpretazione del poema data da Guido da Pisa – che la Commedia debba essere letta come una rivelazione soprannaturale, insistendo piuttosto sulle sue qualità letterarie e retoriche, cioè proprio quelle caratteristiche in base alle quali si possono stabilire dei punti di contatto con i modelli classici (in questo senso il suo precursore più importante è Pietro Alighieri) .
A dispetto dei luoghi comuni e delle tecniche che avvicinano Boccaccio alla tradizione esegetica precedente, le Esposizioni rimangono un documento particolarmente interessante della ricezione fiorentina di Dante nei primi anni Settanta del Trecento. Nell’accessus Boccaccio tenta di minimizzare le differenze fra la cultura volgare e quella classica, ma le tensioni restano evidenti. Egli si spinge molto più in là di quanto mai avesse fatto prima nell’affermare la superiorità del latino quando dice che:
quantunque in volgare scritto sia [sc. il poema di Dante], nel quale pare che comunichino le feminette, egli è nondimeno ornato e leggiadro e sublime, delle quali cose nulla sente il volgare delle femine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato il peso delle parole volgari, ch’egli non fosse più artificioso e più sublime molto, per ciò che molto più d’arte e di gravità ha nel parlare latino che nel materno (Esp., Accessus, 19).
Ma il commento più eloquente si trova nell’esposizione letterale del canto XV: a proposito della reputazione letteraria di Petrarca, si percepisce un disagio tutto nuovo quando Boccaccio osserva che la luce di Dante «è per alquanto tempo stata nascosa sotto la caligine del volgar materno» (Esp. XV [I], 97).
Nella sezione finale dell’accessus Boccaccio discute le ragioni per cui Dante ha scelto di usare il volgare, ripetendo le argomentazioni già addotte nel Trattatello: la scelta del volgare inteso come la «corteccia» o il guscio del poema fu guidata dalla necessità di rendere il testo intellegibile ai governanti del suo tempo (Esp., Accessus, 77). Boccaccio ripropone la nozione della «corteccia» nella prima esposizione allegorica di Inferno I, dove afferma che Dante ha celato i preziosi gioielli della verità cattolica all’interno dell’involucro volgare del suo poema («sotto la volgare corteccia del suo poema»: I, II, 18). Le persone istruite usano la propria intelligenza per scoprire la sapienza che si nasconde sotto il senso letterale, mentre i semplici si compiacciono solo di quest’ultimo. E in una piana, ma profonda analogia Boccaccio prende in prestito un’espressione che Gregorio Magno aveva usato in relazione al libro dei Salmi, paragonando il poema di Dante a un fiume le cui acque sono basse abbastanza da lasciar attraversare un agnello, ma profonde a sufficienza perché ci possa nuotare un elefante:
intorno al senso allegorico si possono i savi essercitare e intorno alla dolceza testuale nudrire i semplici, cioè quegli li quali ancora tanto non sentono che essi possano al senso allegorico trapassare [...] dir si può [...] questo libro essere un fiume piano e profondo, nel quale l'agnello puote andare e il leofante notare, cioè in esso si possono i rozi dilettare e i gran valenti uomini essercitare [...] è da dimostrare la seconda [sc. la parte allegorica], intorno alla quale si possano gl’ingegni più sublimi esercitare: la qual cosa si farà aprendo quello che sotto la crosta della lettera sta nascoso (Esp. I [II], 23-25).
In questi passi Boccaccio conserva l’interesse per il fascino che Dante esercita a livello popolare, ma allo stesso tempo dimostra come la sua opera in volgare si accordi con la concezione umanistica della poesia come lavoro colto, destinato a una élite raffinata e istruita sui classici. In questo modo egli rivede e amplia l'opinione espressa da Petrarca, che aveva in- quadrato la Commedia solo in base alla sua ricezione da parte delle masse incolte.
Le Esposizioni manifestano anche gli interessi classicizzanti di Boccaccio e il suo tentativo di impiegarli in modo da allineare Dante ai valori umanistici emergenti. Egli attinge ampiamente alla mitologia classica nel glossare singoli versi e parole, in un modo che spesso oltrepassa di gran lunga l’esegesi letterale del testo. Inoltre usa di frequente le allusioni dantesche a figure del mito classico come punti di partenza per espor- re la “moltitudine delle storie” dell’antichità e della letteratura classica e romanza. La parola «poeta» in Inferno I, ad esempio, innesca una digressione di quarantuno paragrafi; le «muse» di Inferno II ne ricevono una di diciotto e il corteo di pagani virtuosi in Inferno IV suscita una successione di micro-commenti che ammontano a circa duecento paragrafi e che rendono l’esposizione letterale di questo canto la più lunga di tutte. Nel discutere gli aspetti dottrinali più disparati, come la collocazione dell’Inferno, l’inclinazione delle anime al peccato e la fisiologia del sonno, vengono citati come auctoritates estratti provenienti da testi classici anche poco conosciuti . Ma l’uso più significativo che Boccaccio fa dell’erudizione classica è quello di fornire analogie fra gli auctores latini e Dante poeta volgare: nell’esposizione allegorica del primo canto Boccaccio dichiara che Virgilio trattò la stessa materia di Dante, sebbene con altre intenzioni (I [II], 148); nel canto II, dopo una lunga descrizione delle invocazioni classiche e delle loro varie forme, afferma che Dante ha seguito il modello virgiliano e nota che «il nostro autore s’acostò più allo stilo di Virgilio, come in ciascuna cosa fa» (II [I], 15). Come Pietro Alighieri prima di lui, Boccaccio commenta numerosi passi dove Dante ha adottato parole, personaggi e paragoni provenienti dall’ Eneide di Virgilio e spesso applica l’esegesi fornita nelle sue opere latine a figure virgiliane che compaiono nella Comedia. La convinzione che Dante avesse imitato molto da vicino l’esempio virgiliano agisce anche nella giustificazione di passi della Commedia storicamente inaccurati o potenzialmente eretici . L'attenzione che Boccaccio presta alla cultura greca rappresenta un ulteriore aspetto dei suoi interessi classicizzanti: egli formula osservazioni su Omero, dimostra di conoscere molto dell’Odissea e discute diverse etimologie greche . Tuttavia non sempre questa conoscenza di base è impiegata a favore di Dante, anzi capita che porti alla luce l’inconsistenza dei riferimenti classici danteschi: «non veggo com'esser potesse» è l’incredulo commento a Inferno I, 70, che insinua erroneamente che Virgilio fosse nato verso la fine del dominio di Giulio Cesare (I [I], 59). In questo modo Boccaccio fornisce un precedente importante ai lettori fiorentini e ai commentatori danteschi successivi, che giudicarono sistematicamente il contenuto e le allusioni classiche della Commedia sulla base di standard umanistici.
Anche il problema dell’ortodossia religiosa di Dante attraversa il commento di Boccaccio in un modo che fa intravedere come il poema fosse ancora oggetto di polemiche nella Firenze dell’ultimo Trecento. Nei primi anni Venti, Cecco d’Ascoli era stato il primo a sfruttare l’idea che gli insegnamenti di Dante potessero essere potenzialmente eretici, anche se il suo fu essenzialmente un attacco ad personam. Altre difficoltà che il poema dovette affrontare sul piano religioso dipesero dalle obiezioni mosse dall’Ordine domenicano, che sembrano trovare un’eco nella sollecitudine con cui i primi commentatori trecenteschi giustificarono i passi dante schi più controversi, nell’Inferno e altrove . Nelle Esposizioni Boccaccio si confronta proprio con queste preoccupazioni quando tenta di neutralizzare i passi meno ortodossi. Esprime perplessità su alcune delle figure che si trovano nel Limbo, in particolare Ovidio e i filosofi arabi, Avicenna e Averroè (IV [II], 49); nel commentare Inferno IX, 22-27 evita di menzionare le associazioni negromantiche implicite nel passo, mettendone in discussione la pretesa di storicità e dilungandosi su precedenti biblici (IX [I], 18-20). Sotto questo profilo, Inferno XIII è il canto più problematico di tutti: Boccaccio nota che affermare che i suicidi non risorgeranno e non si rivestiranno delle proprie spoglie nel momento del Giudizio Universale è «dirittamente contrario alla verità catolica» (XIII [I], 69), ma attribuisce l’errore, anziché a Dante, a uno dei suoi personaggi, operando una sottile distinzione per così dire “di scuola” che gli permette di proteggere l’Alighieri da accuse di eterodossia (parr. 76-83). In merito allo stesso canto, inoltre, Boccaccio afferma con risolutezza che credere che una statua – quella fiorentina di Marte – determini il temperamento bellicoso dei suoi concittadini, come suggerito da un personaggio anonimo ai versi 146-150, è non solo sciocco, ma anche eretico (par. 104).
Nelle Esposizioni, dunque, Boccaccio adotta di frequente un tono moralizzante, rifacendosi almeno in parte ai primi commentatori danteschi, Guido da Pisa in primis; si dilunga sui suoi temi etici preferiti, come l’avarizia e le sue conseguenze (VII, II, 45-82), e si compiace nel condannare alcuni vizi, come ben mostra l’esempio di “attacco lessicale” contro i golosi, degno di essere accostato alla descrizione della dissolutezza di Ciappelletto e di frate Cipolla nel Decameron, senza eguali nella letteratura volgare europea prima di Rabelais:
Questi adunque tutti, ingluviatori, ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrapatori, biasciatori, abbaiatori, cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti, brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e noiosi a vedere e ad udire, uomini, anzi bestie, pieni divane speranze, sono vòti di pensier laudevoli e strabocchevoli ne’ pericoli, gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanzie temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine (Esp. VI [II], 41).
A ben vedere, le Esposizioni sono una combinazione affascinante di conservatorismo etico-religioso e di uso innovativo della letteratura, della storia e del mito classici. Esse riuniscono aspetti propri del tardo Boccaccio — una forte religiosità, la tendenza alla compilazione e l'apertura a una mentalità più distintamente umanistica — conservando le tracce dell'esposizione orale destinata a un pubblico variegato, che includeva sia l'élite colta, sia lettori che non padroneggiavano il latino e la cultura classica. Pur ricorrendo ampiamente alla tradizione esegetica precedente, Boccaccio modella in maniera innovativa le proprie interpretazioni e spesso associa la poesia di Dante a preoccupazioni che nascono dal suo contesto di riferimento, improntato ai valori che erano di Petrarca e non solo. Le Esposizioni ci offrono dunque un esempio particolarmente interessante di incontro fra passato e presente, tradizione e innovazione.
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Secondo quanto da lui stesso affermato, Villani cominciò l’Expositio seu Comentum super Comedia Dantis Allegherii (ca. 1400) su richiesta del pubblico, dopo la divulgazione del commento, ora perduto, al canto XXX del Purgatorio. L’Expositio è costituita da una lunga prefazione e dall’esegesi del primo canto dell’Inferno: la prefatio presenta molte delle caratteristiche tipiche degli accessus e, come il commento vero e proprio, privilegia un’esegesi di carattere allegorico. A dire il vero, Villani ha portato molti dei suoi lettori all’esasperazione a causa dell’implacabilità con cui egli applica alla Commedia le categorie ermeneutiche dell’Epistola a Cangrande, con lo scopo di fornire un’allegoresi continua del canto, oltre che di molte altre sezioni del poema. Il commento si legge nell’edizione critica approntata da Saverio Bellomo, che include un prezioso apparato e un’introduzione che offre un valido resoconto del rapporto fra l’Expositio e il suo contesto di origine. In particolare, Bellomo dimostra come il commento presupponga un pubblico istruito (è scritto in latino e manca quasi del tutto di un'esposizione letterale) e ne identifica il tema principale in una difesa della letteratura classica che si inserisce in quella polemica contro le autorità ecclesiastiche che molto animò la vita intellettuale fiorentina nei decenni intorno al 1400 .
Come molti altri commenti, l’Expositio si caratterizza per un intreccio di tradizione e innovazione. Essa si rifà costantemente alla biografia e all’esegesi di Boccaccio, ma ricorre anche ad altri commenti danteschi, a Virgilio e alla Bibbia, riproponendo quegli stessi argomenti che abbiamo trovato in Salutati e che fanno del poema di Dante un’opera “divina” una fonte di insegnamenti morali e una summa di tutte le cose umane e divine . Come i commentatori danteschi precedenti, Boccaccio compreso, Villani utilizza la tecnica della divisio textus e nelle chiose si occupa di questioni grammaticali, retoriche e linguistiche . Come Benvenuto, rivolge numerose critiche alle correnti più estreme dell’aristotelismo sviluppatesi a Padova e a Bologna e i cui rappresentanti, noti come “averroisti”, erano stati il bersaglio di alcune famose invettive petrarchesche . Come Pietro Alighieri, Benvenuto e Francesco da Buti, si serve della distinzione fra un Inferno “essenziale” (cioè il vero e proprio regno dell’aldilà cristiano) e un Inferno “morale”, che simboleggia la corruzione degli uomini in questa vita.
Malgrado questi e altri prestiti simili, Villani assume spesso un atteggiamento agonistico nei confronti dei commentatori trecenteschi. Lungo tutta l’Expositio replica indirettamente a opinioni che possono essere fatte risalire a questo o a quel commentatore: il meccanismo è particolarmente evidente in corrispondenza delle cruces di Inferno I, dove Filippo si compiace nel fornire nuove soluzioni a enigmi quali il «passo» del verso 26 e «’l piè fermo» del verso 30. Strategie competitive sono all’opera anche quando egli si serve in maniera inconsueta o particolarmente ampia di suggestioni ed espedienti esegetici rinvenibili già nei commentatori precedenti, ad esempio quando fa proprie alcune delle osservazioni di Pietro Alighieri e Boccaccio sulle analogie fra il poema di Dante e l’epica di Omero e Virgilio e le sviluppa facendone un principio interpretativo fondamentale. Secondo Villani, Omero e Virgilio forniscono il modello allegorico per l'ideazione dell’intero poema dantesco, e tutte e tre le opere – Odissea, Eneide e Commedia – rappresentano il viaggio dell’uomo in questa vita verso la felicità . L’Expositio si spinge oltre i commenti prece- denti anche per quanto riguarda il livello di attenzione che Villani presta alle varianti testuali, anche se la predilezione per una certa lectio è spesso dettata dall’interesse per l’allegoresi .
L’elemento che allontana più significativamente Villani dai commentatori precedenti, e specialmente dalle Esposizioni di Boccaccio, è il suo disinteresse nei confronti del senso letterale della Commedia. Nel chiosare il poema egli si compiace dell’allegorizzazione al punto da alterare talvolta la sintassi e la grammatica del testo. Naturalmente quasi tutti i commentatori trecenteschi interpretano allegoricamente il testo, ma Filippo, armato dei criteri esegetici dell’Epistola a Cangrande, risulta ben più implacabile di loro nella lettura di Dante, così come supera i commentatori di Virgilio nelle letture anagogiche e morali dell’Eneide. Se Pietro, Boccaccio, Benvenuto, Buti e l’Anonimo Fiorentino, come già Dante in Monarchia III, IV; 6-11, citano un passo di Agostino sui pericoli insiti nella ricerca del senso allegorico in ogni parte di un componimento, Villani, al contrario, critica i commentatori che non vanno oltre il senso letterale e i lettori che prediligono solo l’armonia del verso (che, come abbiamo visto, era considerata da Salutati una caratteristica importante della Commedia) . Inoltre è alquanto esplicito nel considerare i riferimenti temporali forniti da Dante e le perifrasi da lui impiegate come portatori di un senso mistico nascosto .
Un esempio emblematico del disinteresse di Villani per il senso letterale del poema è offerto dalla sua interpretazione di Inferno I, 70, in cui riporta la soluzione di Salutati. Ma per quanto ne condivida la preoccupazione riguardo alla difesa della letteratura classica, egli non offre una lettura classicizzante, bensì un’interpretazione destoricizzata che presenta Cesare come allegoria del diavolo:
Sanctus Gregorius in Moralibus dicit quod quoties licteralis intentio substineri non potest, quod tunc ad allegoricum sensum decurrendum est. Hocvererad licteram sustineri non potest, ut vides, licet quidam voluerit quod per idem tempus, quo predicti consulatum tenebant, Iulio Cesari utramque Galliam senatusconsulto fore decreram et, ut sic, natum fore sub Cesare. Verum, volendo sensum allegoricum ponere, Cesar vi bellorum sibi orbem terrarum subegit: unde imperium Cesaris violentum transfert ad imperium dyaboli deceptivum .
[Nei Moralia San Gregorio dice che quando il significato letterale non regge allora bisogna ricorrere al senso allegorico. Questo (verso 70), come vedi, non si regge sulla lettera, anche se qualcuno (sc. Salutati) sostiene che, mentre i suddetti consoli esercitavano il consolato, Giulio Cesare divenne senatore e console di entrambe le Gallie, e che quindi (Virgilio) era nato sotto Cesare. Ma volendo esporre il senso allegorico, noi diciamo che Cesare soggiogò il mondo con il potere della guerra; quindi il violento impero di Cesare rappresenta l’impero del diavolo ingannatore.]
Non è necessario scendere nei dettagli di ogni interpretazione allegorica: questo esempio illustra bene come un simile approccio conduca tanto alla distorsione della lettera della Commedia, quanto alla totale mancanza di considerazione per le idee di Dante sul ruolo provvidenziale dell’ Impero, offrendo un esempio interessante ed estremo della possibilità di liberarsi di qualsiasi limite imposto dal testo e di conferire al poema significati nuovi.
Nonostante l'accento posto su tali aspetti, nella prefazio Villani presta attenzione anche al problema del rapporto fra Dante e Firenze e alla scelta dantesca del volgare. Rispetto al De origine, mostra qui scarso interesse per le qualità civili dell’opera di Dante; tuttavia, permangono alcuni elementi significativi, come ad esempio l’espunzione dell’espressione «florentinus natione non moribus» (“fiorentino di nascita, non di costumi”) dall’intitulatio dell’Epistola a Cangrande (Pref, 55). Un altro esempio del patriottismo municipale di Villani si trova alla fine della prefazione, dove si discute la decisione di Dante di scrivere la Commedia in volgare. Dapprima, sulla scia di Boccaccio, Filippo afferma che Dante aveva cominciato il poema in latino, per poi passare al volgare dopo aver riflettuto sul declino degli studi liberali e sull’ignoranza dei sovrani del suo tempo. L'osservazione conclusiva, invece, non ha alcun precedente in Boccaccio: il commentatore afferma infatti di rifarsi alla testimonianza di un amico e contemporaneo di Dante, suo zio Giovanni Villani, secondo cui il poeta stesso sarebbe stato ben consapevole del divario fra il suo stile latino e i livelli raggiunti dalla poesia antica:
Audivi, patruo meo Iohanne Villani hystorico referente, qui Danti fuit amicus et sotius, poetam aliquando dixisse quod, collatis versibus suis cum metris Maronis, Statii, Oratii, Ovidii et Lucani, visum ei fore iuxta purpuram cilicium collocasse. Cumque se potentissimum in rithmis vulgaribus intellexisset, ipsis suum accommodavit ingenium. Amplius aiebat vir prudens id egisse ut suum idioma nobilitaret et longius veheret, addebatque sic se facere ut ostenderet etiam elocutione vulgari ardua queque scientiarum posse tractari (Expositio, pref. parr. 225-226).
[Venni a sapere da mio zio, Giovanni Villani, amico e compagno di Dante, che il poeta a volte diceva che, avendo accostato i propri versi a quelli di Virgilio, Stazio, Orazio, Ovidio e Lucano, gli sembrava di avere messo il cilicio insieme alla porpora. E poiché aveva capito di essere abilissimo nel comporre versi volgari, dedicò a questi il proprio ingegno. Da uomo assennato diceva inoltre che lo aveva fatto per nobilitare e sviluppare ulteriormente la propria lingua, e aggiungeva che lo aveva fatto in modo da dimostrare che l’eloquenza volgare poteva trattare le più ardue questioni intellettuali.]
La considerazione conclusiva – che non affiora mai in Dante – riflette. il punto di vista di un lettore tardotrecentesco, i cui gusti letterari sono influenzati dall’imporsi dell’eredità latina. Abbiamo già visto come simili giudizi di valore agissero in Boccaccio, ma l’idea di Villani che Dante si ritenesse più competente nel comporre versi in volgare e intendesse rendere il volgare stesso in grado di occuparsi delle più ardue questioni intellettuali non sembra avere precedenti precisi.
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Nel Comento Landino fa ampio uso dei due dialoghi filosofici latini scritti in precedenza, il De anima e le Disputationes Camaldulenses. Il De anima (ca. 1471) — un’indagine di carattere enciclopedico sul tema dell’anima umana e delle sue operazioni — è la fonte principale di molte delle categorie filosofiche che Landino impiega per spiegare il significato allegorico del viaggio dantesco e la relazione fra i personaggi di Dante e Virgilio, oltre che dell'esposizione di numerose questioni dottrinali. Le Disputationes Camaldulenses (ca. 1474) costituiscono un precedente ancora più significativo : i primi due libri discutono i pregi dell’otium e del negotum, dell’azione e della contemplazione, mentre gli ultimi due offrono un commento filosofico ai primi sei libri dell’Eneide. In questa esegesi virgiliana, così come nelle precedenti lezioni sull’ Eneide tenute a partire dal 1462-63, Landino presenta il poema come un’opera allegorica imbevuta di platonismo: i viaggi di Enea da Troia a Cartagine, alla Sicilia e fino alla penisola italiana simboleggiano l’uomo che abbandona il piacere dei sensi, supera gli ostacoli della vita attiva e persegue il cammino della perfezione, che si conclude con la contemplazione delle idee divine . In due passaggi importanti, all’inizio .e alla fine del quarto libro, Landino applica questa cornice interpretativa al poema dantesco, «il divino poema della nostra città»:
nonne e nostris Danthem virum omni doctrina excultum gravissimum auctorem habemus, qui eius itineris, quo mundum omnem ab imis Tartaris ad supremum usque caelum peragrat, in co sibi illum ducem fingit, in quo summum hominis bonum perquirens miro quodam ingenio unicam Aeneida imitandam proponitc, ut, cum pauca omnino inde excerpere videatur, nunquam tamen, si diligentius inspiciemus, ab ea discedar? Nam nonne statim a principio ea, quae de medio aetatis tempore, quae de silva, quae de tribus feris, quae de montis sublimi iugo iam solis radiis illustrato conscripsit, hinc omnia sunt? Mitto cetera, quae ita abdita in Danthis poemate sunt, ut non nisi a paucis iisdemque doctissimis deprehendi possint. Praeponitigitur sibi ducem Maronem in ea re, quae ad summum bonum, non autem ad physicen spectet. [...] [«] Dum enim mihi planum reddere Maronem tentas idque efficis, eodem tempore in nostris civis divinum poema inducis. Nunc enim demum perspicio, quid sibi velit Danthes, qui primum ad inferos descendat atque inde emergens nullam aliam viam nisi per purgatoria loca ad caelum inveniat» [...]. Nunc autem, cum universum rei argumentum mente percurro, summa admiratione eius viri ingenium prosequor. Nam cum in opere suo texendo pauca omnino fila de Virgiliana tela mutuari videatur, ramen inde omnia paene sint. Quam ob rem nunc id demum intelligo, quod nos ex Ciceronis praecepto saepenumero Landinus admonere solet esse in aliquo imitando diligentem omnino rationem adhibendam; neque enim id agendum, ut idem simus, qui sunt ii, quos imitamur, sed eorum ita similes, ut ipsa similitudo vix illa quidem neque nisi doctis intelligatur .
[Fra i nostri autori non abbiamo forse Dante, uomo di grande valore e immenso sapere che immagina che lui (sc. Virgilio) lo guidi in un viaggio attraverso l’intero universo, dalle profondità del Tartaro al più alto dei cieli? In cerca, con ingegno mirabile, del bene più grande per l’uomo, non sceglie forse come solo e unico modello l’Eneide e, anche se sembra che da lì tragga pochissime cose; se guardiamo con più attenzione, non vediamo che mai si allontana da essa? Le cose che ha scritto fin dall’inizio (il «mezzo» della vita, la selva, le tre fiere, la cima del monte già illuminata dai raggi del sole) non derivano forse tutte da lì? Tralascio altre cose, che sono talmente nascoste nel poema di Dante da poter essere apprezzate solo da pochi uomini estremamente dotti. Quindi Dante sceglie Marone come propria guida in quelle questioni che riguardano il sommo bene e non il mondo fisico (...). Mentre tu (sc. Alberti) enti di spiegarmi (sc. a Lorenzo) Virgilio, allo stesso tempo stai introducendo il divino poema nella nostra città. Ora capisco finalmente che cosa Dante volesse dire: prima discende agli inferi per poi uscirne e giungere in paradiso per null’altra via che attraverso il purgatorio (...). Ora, quando col pensiero passo in rassegna l’intero argomento, provo una grandissima ammirazione per l'ingegno di quell’uomo. Infatti anche se pare che, nel tessere la propria opera abbia preso in prestito solo pochi fili dalla tela virgiliana, in verità quasi tutti provengono da lì. E ora finalmente capisco di che cosa Landino, seguendo l’insegnamento di Cicerone, era solito ammonirci: nell’imitazione bisogna impiegare grande cura. Non deve essere praticata come se noi fossimo esattamente coloro che stiamo imitando, ma dobbiamo essere simili a loro in modo tale che quella somiglianza non possa essere intesa se non dai dotti.]
Nel capitolo iniziale del proemio al Comento Landino evidenzia le strette connessioni fra la sua lettura dell’Eneide e quella della Commedia:
Ora perché havevo novellamente interpretato, et alle latine lettere mandato l’allegorico senso della virgiliana Eneide, giudicai non dovere essere inutile a’ miei cittadini, né ingiocondo, se con quanto potessi maggiore studio et industria, similmente investigassi gl’arcani et occulti, ma al tutto divinissimi sensi della Comedia del fiorentino poeta Danthe Alighieri; et chome el latino poeta in latina lingua havevo expresso, chosì el toscano in toscana interpretassi .
Sia nel proemio, sia nelle glosse a molti dei passi danteschi, Landino applica l’interpretazione allegorica e filosofica elaborata nelle Disputationes Camaldulenses, servendosi anche di altri temi e motivi presenti in quel dialogo, nella ferma convinzione che l’Eneide e la Commedia condividano una stessa struttura di fondo: è proprio questa omologia strutturale a consentirgli di accostare il linguaggio e il pensiero di Dante a quelli virgiliani. La Commedia è ormai diventata a pieno titolo un classico e si configura come un’imitazione strutturale dell’Eneide, un’imitatio che contiene analogie nascoste, ma altamente significative; con il poema latino, che possono essere decodificate dal lettore istruito e dal commentatore. I passi delle Disputationes appena citati segnano il punto d'arrivo dello sfaccettato dibattito fiorentino sul valore di Dante come poeta volgare a confronto con i modelli classici: Landino risolve le tensioni fra volgare e latino presenti in Boccaccio, Salutati e altri, confutando l’idea – ancora diffusa – che Dante possedesse una scarsa o addirittura nessuna conoscenza dei classici latini. Per mezzo del concetto di imitatio, Landino sostiene che la relazione fra la Commedia e l’Eneide non riguarda semplicemente la presenza in Dante di consapevoli imitazioni virgiliane (il genere di interpretazione proposta da molti dei commentatori precedenti): piuttosto; le due opere condividerebbero la stessa struttura di base e lo stesso significato profondo. Con un'operazione sofisticata, Landino inquadra Dante in una nuova visione dell’autorità letteraria, suggerendo un rapporto di filiazione diretta da un autore antico, per giunta dei più illustri.
[...]
[...]
Prima di prendere in esame i casi specifici, è utile dare un’idea complessiva della struttura della chiosa di Landino e delle strategie ermeneutiche da lui adottate. Il commento divide ogni canto in blocchi di terzine, di cui fornisce un riassunto generale e/o un commento puntuale verso per verso, senza distinzioni fra l’interpretazione allegorica e quella letterale: tanto l’approccio generale quanto le suddivisioni devono molto al commento tardotrecentesco di Francesco da Buti. Obiettivo principale di Landino è fornire ai propri lettori soprattutto insegnamenti di carattere letterario ed enciclopedico: per chiarire le principali caratteristiche lessicali e sintattiche del poema, egli fa ampio uso della parafrasi e si cimenta di continuo in commenti linguistici e retorici ; risalta inoltre il suo interesse per l’etimologia . Si trovano poi lunghe digressioni su questioni legate alla storia antica e moderna, alla geografia e alle scienze, alla filosofia, alla teologia, al diritto, alla mitologia, alla musica e a molti altri argomenti. Naturalmente, passi di questo tipo compaiono in varia misura in quasi tutti i commenti danteschi precedenti, di cui Landino si giova ampiamente, ma sempre operando, come nel proemio, una propria sintesi, che riordina e aggiorna le letture precedenti. L'impiego di questa modalità esegetica, che spesso comporta una messe sterminata di informazioni e glosse, tradisce uno sguardo rivolto al passato, in contrapposizione a una lettura più mirata dei testi, intesi come artefatti i cui autori appartengono a un’epoca e a un contesto specifico, ovvero la forma di commento filologico che, nel contesto fiorentino, veniva promossa dall’allievo di Landino, Poliziano, nelle sue lezioni allo Studio .
Esamineremo più avanti i vari aspetti dell’approccio didattico ed enciclopedico di Landino. È invece a questo punto cruciale rilevare due caratteristiche particolarmente significative della Chiosa: la prima è l’attenzione prestata agli usi linguistici di Dante. Nei capitoli 4 e 5 abbiamo visto. il complesso di motivazioni patriottiche, ideologiche e linguistiche che informano la difesa landiniana della lingua fiorentina, un insieme che spiega la serietà e la precisione con cui vengono valutate le scelte lessicali del: poeta. Sono circa duecento i passaggi in cui Landino fornisce un commento linguistico dettagliato, individuando neologismi, latinismi, regionalismi c gallicismi, così come termini fiorentini caduti in disuso; i vocaboli derivanti dal latino, dal greco e persino dall’ebraico vengono puntualmente discussi. Per un certo numero di etimologie e definizioni, Landino è in debito con la tradizione esegetica – specialmente con le Esposizioni di Boccaccio, che, per quanto incompiute, forniscono un ricco commento lessicale – ma si spinge ben oltre i predecessori nell’offrire un ampio ventaglio di esempi e nello spiegare sistematicamente le etimologie greche e latine , secondo una prassi che probabilmente deve molto al materiale accumulato durante gli anni di insegnamento di retorica e poesia allo Studio. La profonda attenzione che Landino presta ai latinismi della Commedia dimostra come egli applichi alla lingua dantesca i precetti da lui stesso formulati secondo cui «niuno potrà essere nonché eloquente ma pure tollerabile dicitore nella nostra lingua se prima non arà vera e perfetta cognizione delle lettere latine» e «volendo arricchire questa lingua, bisogna ogni dì de’ latini vocaboli, non sforzando la natura, derivare e condurre nel nostro idioma» . I due passi che seguono — che non hanno precedenti o fonti nella prima esegesi — sono esempi lampanti della sensibilità di Landino nel trattare il tessuto linguistico della Commedia. Il primo glossa il riferimento per Dante al movimento natatorio di Gerione (Inf. XVI, 131), un'immagine di cui Landino rintraccia un antecedente virgiliano; il secondo si sofferma sulla terzina iniziale del Purgatorio con una lunga digressione sull’uso dantesco della metafora. Entrambi sono degni di nota per come evidenziano i profondi legami che intercorrono fra Dante e la poesia di Virgilio:
molti sono rimasi ingannati credendo, perché lui dice venir notando, quel luogho essere ripieno d’acqua; et non s’accorghono che lui imita Virgilio, el quale fa reciproca translatione dal mare all’aria. Onde dixe: «mare velivolum», i. «per quod velis volatur», et volare è solo nell’aria, et chosì dall’aria al mare, onde in Mercurio dixe «remigio alarum», benché e remi sieno solamente del mare. Similmente Danthe dixe venir notando benché el notatore sia proprio nell’acqua, et certo è mirabile fictione et al tutto degna della divinità di tanto ingegno [...] imperoché usando translatione et non proprii vocaboli accrescie degnità et auctorità alle chose come veggiamo in Virgilio et in molti altri poeti così greci come latini (Comento, vol. II, p. 717, rr. 21-29).
Et accioché meglio dimostriamo questo ornamento rhetorico diciamo tutte le parole, le quali usiamo, sono o proprie o traslate [...]. Alchuna volta sono tanto antiche che quasi rimangono fuori d’ogni consuetudine come «guari» et «sovente», che l’una et l’altra è fiorentina ma non sono più in uso [...]. Alcuna volta sono nuove et fabbricate da esso auctore chome quando Danthe dice «s’io m’intuassi chome tu t'inmii», imperoché innanzi a Danthe nessuno in lingua fiorentina disse «intuare» et «inmiare». Translate sono quando trasferiamo le parole dalla propria significatione in un’altra significatione non dissimile alla propria, chome qui el poeta dice la navicella del mio ingegno (Comento, vol. III, pp. 1037-9, rr. 16-18, 34-35, 39-43, 45-50) .
L'attenzione al commento linguistico è del tutto in sintonia con l’accorta allegoresi, seconda caratteristica principale del Comento ben presente lungo tutta la Chiosa. Come molti studiosi hanno mostrato, malgrado l’interpretazione allegorica landiniana debba molto a Buti, essa sviluppa interessi specifici e lo fa con accenti peculiari. Per quanto l’esegesi allegorica sia pervasiva, Landino non è quell’allegorizzatore inveterato che alcuni hanno stigmatizzato: in molti casi evita persino di offrire una lettura allegorica, se già fornita da altri. Quello che lo distingue dai suoi predecessori è l’uso massiccio dell’interpretazione allegorica al servizio di una lettura filosofica della Commedia , che si esplica principalmente nell’analisi dei personaggi di Dante e Virgilio e del rapporto fra essi, basata su categorie psicologiche quali l’appetito, l’intelletto, l’intelligenza, la «ragione» e i sensi (la «sensualità»). Un passo, estratto dalla chiosa a Inferno I, 61-66, illustra bene sia questo tipo di interpretazione complessiva, sia le categorie psicologiche impiegate:
acciocché nel processo del poema questo nome [sc. Virgilio] non c’induca in alchuno errore o difficultà d’intendere el senso allegorico, già in questo principio ci sia noto che non univoce ma equivoce sarà posto Virgilio, et alchuna volta non sonerà altro che questo poeta. Alchuna volta significherà la ragione humana semplicemente, et Danthe sarà la sensualità. Altra volta lo interpreterremo perlo.intellecto illustrato di varie et molte doctrine. Altra volta exprimerremo per quello la ragione superiore, et allora Danthe significherà non la sensualità sola, ma anchora la ragione inferiore (Comento, vol. I, p. 310, rr. 38-45) .
Questa lente interpretativa è all’opera in moltissimi passaggi delle chiose, specialmente quelle all’Inferno, dove il viaggio e ancor più le azioni, i gesti e i dialoghi di Dante e Virgilio vengono collegati a stati psichici. Landino riutilizza, adattandole alla Commedia, idee formulate in due dialoghi latini precedenti, ovvero richiama tutte le potenze dell’anima e della mente già discusse nel De anima e rielabora continuamente l’impalcatura esegetica delle Disputationes Camaldulenses, in cui il viaggio di Enea da Troia all’Italia era letto come l’ascesa della mente – attraverso una serie di processi mentali interiorizzati, caricati di un significato psicologico, morale e religioso — dal dominio dei sensi alla contemplazione divina. Un passo della chiosa di apertura a Inferno I chiarisce sia come Landino adatti questo filtro ermeneutico alla Commedia, sia la stretta relazione istituita tra il fine ultimo di Dante e quello di Virgilio e di Omero:
È verisimile adunque, che Danthe si proponessi il medesimo fine el quale et appresso de’ Greci Homero et appresso de’ Latini Virgilio s’havevono proposto. Et chome quegli l’uno per Ulixe, l’altro per Enea dimostrano in che modo venendosi nella cognitione de’ vitii et conosciutogli, purgandosi da quegli, s’arriva finalmente alla contemplatione delle chose divine, chosì Danthe sotto questo figmento per la peregrinatione finge haver facto con Virgilio, in persona di sé dimostra quel medesimo (Comento, vol. I, p. 284, rr. 84-91).