Dati bibliografici
Autore: Roberto Rea
Tratto da: Letteratura italiana. Dalle Origini a metà Cinquecento
Editore: Mondadori, Milano
Anno: 2018
Pagine: 143-150
Il primo canto dell’Inferno, che fa da proemio all’intera opera, racconta l’inizio del viaggio oltremondano. Nel mezzo del cammino della vita, Dante si ritrova in una «selva oscura», dopo aver smarrito la «diritta via» (vv. 1-12). In preda alla paura, si dirige verso la sommità di un colle illuminato dal sole, nel quale riconosce una possibilità di salvezza (vv. 13-30):
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
che la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura:
tant’è amara che poco è più morte!
Ma, per trattar del ben ch'io vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’io v’ho scorte .
Io non so ben ridir com'io v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.
(Inf. I, 1-18)
Il cammino viene però ostacolato dall’apparizione di tre fiere, una lonza, un leone e infine una lupa, che gli impedisce di proseguire oltre, respingendo il protagonista verso l’oscurità della valle. In soccorso del viator sopraggiunge il poeta latino Virgilio, che gli comunica la necessità di intraprendere un «altro viaggio» attraverso i regni oltremondani.
Nonostante la funzione di introdurre il lettore al racconto della Commedia e di spiegare le ragioni del viaggio, l’inizio della narrazione dantesca può apparire disorientante, se non reticente. In primo luogo non è chiaro se quella che è presentata come un’esperienza realmente vissuta sia una visione mistica: Dante dice che era «pien di sonno» quando entrò nella selva, senza precisare se si tratti metaforicamente di sonno della coscienza, come intendono i commentatori moderni, o se stesse dormendo, come intendono alcuni commentatori antichi (in tal caso la Commedia sarebbe una visio in somnis). Inoltre, il paesaggio appare privo di reale consistenza, è ridotto a elementi essenziali ed evanescenti: una selva, un colle, l’oscurità, la luce, le tre fiere. Infine, le coordinate spaziali e temporali, così come le indicazioni circa la stessa situazione, sono minime.
Già i primi commentatori riconobbero che il significato racchiuso nel testo della Commedia va al di là del suo valore letterale e include dei sovrasensi di carattere simbolico-allegorico. Letto in quest’ottica, il prologo acquista un significato compiuto. La selva rappresenta la condizione di smarrimento nel peccato; la «diritta via» è quella cristiana del bene; il colle illuminato è simbolo di salvezza; le tre fiere, che ostacolano il cammino, rappresentano le tre tentazioni diaboliche che possono impedire il raggiungimento della stessa salvezza: lussuria, superbia e avidità. Tale livello simbolico-allegorico nella scena proemiale tende quasi a prevalere su quello storico-letterale, diversamente da quanto accade nel resto del poema.
Prima di capire meglio cosa sia e come funzioni il senso allegorico, conviene soffermarsi su una componente fondamentale della lettera del testo, che in sé pure racchiude diversi livelli di significato. Agli occhi di un lettore colto medievale la scena proemiale doveva apparire comunque molto più pregnante di quanto non possa sembrare al lettore contemporaneo. La narrazione dantesca è infatti densa di allusioni e riferimenti intertestuali, sia alle Sacre Scritture sia alla letteratura classica, che caricano il testo di ulteriori significati. Il primo verso è una citazione biblica delle parole del re Ezechia, il quale, gravemente malato, viene salvato in punto di morte da Dio: «In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi» (Isaia 38, 10). L'immagine della selva del peccato rimanda alle Confessiones di Agostino: «In hac tam immensa silva plena insidiarum et periculorum» (X, 35). Quella della dritta via ricorda le parole di Cristo nel Vangelo di Giovanni: «Ego sum via, veritas et vita» (14, 6). Al verso 6, l’angoscia che si rinnova nel cuore di Dante nel raccontare lo smarrimento nella selva intende rievocare quella provata da Enea nel narrare l’ultima notte di Troia: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem» (Aen. II, 3). Le tre fiere alludono alle tre belve inviate da Dio a punire gli uomini in Geremia 5, 6 «percussit eos leo de silva lupus ad vesperam vastavit eos pardus vigilans super civitates eorum». Tale tecnica intertestuale è fondamentale per il funzionamento della rappresentazione della Commedia e per la sua stessa comprensione.
L’allegoria è un procedimento proprio della cultura medievale, che consiste nel riconoscere significati ‘altri’ rispetto a quelli espressi dalla lettera del testo. Dante stesso all’interno del poema in diverse occasioni richiama l’attenzione del lettore su valori riposti dietro la superficie della lettera:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame delli versi strani.
(Inf. IX, 61-63)
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
che ’l velo è ora ben tanto sottile
certo che ’l trapassar dentro è leggero.
(Purg. VIII, 19-21)
Nell’epistola XIII a Cangrande della Scala questo fondamentale aspetto del poema viene spiegato in modo articolato.
Come le Scritture, la Commedia è polisemica: presenta diversi livelli di senso. Questo non vuol dire che i tre livelli di significato che pertengono alla dimensione allegorica (secondo l’epistola: l’allegorico, il morale e l’anagogico) siano sempre presenti tutti assieme, né che ogni personaggio o episodio sia interpretabile in senso allegorico. In alcuni casi, come ad esempio per il sogno della «femmina balba» del XIX canto del Purgatorio oppure per la statua del Veglio di Creta descritta nel XIV dell’Inferno, la presenza di un significato simbolico-allegorico è pressoché ovvia. Ma ricercare a ogni passo significati allegorici o mistici può portare a sovrainterpretazioni che forzano la lettera del testo, la quale ha sempre in sé una propria coerenza e autosufficienza (il primo canto, in tale ottica, può essere considerato un caso limite). Tanto più che «il rapporto tra figura e figurato non è d’ordine convenzionale e arbitrario, ma è stabilito sul piano della realtà narrativa: Dante è un membro dell’umanità «che mal vive» [e quindi può allegoricamente rappresentare l’intera umanità], Virgilio è un eroe della ragione [e quindi può rappresentare la ragione stessa], Beatrice è una santa [e quindi può rappresentare la grazia o la teologia]» (Inglese). Solo sulla base di tale presupposto, il senso allegorico può talvolta arrivare a completare, ma non a obliterare, quello letterale, come visto per il primo canto e come accade ad esempio di fronte alle porte di Dite (VIII e IX canto dell’Inferno), dove il fatto che Virgilio venga respinto dai demoni rendendo necessario l’intervento di un messo celeste si comprende nella sua pienezza solo se si considera che la ragione, che il poeta latino rappresenta, da sola non può prevalere sul male.
A differenza dell’Eneide, il protagonista della Commedia non è un eroe classico ma un Io cristiano, che narra in prima persona una propria esperienza esistenziale. Per questa fondamentale impostazione del poema dantesco, non possiamo non pensare alle Confessioni di Agostino, storia di traviamento e conversione che costituisce l’archetipo dell’autobiografismo cristiano. Proprio Agostino viene citato nel Convivio per giustificare la scelta autobiografica del parlare di sé, lecita a un cristiano del Medioevo solo quando comporta agli altri «grandissima utilitade per via di dottrina» (Conv. I ii 14).
La prima persona di Dante riflette però, come già nella Vita nuova, un «Io» complesso. È importante almeno distinguere Dante-autore da Dante-personaggio. Il primo è l’auctor che racconta, in qualità di narratore onnisciente, il viaggio come un’esperienza vissuta e conclusa. In tali vesti Dante può intervenire per rimarcare l’irriducibile difficoltà di riferire ciò che ha visto o per tenere viva l’attenzione del lettore:
O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate.
O mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
(Inf. II, 7-9)
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’i’ potea tener lo viso asciutto
(Inf. XX, 19-20)
Il secondo è il viator, il personaggio protagonista del viaggio, la cui prospettiva, che è quella prevalente, è tutta interna al racconto e muta con il progredire della narrazione. Questa distinzione è molto utile alla critica moderna, ma sarebbe apparsa incomprensibile a Dante stesso, che per tutto il poema si sforza di rinsaldare la propria identità con il protagonista del viaggio, ovvero di ribadire la veridicità del suo racconto. Emblematico di tale strategia dantesca è il motivo dell’emozione rivissuta, in cui Dante-autore rievocando un evento afferma di risperimentare la stessa emozione provata allora: ad esempio, la fronte del poeta può bagnarsi ancora di sudore al ricordo dell’improvviso terremoto che gli ha fatto perdere i sensi sulla riviera dell’Acheronte:
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte che dello spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
(Inf. III, 130-132)
La dimensione autobiografica si impone sin dal primo verso («mi ritrovai»). A fondamento del viaggio ci sono figure appartenenti alla vita e alla formazione intellettuale di Dante. Il privilegio di visitare da vivo i regni oltremondani gli è stato concesso grazie alla donna amata in vita, Beatrice, che esorta Virgilio a soccorrere «l’amico mio, e non della ventura» (Inf. II, 61). È lei che lo accoglie sulla cima del Purgatorio e lo guida attraverso i cieli del Paradiso, non senza averlo prima duramente rimproverato per aver ceduto alla seduzione delle cose mondane dopo la sua morte: «Ben ti dovevi, per lo primo strale / delle cose fallaci, levar suso / di retro a me che non era più tale...» (Purg. XXXI, 55 ss.). Fin lì Dante è stato condotto da Virgilio, il massimo poeta latino: la sua fama è universale, ma Dante nel riconoscerlo gli si rivolge come a «lo mio maestro e ’l mio autore», cui ha dedicato «lungo studio e ’l grande amore» (Inf. I, 82-87). Tra le anime incontrate durante il cammino, numerosi sono gli amici e i concittadini con cui Dante ha condiviso stagioni della propria vita. Come il maestro Brunetto, davanti al quale Dante non sa nascondere la propria commozione, nonostante questi sia dannato tra i sodomiti: «Siete voi qui, ser Burnetto?» (Inf. XV, 30 ss.); il musico Casella, che lo abbraccia e intona, come soleva fare in vita, una sua canzone: «Io vidi una di lor trarresi avante / per abbracciarmi, con sì grande affetto...» (Purg. II, 76 ss.); l’amico Forese Donati, il cui viso stravolto dalla magrezza rinnova il dolore per la sua perdita: «La faccia tua, ch'i’ lacrimai già morta, / mi dà di pianger mo’ non minor doglia...» (Purg. XXIII, 55 ss.). Né mancano riferimenti alla vita del poeta, dalle profezie post eventum riguardanti il suo esilio, al ricordo della sua partecipazione all’assedio di Caprona, fino ad aneddoti minori, come la rottura di un battezzatoio nel Battistero di San Giovanni: «l’un deli quali, ancor non è molt’anni, / rupp’io per un che dentro v’annegava» (Inf. XIX, 19-20).
Nella stessa esperienza autobiografica risiedono le ragioni del percorso di redenzione. Dante-personaggio intende sempre essere Dante Alighieri in carne ed ossa, con la propria sofferta vicenda interiore. Così, ad esempio, come era ben chiaro ai commentatori antichi, le tre fiere che incontra nel proemio rappresentano i tre vizi che hanno rischiato di perderlo — il cedimento alla seduzione delle «cose fallaci» che gli viene rimproverato da Beatrice —, prima che i tre grandi vizi dell’intera umanità. Le stesse reazioni del viator di fronte ad alcuni peccati nell’Inferno e nel Purgatorio riflettono la personale vicenda etica dell’autore, rivelandone l’urgenza di espiazione. Come aveva ben compreso Boccaccio, il poeta si mostra «passionato», cioè prova forti emozioni, come la paura, la vergogna, la compassione, soprattutto quando è costretto a confrontarsi con peccati che riconosce come propri. Così, la tanto discussa pietà che Dante manifesta verso alcuni dannati, come i lussuriosi Paolo e Francesca nel quinto canto dell’Inferno, esprime, in primo luogo, il rimorso di essersi macchiato della medesima colpa.
Su un piano più ampio, il viaggio dantesco intende farsi portatore di un messaggio universale. La critica ha da tempo evidenziato come Dante-personaggio voglia comunque essere al tempo stesso «Everyman», ‘qualsiasi uomo’ (Singleton): la sua esemplare vicenda di salvezza riguarda l’umanità intera. Questa connotazione oggettiva del poema pertiene soprattutto alla dimensione allegorica, come pure sottolineato nell’epistola XIII:
Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est. (Epistola XIII, 25)
[Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina.]
Nell’immensa costruzione della Commedia ogni uomo deve dunque riconoscere la propria vicenda terrena, per imparare a emanciparsi dai propri vizi e aspirare alla ricompensa divina. Tuttavia, a differenza di quanto accadrà con Petrarca, che, pure sulla scia di Agostino, offrirà al lettore la propria storia di traviamento e salvezza a titolo esemplare (vd. infra, Capitolo 2, §3), l’esperienza dantesca non richiede una vera e propria identificazione. Dante presenta il suo viaggio come un’esperienza unica e irripetibile. Il poeta è colui che, in virtù del suo alto ingegno, e in virtù della sua fede, ha avuto l’eccezionale privilegio di vedere cose straordinarie e di trasmetterle all’umanità per la salvezza universale.
La missione salvifica di cui il poeta si fa carico pone una questione dibattuta fin dai primi commentatori: il poema, nelle intenzioni dell’auctor, va interpretato come una mera finzione letteraria o come una sorta di esperienza mistica, alla stregua di una visione veritiera? Dante si riteneva un poeta o un profeta? In realtà, nella cultura medievale questi due ruoli non sono affatto alternativi. Basti pensare alle virtù profetiche attribuite a Virgilio e alla sua Eneide: «l’alta poesia ha avuto e ha, per divina concessione, la possibilità di ‘sognare’ verità di ordine storico-provvidenziale altrimenti irraggiungibili dall’intelletto umano» (Inglese). Per il resto, non ci sono dubbi sul fatto che Dante nella Commedia assuma un’attitudine profetica. Oltre che numerose profezie post eventum, riguardanti cioè eventi biografici o storici già verificatisi al momento della composizione del poema, come ad esempio quelle che annunciano il suo esilio, Dante formula le enigmatiche profezie sull’avvento di un salvatore, verosimilmente un imperatore, indicato come un «veltro» in Inf. I, 101 e come un «Cinquecento diece e cinque» in Purg. XXXIII, 43, che in un futuro prossimo giungerà in soccorso dell’umanità. Ma, soprattutto, il poeta si fa esplicitamente investire di una missione profetica in una serie di incontri cruciali: da Beatrice sulla montagna del Purgatorio («ritornato di là, fa che tu scrive»), dall'anima del suo avo Cacciaguida in Paradiso («tutta tua vision fa manifesta»), e infine dallo stesso san Pietro, che gli affida le sue verità provvidenziali perché le riveli al mondo corrotto:
Ma l’alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto — sì com’io concipio ;
e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca ,
e non asconder quel ch’io non ascondo
(Par. XXVII, 61-66)
È difficile dire fino a che punto Dante credesse a sé stesso, ma è certo che, come ha osservato Padoan, «un cristiano, e non solo del secolo XIV, che abbia la fede profonda e sincera dell’Alighieri, non si gioca l’anima dichiarando che San Pietro gli ha ordinato di riferire agli uomini le sue parole, e quali parole!, solo per fare della ‘poesia’» (Padoan). Sulla base di tali presupposti non pare ammissibile che Dante attribuisse alla sua Commedia soltanto il valore artistico proprio della fictio letteraria, e non quello spirituale-profetico proprio della visio. Tanto più che tale tipo di esperienza nella cultura medievale è molto meno remota di quanto non possa sembrare ai lettori moderni. Immaginazioni, sogni e visioni veritiere, anche in stato di veglia, erano ammesse non solo dalla letteratura religiosa, sulla scorta di quelle di san Paolo e del profeta Ezechiele nelle Scritture, ma anche dalla tradizione filosofica aristotelica, come asserito ad esempio da Alberto Magno nel commento al De somnio et vigilia aristotelico. Difatti, alcuni antichi commentatori, come Guido da Pisa, non avevano dubbi a proposito dell’ispirazione divina del poema: «Dante fu la penna dello Spirito Santo, con la quale penna lo Spirito ci descrisse le pene dei dannati e la gloria dei beati». Insomma, anche se mancano elementi formali e strutturali per riconoscere nel poema una vera e propria visione mistica, non è affatto inverosimile pensare che Dante, per quanto costruisca il suo capolavoro sfruttando ogni possibile artificio letterario, ritenesse la sua parola poetica, come quella dei profeti biblici, intimamente ispirata dallo Spirito Santo. Al pari di quando, interrogato circa la sua esperienza di poeta volgare, risponde di limitarsi a trascrivere ciò che Amore gli detta interiormente, presentandosi così nelle vesti di scriba Dei (Purg. XXIV, 52-54). Tanto più che Dante di fatto rivendica una partecipazione divina al proprio atto creativo quando afferma senza mezzi termini che al «poema sacro» «ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2).