Dati bibliografici
Autore: Francesc J. Gómez
Tratto da: Ortodossia ed eterodossia in Dante Alighieri. Atti del convegno di Madrid, 5-7 novembre 2012
Editore: Ediciones de la Discreta, Madrid
Anno: 2014
Pagine: 831-856
[Questo studio si inserisce nel progetto FFI2011-27844-C03-03 (UAB) finanzia to dal Ministerio de Ciencia e Innovaciòn]
La teoria ermeneutica espressa nel secondo trattato del Convivio e nell’Epistola a Cangrande, ma anche nel quarto canto del Paradiso, ha com’è noto un doppio fondamento nella distinzione teologica dei quattro sensi della Scrittura e nella giustificazione neoplatonica del mito filosofico come narratio fabulosa, integumentum o involucrum di una verità nascosta.
Lo schema abituale nell’insieme del Convivio consiste nella distinzione di due livelli di lettura: il primo è esteriore, fittizio e letterale; l’altro è interiore, vero e allegorico (I, 1, 18; II, xii, 1, 8 e 10; xv, 2 e 12). Ciononostante, è anche ben noto che nel secondo trattato del Convivio (II, 1, 2-7) Dante introduce l'esposizione della canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete sovrapponendo la distinzione poetica tra «littera fittizia» e «allegoria vera» allo schema dei quattro sensi della Scrittura sacra. Una parte dello schema dantesco è perfettamente conforme alla dottrina ermeneutica dei teologi: Dante illustra il senso morale e quello anagogico (§§ 6-7) con due esempi biblici quali sono la Trasfigurazione di Cristo e l’Exitus Israel de Egypto, e, inoltre, definisce il senso anagogico come un senso spirituale o ‘sovrasenso’ che può fondarsi su un senso storico vero, cioè come una verità spirituale significata da una verità storica. Più avanti, nella seconda parte di questo capitolo (II, i, 8-15), Dante afferma e giustifica la priorità dell’esposizione letterale, che è anche un principio fondamentale dell’ermeneutica teologica. Invece, dovendo spiegare il senso allegorico (§§ 4-5), Dante rinuncia esplicitamente alla nozione teologica di allegoria, intesa come typologia o prefigurazione veterotestamentaria del Vangelo, per sostituirci il concetto poetico-filosofico di integumentum, esemplificato in modo cospicuo dal mito di Orfeo.
Questa contaminazione di schemi eterogenei non è esente da difficoltà. Nell’ermeneutica sacra sono tutti i sensi spirituali, e non solo quello anagogico, a fondarsi sulla significatio rerum della Scrittura sacra, il cui sensus litteralis è poi sempre vero pet chi sa interpretare il parlare figurato della Bibbia, compreso nella significatio vocum. Per contro, l’allegoria dei poeti è, nelle parole di Dante, una «veritade ascosa sotto bella menzogna» (Cv. II, i, 4), una definizione che appartiene alla fabula e che nessun teologo avrebbe mai accettato di applicare al parlare figurato della Scrittura. Inoltre, quel modo di espressione figurata che nella tradizione poetica e mitografica viene chiamato allegorico, nell’ermeneutica teologica spetta invece al sensus litteralis. I conti non tornano: littera e allegoria sono due termini equivoci che non consentono una vera equiparazione tra le scritture sacra e profana come formulata nel Convivio.
Nella parte introduttiva dell’Epistola a Cangrande, quella composta sullo schema dell’accessus ad auctores, l’autore — o Dante, per ipotesi — afferma la dimensione polisemica della Commedia (VII, 20-22) e il suo duplex subiectum (VIII, 23-25) corrispondente al suo doppio livello di senso: letterale e allegorico. Il subiectum della Commedia, nella sua accezione letterale, consiste in una descrizione dello «statum animarum post mortem», cioè della vita futura dell'anima umana dr statu recipiendi; nella sua accezione allegorica ha invece un carattere eminentemente morale, relativo alla vita dell’uomo in statu merendi.
L’immenso balzo che separa questa impostazione teorica da quella del Convivio è un chiaro riflesso di quello compiuto dalla tecnica fittiva della Comedia. Mentre che nelle canzoni del Convivio l’allegoria oppone la «bella menzogna» del senso letterale alla «vera sentenza» del senso allegorico, il senso letterale della Commedia accoglie fatti, realtà fisiche e personaggi storici, addirittura coetanei del poeta, entro una cronologia precisa e una cosmografia concreta. La littera della Comedia non è una «bella menzogna», ma una finzione verosimile con componenti storici e reali, ed è anche un'ipotesi attendibile sull’aldilà, poiché fondata sui dati della rivelazione scritturale, la tradizione cristiana, il magistero ecclesiastico, la filosofia, il diritto e la teologia. Il senso allegorico della Comedia si fonda dunque sul senso letterale — bisogna sottolineare — senza cancellarlo né sostituirlo. Superando il modello della finzione allegorica medievale, rappresentata principalmente dall’Anticlaudianus di Alano di Lilla, Dante assorbe il modello di finzione storica, razionale e filosofica dell’Aeneis virgiliana, secondo l’esegesi attribuita a Bernardo Silvestre (1977: 3):
Scribit ergo in quantum est philosophus humane vite naturam. Modus agendi talis est: in integumento describit quid agat vel quid paciatur humanus spiritus in humano corpore temporaliter positus. Atque in hoc describendo naturali utitur ordine atque ita utrumque ordinem narrationis observat, artificialem poeta, naturalem philosophus (Commentum super sex libros Eneidos Virgili).
e lo trascende appunto come cristiano mercé i dati della rivelazione. La rivelazione divina è quello che consente al modello filosofico della poesia virgiliana di diventare teologico nella poesia di Dante, in modo che la sua Comedia sia in grado di rivendicare una polisemia analoga a quella della Scrittura:
[20] istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; nam prizzus sensus est qui babetur per litteram, alius est qui babetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis [sive anagogicus]. [21] Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in istis versibus [Ps 113, 1-2]: «In exitu Israel de Egipto, domus Iacob de populo batbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius». Nam si ad litteram solam inspiciamus, [...]; si ad allegoriam, [...]; si ad moralem sensum, [...]; si ad anagogicum, [...]. [22] Et quomodo isti sensus mistici variis appellantut nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitut ab ‘alleon’ grece, quod in latinum dicitur ‘alienum’ sive ‘diversum’ (Epistola a Cangrande VII, 20-22; corsivo mio).
Su questo passo così noto vorrei proporre ancora un palio di riflessioni. L'autore definisce la Commedia come un opus polisemos per il fatto di possedere due livelli di senso: «primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram». Bisogna sottolineare il valore perfettamente calcolato di questa distinzione e di queste definizioni. È vero che subito dopo, «ut melius patea» questo «modus tractandi», l’autore propone un celebre esempio di applicazione teologica dei quattro sensi della Scrittura allo stesso lous veterotestamentario che nel Convivio aveva illustrato il senso anagogico: l’esodo di Israele dall'Egitto, che molto si addice all’iter oltremondano di Dante, come osservato dal Singleton (1978: 34). Questo esempio gli permette di spiegare tutto il ventaglio dei sensi mistici (allegoricus, moralis e anagogicus) che Dio ha potuto depositare dentro a una littera rigorosamente historialis. Ciononostante, l’autore conclude affermando la possibilità di ridurre questi tre «sensus mistici [...] a litterali sive historiali diversi» alla denominazione comune di allegoria. Tale riduzione era certamente prevista dai teologi, poiché qualunque senso altro veniva definito come allegoria. Ritengo però che la intenzione fondamentale dell’autore non fosse quella di proporre una quadruplicità di sensi nella Commedia, ma di istituire una duplicità di senso, e quindi di subiectum, ricavando dal modello teologico un espediente nozionale capace di superare la definizione poetica del sensus litteralis come «bella menzogna». Il primo senso della Commedia viene da lui definito come quello «qui habetur per litteram», cioè quello che nella parte esegetica dell’Epistola si dichiara mediante un’expositio littere destinata a ragionare tutti i componenti retorici e concettuali dei primi versi del Paradiso. L’altro senso è quello «qui habetur pet significata per litteram», perché i significati del senso letterale, elucidati dall’expositio littere, sono ulteriormente significanti di un ‘altro’ significato e fondamento di un’esposizione ‘diversa’. Il primo senso «dicitur litteralis», mentre che il secondo è quello «allegoricus sive moralis [sive anagogicus]».
La mia seconda riflessione riguarda proprio quest’ultima denominazione, in cui tutte le edizioni recentiores hanno colmato col terzo termine sive anagogicus una vera o presunta lacuna comune alla totalità dei testimoni e anche alla tradizione indiretta dell’epistola. Iacomo della Lana e Guido da Pisa — dipendenti l’uno dall’altro — e poi anche Filippo Villani, che usufruiscono largamente di questo accessus, non citano purtroppo questo passo che invece Boccaccio traduce alla lettera: «Il secondo senso è “allegorico” o vero “morale”» (Esposizioni alla Commedia I, ii, 19), intanto che, come vedremo, Pietro Alighieri definisce «moraliter et allegorice» la seconda causa materialis della Commedia. A loro due non parve assurda l’equiparazione dei sensi allegorico e morale senza riferimento a quello anagogico. Mi chiedo dunque se la integrazione per congettura del terzo termine sive anagogicus sia veramente necessaria, cioè se entrasse nelle intenzioni dell’autore a quell’altezza dell’epistola. Ciò non toglie, ovviamente, il fatto che tutti i commenti che descrivono la polisemia della Commedia sulla scia dell’Epistola a Cangrande propongono di applicare alla scrittura dantesca lo schema dell’ermeneutica teologica. Iacomo della Lana e Guido da Pisa addirittura sostituiscono all’esempio biblico dell’Esodo il petsonaggio mitico di Minosse, interpretandone la quadruple significazione. E Pietro Alighieri propone uno schema amplificato di sette sensi, parzialmente modificato da Filippo Villani e integralmente assunto dal Nidobeato (Stefanin 2001: 189-190).
A questo punto bisogna rilevare alcuni aspetti non direi sovversivi ma certo problematici di questa analogia ermeneutica. Alano di Lilla aveva preceduto Dante, o chiunque sia l’autore dell’Epistola, nell’attribuire al suo Anticlaudianus i tre sensi della Scrittura abituali nella teologia del secolo XII e nelle sue stesse opere teologiche: litteralis, moralis e allegoria, eventualmente sottodivisa in allegoria simplex e anagogia. Da un punto di vista rigorosamente teologico, petò, solo Dio è capace di depositare un senso occulto nella storia (significatio rerum), pet cui soltanto la Scrittura sacra ha propriamente tre sensi mistici o spirituali fondati su un veto sensus historicus, come afferma Tommaso d’Aquino:
auctor sacrae Scripturae est Deus, in cuius potestate est ut non solum voces ad significandum accommodet (quod etiam homo facere potest), sed etiam res ipsas. Et ideo, cum in omnibus scientiis voces significent, hoc habet proprium ista scientia [sc. la teologia], quod ipsae res significatae per voces, etiam significant aliquid. Illa ergo prima significatio, qua voces significant res, pertinet ad primum sensum, qui est sensus historicus vel litteralis. Illa vero significatio qua res significatae per voces, iterum res alias significant, dicitur sensus spiritualis; qui super litteralem fundatur, et eum supponit (Summa theologiae I, q. 1, a. 10; corsivo mio).
L’uomo può infatti depositare un senso occulto nelle figure del linguaggio (significatio vocum), ma questo modus significandi spetta al senso letterale, il massimo a cui può aspirare una scrittura umana priva dell’intervento divino tramite l’ispirazione profetica. Le pretensioni polisemiche della Commedia potevano quindi venite interpretate come un’affermazione eterodossa del carisma profetico di Dante. Di ciò pare fosse ben consapevole l’autore dell’Epistola quando nella definizione del senso allegorico della Commedia ometteva la parola res delle definizioni teologiche del senso spirituale. Secondo lui, il senso allegorico della Commedia «habetur per significata pet litteram»; secondo san Tommaso, il senso spirituale della teologia, «qui super litteralem fundatur, et eum supponit», è quella «significatio qua res significatae per voces, iterum res alias significant».
La definizione dell’Epistola consente quindi di parlare di un vero senso allegorico quando il significato della lettera è significante di un significato ulteriore, senza richiedere però che questo significato letterale corrisponda a una res gesta o storica (Pépin 1999: 59); per cui un autore umano è in grado di depositare un senso occulto dentro al senso letterale della sua finzione verosimile, imitando il privilegio esclusivo di Dio di depositarlo nella storia reale (Singleton 1978: 32- 35). Ecco la grande sfida intellettuale di Dante: fingere un mondo come Dio, speculando le sue leggi, e pervaderne la narrazione di un alto senso allegorico e morale.
Non meno controverse potevano riuscite però le aspirazioni intellettuali della Commedia pet quanto riguarda il suo sensus litteralis. Cecco d’Ascoli ironizzò aspramente nella sua Acerba (I, ii, 55-66 [141- 152]) contro l'emulazione dantesca del descensus ad inferos di Enea e del raptus in paradisum di san Paolo, affermata come verità nei versi esordiali del Paradiso (I, 4-12):
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’ io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
Infatti, nell’exposiztio littere dell’Epistola a Cangrande (XXVIII-XXIX, 78-84) l’esegeta sosteneva in modo acceso l’elevatio intellectus in Deum descritta nel Paradiso e sentenziava: «Vidit ergo, ut dicit, aliqua que referre nescit et nequit rediens» (XXIX, 83). Secondo lui, non solo il raptus di san Paolo al terzo cielo, ma anche la trasfigurazione di Gesù (Mt. 17, 6) e la visio gloriae Dei del profeta Ezechiele (Ez. 2, 1) confermano la possibilità dell’esperienza dantesca. Ma poiché questi paralleli scritturali non avrebbero soddisfatto appieno alcuni «invidi» suoi detrattori, trai quali indoviniamo il profilo di un Cecco d’Ascoli — e non è da escludere che, se dantesca, l’Epistola fosse pervenuta alla conoscenza di Cecco, se anche il suo oppositore Giovanni Quirini sollecitava Cangrande alla divulgazione dei primi canti del Paradiso (Duso 2007) —, l’esegeta li rimanda alle dottrine di sant'Agostino, di san Bernardo e di Riccardo di San Vittore sulla contemplazione intellettuale, e ricorda loro che una visione in sogno fu concessa anche a un peccatore quale il re Nabucodonosor (Dn. 2, 3).
Critici persuasi della paternità dantesca dell’Epistola (Alighieri 1995e: xxi n. 1 e xxi-xxiii) sono anche convinti che Dante rivendicasse in queste parole la natura ispirata o profetica della sua visione. Non è da escludere questa possibilità, ma credo che forse sia stato un po’ trascurato il fatto che la funzione dell’expositio littere è rendere chiaro il fondamento reale — filosofico e teologico — di quel fenomeno raccontato dalla littera, cioè il raptus di Dante-personaggio all’Empireo, anche nel caso che questo racconto consista in un integumentum.
Va osservato, in primo luogo, che il richiamo esplicito dell’esegeta ai trattati di Agostino, Bernardo e Riccardo ci invita a interpretare la visto dantesca come un itinerarium mentis in Deum, cioè come un’esperienza contemplativa, la quale, eccedendo la capacità delle potenze superiori dell’anima incarnata (intelletto, volontà, memoria), richiedesse l’appoggio dell’immaginazione corporale al fine di rimontare per visibilia ad invisibilia Dei.
Si badi poi che alla fine di questo stesso capitolo dell’Epistola a Cangrande (XXIX, 84), nel chiosare proprio l’ineffabilità della visione escatologica, l’autore si rifà a un paragone non biblico né cristiano ma tanto significativo come gli inzegumenta della tradizione platonica: «Multa namque per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt: quod satis Plato insinuat in suis libris per assumtionem metaphorismorum; multa enim per lumen intellectuale vidit que sermone proprio nequivit exprimere» (corsivo mio). La visione intellettuale di Dante e le sue difficoltà di espressione vanno considerate analoghe a quelle di Platone: l’incapacità del linguaggio umano di esprimere propriamente certi intelligibilia è conseguenza della necessità dell’intelletto incarnato di fare ricorso a immagini sensibili (cioè metaphoriszi) per comprendere certi oggetti spirituali.
In Paradiso IV Beatrice invoca proprio questo principio per giustificare un elemento costruttivo fondamentale della visione dantesca: la manifestazione successiva delle anime beate in diverse sfere planetarie (vv. 37-48):
Qui si mostrato, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestial [spiritual al. codd.] c’ha men salita.
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;
e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabriel e Michel vi rappresenta,
e l’altro che Tobia rifece sano.
E nella cornice di questo argomento (vv. 22-24 e 49-63) Beatrice ricorda il mito del Timeo platonico sull’origine e destino stellare dell’anima umana e lo difende dalle riserve espresse dall’aristotelismo: il mito infatti può indurre in errore se viene interpretato ad litteram, ma nasconde una verità che Platone volle preservare dalla deturpazione dei non iniziati (Dronke 1990: 45-53). L’integumentum platonico ha quindi, com’è noto, una doppia giustificazione: ‘propedeutica’, pet rendere visibile l’invisibile mediante un'immagine, ed ‘esoterica’, pet preservare la dignità delle verità spirituali.
A mio parere, sia il canto quarto del Paradiso che l’expositio littere dell’Epistola a Cangrande intendono affermare che Dante contemplò intellettualmente certi invisibilia Dei che nessun uomo avrebbe potuto esprimere sermone proprio, per cui dovette fare ricorso a immagini sensibili analoghe ai metaphorismi di Platone e della Scrittura. La visione come esperienza intellettuale e contemplativa si verificò realmente, anche se l’iter del personaggio è un integumentum di questa visione, come lo sono le apparizioni successive delle anime beate nelle diverse sfere celesti. Credo che sia questa la posizione genuina di Dante, coerente in ambedue le opere.
Questa soluzione offriva di certo alcuni aspetti discutibili dal punto di vista dei teologi. È vero che san Tommaso aveva ammesso la coincidenza della poesia umana e della Scrittura sacra quanto all’uso di simboli, metafore o figure corporali, sebbene riservò esclusivamente alla Scrittura la giustificazione propedeutica invocata da Beatrice — secondo lui, al parlare figurato la Scrittura vi fa ricorso perché la verità delle cose divine eccede la capacità dell’intelletto umano; la poesia umana lo fa soltanto per compensare un difetto di verità —, intanto che la giustificazione esoterica del mito platonico veniva anche applicata alle metafore corporali della Scrittura. Dante però sapeva benissimo che l’integumentum platonico veniva considerato sia da Aristotele che da san Tommaso un «malum modum docendi» (In De anima I, 1, lect. 8; In De caelo I, 10, lect. 22) perché poteva indurre in interpretazioni eterodosse. Questo giudizio antiplatonico divenne un luogo comune, tenuto ben in conto dai teologi che intendono giustificare la dimensione intellettuale del linguaggio poetico, come il domenicano Nicola Trevet (In Boethium III, m. 11, 9) e il carmelitano Guido da Pisa a proposito di Omero (In Inferno IV, 88; Rigo 1977: 203-204 n. 27). Inoltre, non sono pochi i teologi commentatori, come lo stesso Guido da Pisa e l’Anonimo Teologo domenicano (Mezzadroli 1992: 138-153, partic. 149), che difendono i passi più controversi della Commedia rilevando la necessità di discernere il vero nascosto dietro all'immagine poetica. Persino l’inquisitore francescano Accursio Bonfatini, membro del tribunale che condannò al rogo Cecco d’Ascoli, ebbe a difendere la finzione dantesca della pena dei suicidi (If. XIII, 82-108), forse avversata da qualche calunniatore. Per contro, un buon esempio della diffidenza di alcuni teologi di fronte al modum docendi della poesia è quello fornito dal vescovo domenicano sant’Antonino da Firenze, il quale pose esplicitamente il problema della necessaria discrezione ermeneutica nel caso di un testo non latino ma volgare e così popolare quanto la Commedia: «Quia cum liber ille sit in vulgari compositus et a vulgaribus frequentata lectio eius et idiotis [...], nec sciant discernere inter fictionem et veritatem rei |...]» (Mésoniat 1984: 83).
In questo proposito vorrei aggiungere che, nella Catalogna di metà Quattrocento, il teologo francescano Joan Pasqual indirizzò a un pubblico laico di cittadini un trattato teologico sulle pene infernali costituito sulla base dell’Inferzo dantesco e la prima redazione del Comentum di Pietro Alighieri (Gómez 2005, 2013a e 2013b). L'interesse teologico di questo Tracat de les penes particulars d’infern è tutto incentrato in quello che l’Epistola a Cangrande definisce come il subiectum letterale della Comzedia, cide la descrizione dello «statum animarum post mortem», anche se la descrizione escatologica consente anche una lettura morale. Conformemente allo schema teologico dominante, quello dei quattro luoghi infernali (limbus patrum, purgatorium, limbus puerorum e infernus damnatorum), Joan Pasqual reintegrò il Purgatorio nell’Inferno, negò come sant’Antonino e tanti altri la verità letterale del vestibolo degli ignavi e del limbo dei pagani virtuosi, e discusse alcuni particolari dell’ ordinamento morale dell’Inferno, come la posizione relativamente alta assegnata agli eretici o il relativo disordine di Malebolge. Ciononostante, il suo trattato suppone una sanzione teologica — non certo universitaria, ma divulgativa e pastorale — dell’ipotesi escatologica dantesca. Nel fare ciò, Pasqual ebbe l'appoggio determinante di un commento che, sul modello dell’Epistola a Cangrande, aveva definito e applicato con la massima discrezione non solo la polisemia della Commedia e il suo doppio subiectum, ma anche la portata precisa del suo sensus litteralis.
Nella prima redazione del suo Commentun Pietro Alighieri intese aggiustare con precisione gli strumenti dell’esegesi poetica per preservare la Commedia da fraintendimenti o da accuse di etereodossia motivati da un letteralismo ingenuo o malintenzionato (Gómez 2009: 221- 222). Tutto ciò è assai manifesto nell’accessus del suo «Proemium», sul quale è stata da tempo segnalata l’influenza dell’Epistola a Cangrande e dell’accessus di Trevet alla sua Expositio dell’Hercules furens di Seneca (Mazzoni 1963a: 296-305; Jenaro-MacLennan 1974: 86-104).
La parte centrale del Proemium consiste infatti in un’introduzione generale alla Commedia in cui vengono soddisfatte sei richieste conformi ai canoni medievali dell’accessus ad auctores: le quattro cause aristoteliche, la giustificazione del titolo e l’abituale suppositio dell’opera all’etica. Ebbene: Pietro si accorda con il duplex subiectum dell'Epistola nell’attribuire alla Comedia una doppia causa materialis, poiché la descrizione dantesca dei tre regni dell’aldilà consente una chiave di lettura locale e reale, cioè essenziale, e anche un’altra morale e allegorica, pet cui la descrizione escatologica è da interpretare come una figura delle diverse condizioni morali dell’uomo in questa vita. Invece la forma tractandi, canonicamente compresa nella causa formalis accanto alla forza tractatus, è la rubrica sotto la quale Pietro spiega nel modo più originale, non lo schema dei dieci ‘modi’ convenzionali dell’Epistola (IX, 27: «Forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus et descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus et exemplorum positivus»), ma la polisemia della Commedia, ampliando lo schema teologico dei quattro sensi della Scrittura fino a distinguere un totale di sette sensus, intesi anche come sette modi loquendi dell’autore:
Forma tractandi est septemcuplex, prout septemcuplex est sensus quo utitur in hoc poemate noster auctor. NAM PRIMO utitur quodam sensu qui dicitur literalis sive superficialis et parabolicus. Hoc est quod scribet quedam que non importabunt alium intellectum nisi ut litera sola sonabit. Nam non omnia hic scripta includunt sententiam, sed propter verba sententiam et figuram importantia inseruntur. Unde Augustinus in XV° De civitate Dei ait: «Nom omnia que gesta natrantur significare aliquid putanda sunt, sed propter illa que aliquid significant attexuntur. Solo vomere terra perscinditut, sed ut hoc fieri possit etiam cetera alia membra aratri sunt necessaria». Et ut scribitur in Decretis: «Licet in Veteri Lege multa sub figura ponantur, tamen quedam ad litteram sunt solum intelligenda, ut in precepto illo “non occides, non mecaberis...’», etc.
SECUNDO utitur quodam sensu qui dicitur ystoricus, dictus ab ystoria, que ystoria dicitur ab ystorion, quod est ‘videre’, ex eo quia ea que in ystoria narrantur ac si essent subiecta visui declarantur, et continet res veras et verisimiles. Nam hec vox Yerusalem ystotice intelligitur ipsa civitas terrestris, que est in Syria in illa parte que dicitur Palestina, et cius gesta.
TERTIO utitur quodam sensu qui dicitur 4pologogicss. Apologus est oratio que nec veras nec verisimiles res continet; est tamen inventa ad instructionem transuntivam hominum. Unde Phylosofus [Top. VI, 2, 140a 10-11]: «Transferentes secundum aliquam similitudinem transferun». De quo stilo ait Oratius sic in Poetria [vv. 309, 338-339, 343, 333]: «Scribendi recte sapere est et principium et fons»; «Ficta voluptatis causa sint proxima veris, / nec quodcumque velit poscat sibi fabula credi»; «Omne tullit punctum qui miscuit utile dulci»; «nam prodesse volunt aut delectare poete», ut etiam facit iste auctor reducendo fabulas tales ad nostram informationem. Et differt a fabula, que dicitur a fado, que nil informationis habet nisi vocem; tamen poeta eis fabulis utitur aut delectationis causa aut rerum naturam ostendendo aut propter mores informandos, secundum Ysidorum Ethymologiarum [I, 40, 1-3]. De cuius speciebus vide Macrobium De somnio Scipionis, circa principium [Comm, I, 2, 7-11].
QUARTO utitur alio sensu qui dicitur methaforicus. Qui dicitut a metha, quod est ‘extra’, et fora ‘naturam’, unde methafora quasi ‘oratio extra naturam’, ut cum auctor noster fingit lignum loqui, prout facit infra in XIII° capitulo Inferni.
QUINTO utitur alio sensu qui dicitur alegoricus. Qui dicitur quasi ‘alienus’, nam alegoria dicitut [ab] aleon, quod est ‘alienum’. Et differt a methaforico supradicto, quia alegoricus loquitur intra se, methaforicus extra se. Ut ecce hec vox Yerusalem, que ystotice, ut dixi, pro tetrestri civitate accipitur, alegorice pro Ecclesia Dei militante. Et scribitur alegorice quando per id quod factum est intelligitur aliud quod factum sit. Ut ecce de duello David cum Golia, quod significat bellum comissum per Christum cum diabolo in ara crucis. Sic et cum auctor iste dicit se descendisse in infernum per fantasiam intellectualiter, non petsonaliter, prout fecit, intelligit se descendisse ad infimum statum viciorum, et inde exisse, etc.
SEXTO utitur alio sensu qui dicitur tropologicus. Tropologia dicitut quasi ‘moralis intellectus’, et dicitur a tropos, quasi ‘conversio’, cum verba nostra convertimus ad mores informandos. Et scribitur tropologice quando pet id quod factum est datur intelligi quod faciendum sit. Et hec vox Yersalem tropologice accipitur pro anima fideli.
SEPTIMO utitur quodam alio sensu qui dicitur aragogicus. Anagogia id est ‘spiritualis intellectus’ sive ‘superior’. Unde dicta vox Yerusalem inteligitur anagogice id est celestis et triunfans Ecclesia. Et anagogice loquitur cum datur intelligi quod desiderandum est et cum per tertena dantur intelligi celestia. Unde dicitur [ab] ana, quod est ‘supra’, et goge ‘ducere’ (ff. 1v-2r [Nan 5-7]).
Il nucleo teologico fondamentale è costituito dai quattro sensi (storico, allegorico, tropologico e anagogico) che Pietro illustra con un’applicazione concreta alla voce Ierusalem — soltanto l’allegoria viene anche applicata a un altro fatto storico quale lo scontro tra Davide e Golia. Sullo sfondo di questo quadrinomio teologico spuntano quei tre sensi (primo, «litteralis sive superficialis et parabolicus»; terzo, «apologogicus»; quarto, «methaforicus») che completano il settenario determinando con precisione certi modi di espressione che non rientrano propriamente nella definizione teologica del senso storico né di quello allegorico. Va detto comunque che i termini literalis, parabolicus e metaphoricus appartengono anche all’ermeneutica biblica, e che, insieme al sensus historicus, orbitano intorno a quella che i teologi chiamano la significatio vocum, pet cui «voces significant res» e sul cui fundamentum viene edificato il senso mistico. Infatti, le esposizioni ermeneutiche più accurate rilevano la necessità di distinguere entro il sensus litteralis sive historicus una dimensione schiettamente historica, applicabile a quei casi in cui la littera biblica consiste in una narratio rerum gestarum, e un’altra dimensione non propriamente storica, relativa ad altri passi che si esauriscono nella littera oppure che contengono un senso figurato anche se non mistico, come la parabola o la metaphora.
Nella prima categoria dello schema di Pietro, il sensus litteralis, definito come «quedam que non importabunt alium intellectum nisi ut litera sola sonabit», comprende anche il sensus parabolicus, il quale sarebbe propriamente un primo grado di espressione figurata. Nel Prologus in moralitates Bibliorum, Niccolò di Lira adduce la promulgazione del Decalogo (Deut. 6, 4-5) come caso tipico in cui la Scrittura «habet tantum sensum litteralem» e «non est mysticus sensus requirendus», ma cita invece il precetto evangelico «si dextra manus tua scandalizat te, abscide eam, et proiice abs te» (Mt. 5, 30) come esempio in cui la Scrittura «non habet litteralem sensum proprie loquendo», perché, in verità, «Salvator non monuit quod homo manum sibi abscindat ad litteram», anzi «per manum abscindendum, intelligitur amicus, quantumcunque propinquus, praebens occasionem ruinae, et hujus familiaritatem debet homo abscindere a se» (PL 113: 34). Subito dopo analizza il rapporto tra il sensus parabolicus e il senso letterale:
Quod autem aliqui doctores dicunt sensum parabolicum esse litteralem, hoc est intelligendum large loquendo, quia ubi non est sensus per voces significatus, parabolicus est primus; et ideo large loquendo dicitur litteralis, eo quod litteralis est primus quando non est ibi alius: et ad hoc significandum ipsi dicunt parabolicum contineri sub litterali; et hoc modo loquendo ego sensum parabolicum vocavi in pluribus locis litteralem, scribendo super libros sactae Scripturae (PL 113: 34).
L’osservazione valeva anche per la metafora. Nella Summa theologiae l’Aquinate aveva infatti identificato sia il sensus parabolicus che la metaphora (si veda sopra n. 7) con la similitudo corporalis di realtà spirituali:
sensus parabolicus sub litterali continetur: nam per voces significatur aliquid proprie, et aliquid figurative, nec est litteralis sensus ipsa figura, sed id quod est figuratum. Non enim cum Scriptura nominat Dei brachium, est litteralis sensus quod in Deo sit membrum huiusmodi corporale: sed id quod per hoc membrum significatur, scilicet virtus operativa. In quo patet quod sensui litterali sacrae Scripturae nunquam potest subesse falsum (Summa theologiae I, q. 1, a. 10 ad 3).
Gli alberi parlanti dei suicidi (If. XIII) è la finzione dantesca che Pietro adduce com esempio di sensus metaphoricus, «qui dicitur a metha, quod est ‘extra’, et fora ‘naturam’, unde methafora quasi ‘oratio extra naturam’». Questa falsa etimologia rimanda forse alla definizione canonica della metaphora o translatio come locuzione impropria riferita a un oggetto di specie o genere diverso, in virtù di una certa somiglianza. Poco più sotto, dopo aver definito il sensus allegoricus come «alienus», Pietro prova la necessità di distinguerlo particolarmente dalla metafora («alegoricus loquitur intra se, methaforicus extra se»). Tale distinzione si rende più chiara alla luce di alcuni documenti retorico-grammaticali che paragonano la metafora all’allegoria (Alessio 1987: 34-36): la locuzione impropria della metafora rimanda a un oggetto diverso come il suo unico referente reale («extra se»), intanto che l’allegoria designa contemporaneamente due referenti: un senso spirituale entro un senso reale («intra se») non cancellato ne sostituito dall’altro. E così si capisce anche meglio il paragone tra i due esempi danteschi che illustrano l’una e l’altra figura: un albero dotato dell’eloquenza di Pier delle Vigne è una metafora perché, in virtù di una certa somiglianza, è soltanto un'immagine o figura rappresentativa della condizione spirituale del suicida, il quale ha rinunciato volontariamente alla ragione e all’istinto animale di sopravvivenza; invece, il descensus ad inferos di Dante è un’allegoria perché il senso allegorico è contenuto in un primo senso non cancellato: insomma, questo primo senso è una speculazione poetica sull’inferno essenziale, il quale contiene un altro senso, relativo all’inferno mortale dell’anima peccatrice.
Ho lasciato per ultimo il sensus apologogicus — la lezione apologeticus dell’edizione Nannucci è uno sfortunato errore del suo inaffidabile testimone base — perché mi pare sia una vera innovazione di Pietro, intesa a introdurre nello schema teologico un luogo specifico per la fabula dei poeti, cioè una categoria adatta alla «bella menzogna» e l’allegoria del Convivio. Pietro distingue etimologicamente tra l’apologus e la fabula, ma poi li identifica nella pratica dei poeti e li definisce, con Isidoro e Macrobio, come un racconto inverosimile, dilettevole e istruttivo: questa finalità istruttiva è proprio quella che, secondo Dante (Cv II, 1, 3), non manca mai «sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna». Va ricordato che da sant’Isidoro (Etym. I, 40, 3-6) fino al prologo del De fabulis poetarum di Pierre Bersuire, certi racconti biblici cui bene si addice la definizione classica dell’apologus, come quello degli alberi che volevano scegliere il loto re (Iud. 9, 8-15), venivano comunemente prodotti a dimostrazione dell’esistenza di una fabula biblica. A imitazione del sensus parabolicus, ciò poteva suggerire la distinzione di un sensus apologogicus applicabile al caso particolare degli apologhi veterotestamentari. Bisogna però rilevare il fatto che la definizione di Pietro eccede la nozione comune di finzione animalistica e comprende anche quella del mito poetico. Nel 1287 Guido delle Colonne identificava anche in questi termini fabula e apologus nell’epilogo della sua Historia destructionis Troiae:
Consideraui tamen defectum magnorum auctorum, Virgilii, Ouidii, et Homeri, qui in exprimenda ueritate Troyani casus nimium defecerunt, quamuis eorum opera contexuerint siue tractauerint secundum fabulas antiquorum sine secundum apologos in stilo nimium glorioso, et specialiter ille summus poetarum Virgilius, quem nichil latuit (Guido delle Colonne 1936: 276).
Forse sulla scia di Guido, Pietro propone il sensus apologogicus come chiave di lettura da applicare a quegli elementi mitologici che Dante ricava dal repertorio classico allo scopo di dilettare e istruire il suo pubblico.
In conclusione, il septemcuplex sensus della Commedia risponde allo schema dei quattro sensi dell’ermeneutica teologica spiegando il ventaglio della significatio vocum in quattro sensi diversi, ivi compresi tre modi loquendi ad figuram (parabola, apologus/fabula e metaphora) che hanno bisogno di interpretazione — come gli apologhi e le rappresentazioni corporali di Dio della Bibbia — e che nell’ermeneutica teologica rientrano nell’accezione più lata del sensus litteralis per opposizione ai sensus mystici o spirituales della significatio rerum. Soltanto il sensus apologogicus, relativo al mito poetico — l’allegoria o «veritade ascosa sotto bella menzogna» del Convivio —, mi pare un’innovazione estranea alla tradizione ermeneutica dei teologi, nonostante le fabule bibliche elencate da Isidoro e Pierre Bersuire. Risulta poi anche chiaro che Pietro riteneva cruciale il saper discernere e interpretare in modo retto le figure della fictio poetica pet evitare letture aberranti che avrebbero potuto compromettere il prestigio e l’ortodossia di Dante. La finzione dei traditori dannati in vita, i cui corpi campano al mondo in possesso dei demoni mentre le loro anime sono punite nella Ptolomea (If. XXXIII, 122-135), gli offrì una buona occasione di mostrare l’applicazione di queste premesse nella retta interpretazione di certi passi assurdi se interpretati iuxza litteram.
Nell’ultimo paragrafo della forza tractandi Pietro argomenta finalmente la necessità di questo sepfezzeuplex sensus insistendo sulla finzione fondamentale della Commedia: il viaggio di Dante nell’aldilà e, particolarmente, il suo descensus ad inferos:
Ad que predicta facit quod ait Gregorius in Moralibus, dicens: «Quedam ystorica expositione transcurimus et pet alegoriam typica investigatione perscrutamur, quedam per sola allegorice moralitatis instrumenta discutimus, nonnulla autem per cunta simul exquirentes tripliciter indagamus». Nar aliqua iuxta literam intelligi nequeunt, nam literaliter accepta talia non instructioneme, sed errorem inducerent. Nam si ad literam intelligeremus illum sanctum vitum Iob ubi dicit [Iob 7, 15]: «Elegit suspendium anima mea, et mortem ossa mea», quid erroneum esset. Igitur ipse Iob et alii scribentes sub talibus suptadictis sensibus intelligi debent, e eziazz auctor noster. Nam quis sani intelectus crederet ipsum ita descendisse et talia vidisse, nisi cum distinctione dictorum modorum loquendi ad figuram? Nam «non est ipse literalis sensus ipsa figura, sed id quod est figuratum. Nam et cum scribitut “brachium Dei” (ut in Iohanne XII° [12, 38] ex dicto Ysaie [53, 1]) non est sensus quod brachium sit Deo, sed id quod per eum significatur, scilicet virtus operativa». Amodo cum auctor loquetur et describet talem et talem in inferno, purgatorio et paradiso, cum dictis sensibus diversimode inteligatur, ut poeta, «cuius officium est ut ea que vere gesta sunt in alias species obliquis figuracionibus cum decore aliquo conversa transduca», secundum Ysidorum [Etym. VIII, 7, 10] (f. 2r-rv [Nan 7-8]).
Pietro propone un parallelo ben calcolato tra la sua esegesi del poeta Dante e l’esegesi gregoriana del profeta Giobbe, sottolineando però questa distinzione importante: Dante deve essere inteso «ut poeta». San Gregorio premette ai Moralia in Iob (Epistula ad Leandrum 3 [CCSL 143: 4]; Lubac 1959-1964: I, 185-189; IV, 134) l'avvertenza che rinuncerà all’esposizione storico-letterale di alcuni passi che vanno interpretati in senso allegorico o mortale; in altri casi farà il contrario, oppure esporrà tutti e tre i sensi. Qui però è per la sua rinuncia occasionale al senso letterale che viene citato in testimonio di quella magna discretio che i teologi richiedono nella lettura della Scrittura sacra, tutta seminata di locutiones figuratae che sarebbe assurdo interpretare alla lettera.
Ugo di San Vittore, che condivideva ovviamente questo criterio, reagì però contro gli abusi di alcuni esegeti che trascuravano l’esposizione storico-letterale a beneficio di un’interpretazione allegorista della Scrittura. Rivendicò quindi la littera come fondamento dei sensi spirituali anche nei casi in cui lo Spirito di Dio si era espresso in modo figurato: quello che la littera dice, non affatto come lo dice, è il senso letterale che funge da significante degli altri sensi. Le locutiones figuratae costituivano una sfida teorica di fronte ai due postulati fondamentali dell’ermeneutica sacra: da una parte, l’inerranza della Scrittura; dall’altra, la necessità di non confondere l’interpretazione figurata di una locutio assurda in senso proprio con un’esegesi veramente allegorica o typologica (Lubac 1959-1964: IV, 136-149). Come abbiamo visto, fu la Scolastica del Duecento a determinare la questione facendo rientrare il senso figurato di queste locutiones, sotto il nome di sensus metaphoricus o parabolicus, in un’accezione più larga del senso storico-letterale, definito come quello «quem auctor intendi». Pietro Alighieri è testimone che anche la formula dell’Aquinate «nec est litteralis sensus ipsa figura, sed id quod est figuratum» divenne ben presto canonica (Lubac 1959-1964: IV, 272-279). Queste locutiones figuratae rimandano quindi a due livelli di significazione: un livello superficiale e fittivo («ipsa figura»), cui alludono le prevenzioni contro una lettura iuxta litteram; e un livello figurativo ma veto («id quod est figuratum»), che corrisponde al sensus parabolicus o metaphoricus, compreso nell’accezione lata del sensus litteralis. Ormai è chiaro perché le locutiones figuratae della Scrittura non vanno interpretate ad litteram e, ciononostante, non suppongono un sensus litteralis falso né erroneo.
Pietro esorta i suoi lettori a intendere analogamente il sensus litteralis dell’opera di Dante «ut poeta», perché, come insegna Isidoro, l’officium del poeta consiste nell’esprimere la verità per il mezzo di un parlare figurato che sarebbe assurdo interpretare alla lettera stricto sensu. E più in particolare ci avverte contro l’interpretazione letterale stricto sensu di due componenti fondamentali della narrazione di Dante: il suo viaggio corporale nell’aldilà e i suoi colloqui con i personaggi storici che ivi incontra. Nella definizione del sensus allegoricus Pietro ci ha descritto il vero senso letterale di questo descensus ad inferos come un'effettiva speculazione intellettuale e immaginativa sull’aldilà, relativa allegoricamente a una conversione morale. E tutto quello che la finzione escatologica propone al lettore come realtà fisica o sensibile, materiale o corporale, richiede dunque una lettura speculativa di segno prima escatologico e poi morale. La descrizione poetica dell’Inferno e dei suoi tormenti consente perciò un’interpretazione reale-essenziale («prout localiter et realiter possunt et debent intelligi») come risultato di una cogente speculazione razionale («descriptis penis, cruciatibus et suppliciis [...] rationabiliter contingendis viciosis»), messa in profitto da teologi come, tra gli altri, il francescano Joan Pasqual. Mercé una distinzione essenziale tra le figure del senso letterale (parabola, apologus/fabula, metaphora) e quelle del senso spirituale (allegoria, tropologia, anagogia), Pietro tentò di ridurre ad una sintesi omogenea le proposte ermeneutiche del Convivio e dell’Epistola a Cangrande, e probabilmente vi riuscì.