Dati bibliografici
Autore: Mira Mocan
Tratto da: La scuola di San Vittore e la letteratura medievale
Editore: Edizioni della Normale, Pisa
Anno: 2022
Pagine: 376-378; 395-403
[...]
3. Per quanto riguarda i richiami indiretti o le citazioni dall’opera di Ugo possiamo affermare con certezza che Dante ne conosceva la produzione enciclopedica, in particolare il Didascalicon, come dimostrano notevoli parallelismi che coinvolgono in particolare il Convivio, segnalati da Maria Corti (la quale fu fra i primi studiosi moderni a riportare l’attenzione su Ugo e Riccardo quali auctores della «biblioteca di Dante») e più recentemente da Zygmunt Baranski. La studiosa notava, appoggiandosi a solide concordanze concettuali, lessicali e di immagini, l'importante analogia (sorprendentemente poco approfondita dalla critica dantesca) fra un luogo cruciale come Convivio II 1, dove Dante illustra la lettura allegorica delle canzoni e la celebre distinzione fra l’«allegoria dei teologi» e quella «dei poeti», e il libro VI del Didascalicon, dove Ugo, esponendo la teoria dei quattro sensi, crea «una originale e nuova separazione fra l’esegesi riferita al senso letterale e l’interpretazione allegorica» e stabilisce «la precedenza nell’ordo data al sensus secundum litteram». Questo assunto è inoltre illustrato, in Ugo come in Dante, attraverso l’immagine dell’edificatio, dove la creazione delle fondamenta deve precedere la costruzione dell’edificio (cfr. Didascalicon, VI 12 e Convivio II i 12). Nello stesso trattato di Ugo è presente, segnala la Corti, l'affermazione di un «rapporto metaforico e allegorico fra Sapienza in senso scritturale-mistico e Bellezza di ciò che è terreno, delle creature tutte» assai coerente nella prospettiva di lettura allegorica e sapienziale delle canzoni dantesche d’argomento amoroso.
A questo importante riscontro Zygmunt Baranski ha aggiunto la segnalazione dello stringente parallelismo fra la parte proemiale del Convivio (I i 2-4), in cui si parla degli «impedimenti» che ostacolano la ricerca della sapienza, e l’esordio del Didascalicon, dove parimenti si indicano le cause possibili della disaffezione allo studio nell’uomo. Più recentemente Francesco Bausi ha completato il quadro con ulteriori, convincenti richiami: fra cui si ricorda, nella parte finale del III Libro del Didascalicon, il tema dell’«esilio nel mondo» cui è destinato il sapiente («perfectus [...] cui mundus totul exsilium est»), evocato con toni di accorata nostalgia anche autobiografica («ego a puero exsulavi...»). L’insieme di queste concordanze delinea dunque un’attenzione specifica al testo di Ugo, che lascia importanti tracce in una porzione ampia – almeno i primi due libri — del Convivio, un trattato che, al di là dei geniali elementi di innovazione dantesca, si colloca senz'altro nella tradizione autorevolmente rappresentata dal testo principe dell’insegnamento medievale, che «instruit [...] tam saecularium quam divinarum scripturarum lectorem».
Più in generale, è la stessa concezione simbolica del mondo e della letteratura nella forma recepita da Dante che trova nell’allegorismo di Ugo un precedente ineludibile. Da questo punto di vista, si prospettano come molto promettenti le indagini intorno al De arca Noe, sia per quanto riguarda la dimensione allegorica dell’edificatio nell'ambito dell’esegesi visuale, quanto specificamente con riferimento alla metafora della navigazione, tanto potente e ricca di implicazioni nel trattato di Ugo quanto nel percorso autoriale dantesco, almeno a partire dal Convivio e ovviamente fino alla Commedia. Come suggerisce Corrado Bologna, seguendo la lunga metamorfosi dell’immagine della «nave» lungo la traiettoria del poema, «la metafora assoluta che balena all’inizio del Purgatorio si svolge nel Paradiso in una perfetta allegoria del pensiero-testo come nave, come arca, come tempio e teatro della memoria e della sapienza, secondo il modello fondato da Ugo di San Vittore» . Il possibile ricorso da parte di Dante a questo trattato nel concepire un vero e proprio «edificio» testuale, qual è la Commedia, costruito intorno all’immagine della navigazione (in tutte le sue ricche articolazioni relative al tema del naufragio o della salvezza, dell’esplorazione e dell’oltranzosa superbia) sarebbe meritevole di una ulteriore ricognizione.
Importanti e ricche sono inoltre le implicazioni di quanto recentemente suggerito da Gino Casagrande, il quale propone di riconoscere nel Commento del Vittorino al De caelesti ierarchia uno dei modelli della visione deificante di Paradiso XXXII. Sarebbero infatti le tre teofanie descritte da Ugo ad aver ispirato la climax culminante nel «fulgore in che sua voglia venne» (Paradiso, XXXIII 141) su cui si conclude il poema: «Per Ugo le ‘pure e nude’ teofanie non sono che la luce tramite la quale noi, così illuminati, vediamo il lume divino [...]. Quindi io credo che l’ultima visione di Dante che si risolve con il “fulgore” trovi [...] il suo punto di sostegno nella teofania del vittorino». In questo modo, tenendo conto della sicura e importante presenza anche dei testi di Riccardo (in particolare del suo De contemplatione; cfr. infra) negli ultimi canti del Paradiso, la parte finale della terza cantica testimonierebbe una intensa rimeditazione poetica sulle formulazioni dei maestri vittorini (accanto naturalmente alle altre grandi auctoritates che informano i canti della visione divina).
L’insieme di questi richiami, di grande rilevanza dottrinale, indicano in Ugo un autore di riferimento per la formazione dantesca, soprattutto come momento di mediazione rispetto ad altre istanze di matrice tanto neoplatonica quanto aristotelica: il che corrisponde in realtà a una delle funzioni più importanti del magistero di Ugo nella cultura del XII e XIII secolo. Sarebbe pertanto auspicabile che un lavoro sistematico intorno al rapporto fra Dante e il magister vittorino venga a completare la ricca bibliografia degli studi dedicati alle fonti dantesche.
[...]
Non è qui il caso di illustrare nel dettaglio la centralità dell’immaginazione nell’esegesi e nell’antropologia vittorina, in quanto strumento indispensabile tanto per la conoscenza, quanto per l’evoluzione spirituale. Rinvio per questo ai magistrali lavori di Patrice Sicard , che ha sapientemente illustrato la centralità del processo immaginativo per il metodo vittorino dell’«esegesi visuale», e più recentemente al volume di Ritva Palmén, dove sono opportunamente ricostruiti anche i precedenti riconducibili al neoplatonismo tardoantico e medievale . Io stessa mi sono soffermata in altre occasioni da una parte sulla teorizzazione di una ipostasi “alta”, elevata della imaginatio, quella che sfiora i bordi dell’intelligenza e l'’accompagna nel suo contatto con il divino; dall'altra sulle profonde implicazioni morali di una simile concezione, per metterne in luce l’interesse in chiave dantesca . Non intendo perciò ripercorrere nel dettaglio questi aspetti, ma soltanto ribadire che la concezione dell’immaginazione nel suo rapporto con le altre istanze dell’anima (sensibilità, memoria, ragione, intelletto) formulata nell'ambiente vittorino offre una ‘legittimazione dottrinale’ alla più ardita novità dell’auctor Dante, quella di affidare alla parola poetica l’espressione di un’esperienza interiore sovrumana e della verità divina ivi rivelata.
Credo infatti che, al di là della stessa teoria elaborata in ambito vittorino, siano di vitale importanza in prospettiva dantesca le sue profonde implicazioni metatestuali, riguardanti in particolare il rapporto fra parola e verità e dunque il problema capitale dello statuto di veritas del testo poetico. Intendo il fatto che la concezione e la pratica spirituale ed esegetica che ne deriva – concretizzata nella sua versione più nobile dalla pratica dell’«esegesi visuale» – implicano un nuovo statuto della testualità in generale e della parola poetica in particolare: una nuova concezione della «testualità umana nella sua dimensione poetica» significativamente affine, nelle sue premesse, al progetto rivoluzionario di un «poema sacro» in lingua volgare. Vorrei appoggiare queste considerazioni su un solo luogo del Beniamin minor, che le illustra in maniera particolarmente stringente e originale .
Ricordo in sintesi che il Beniamin minor propone una lettura tropologica della genealogia di Giacobbe, dunque dei dodici patriarchi, in cui Giacobbe rappresenta l’anima, Lia e Rachele le funzioni dell’affettività e della ragione, i loro figli gli affetti o le operazioni dell’anima nel «prepararsi alla contemplazione» e alla vita virtuosa. Ne risulta una complessa esegesi che descrive l'evoluzione dell’anima nella sua ascesa fino alla visio Dei attraverso «un commentaire foisonnant», dove l’allegoria è applicata «de facon spécialement inventive [...] en faisant résonner tous les échos symboliques que renvoient les mots et les choses, les noms des douze patriarches et les objets qui leur sont associés» . La generazione dei figli di Lia e Rachele arriva a disegnare, nel trattato di Riccardo, quello che in prospettiva attualizzante chiameremmo una vera e propria storia emozionale e mentale dell’individuo impegnato in una progressiva purificazione degli affetti, finalizzata alla contemplazione.
Il passo su cui vorrei soffermarmi si riferisce al valore allegorico dei personaggi di Dan e Neptalim, i due figli dell’ancella di Rachele, Bala, interpretata come l'immaginazione al servizio della ragione . Secondo l’allegoresi riccardiana, il primo figlio di Bala-immaginazione, Dan, rappresenta la rationalis imaginatio [...] per rationem disposita, mentre Neptalim, il secondogenito, incarna la rationalis imaginatio [...] intelligentiae permixta. Non mi soffermerò, in questo contesto, sulle origini e l’originalità di tale distinzione fra le forme dell’immaginazione razionale, anche se essa riveste, a mio avviso, grande importanza per la ricezione delle teorie sull’immaginazione in ambito letterario. Vorrei invece sottolineare la funzionalità specifica a cui Riccardo adibisce le due forme di imaginatio: la prima, infatti, entra in azione «quando secundum uisibilium rerum cognitam speciem uisibile aliquid aliud mente disponimus, nec tamen ex eo inuisibile aliquid cogitamus» . A questa categoria appartiene quindi la facoltà dell’immaginazione nella sua capacità combinatoria, secondo quanto già formulato dalla vulgata aristotelica: quella di creare delle immagini nuove sulla base di percezioni sensibili reali. Il ruolo del fratello Neptalim, dell’immaginazione che collabora con l'intelligenza, entra invece in gioco nel momento in cui «per uisibilium rerum speciem ad inuisibilium cognitionem ascendere nitimur» ; in questa operazione della mente si realizza il precetto paolino dell’ascesa per visibilia ad invisibilia, fondamentale per l’intera costruzione del pensiero esegetico vittorino .
Ciò che colpisce di questa categorizzazione, in prospettiva dantesca, è soprattutto la materia a cui Riccardo ricorre per esemplificare le due operazioni dell’imaginatio, la «consideratio futurorum malorum» e la «speculatio futurorum bonorum» : ovvero, parafrasando con formula dantesca, lo «status animarum post mortem», nelle ipostasi rispettiva- mente infernale e paradisiaca. Riccardo prosegue infatti, senza soluzione di continuità, affermando che il primo tipo di immaginazione razionale è quella che produce la visualizzazione dei futuri tormenti infernali (la «consideratio futurorum malorum»), dal momento che «Dan nihil nouit nisi corporalia, sed ea tamen rimatur quae longe sunt a sensu corporeo remota». L’immaginazione ordinata dalla ragione, rappresentata da Dan, può cioè conoscere solo le cose sensibili, anche se lontane dall'esperienza immediata; e infatti «infernalia tormenta longe a sensu corporeo remota non dubitamus, [...] sed tamen haec quotiens uolumus per ministerium Dan prae oculis cordis habemus»S. Di converso, all’immaginazione che si trova in contatto con l’intelligenza spetta la «speculatio futurorum bonorum», dal momento che essa è in grado di innalzarsi al sovrasensibile: «Neptalim per rerum uisibilium formam surgit ad rerum inuisibilium intelligentiam», inol- trandosi in territori inaccessibili alle facoltà soltanto umane, «ubi sine intelligentia sola imaginatio sufficere non posse minime ignoratur» .
Questa prima distinzione fra le operazioni dei due tipi di immaginazione e la materia cui si applicano ne comporta delle altre, dalle importantissime conseguenze nel nostro contesto. Diverso è infatti quello che potremmo chiamare lo statuto retorico, allegorico e di realtà delle rispettive visioni e il loro rapporto con la verità formulato da Riccardo. Egli esclude le immagini concepite dalla sola immaginazione razionale da qualsiasi tipologia di rappresentazione figurale o traslata: «Nemo fidelium, cum infernum, flammam gehennae, tenebras exteriores in Scripturis sanctis legit, haec figuraliter dicta credit, sed ista ueraciter et corporaliter alicubi esse non diffidit. [...] haec non tam figuraliter quam historialiter dicta non dubitat» . Al contrario, l’oggetto delle visioni prodotte da Neptalim richiede un’operazione di tipo ermeneutico sostenuta dall’intelligenza, poiché la sua materia non riguarda realtà che abbiano consistenza corporea: «cum terram lacte et melle manantem, coelestis Ierusalem muros ex lapidibus pretiosis, portas ex margaritis, plateas ex auro legerit, quis sani sensus homo haec iuxta litteram accipere uelit? Vnde statim ad spiritualem intelligentiam recurrit, et quid ibi misticum contineatur exquirit» . Sembra emergere, insomma, in questa distinzione fra le funzioni immaginative incarnate tropologicamente da Dan e Neptalim, una diversa declinazione del rapporto fra allegoria in factis e in verbis, dove il criterio di veridicità e di verità è valutato sulla base della correttezza del rapporto di significazione, tanto delle res quanto dei verba, e non del contenuto di realtà, di fattualità, a essi attribuito.
Credo che un lettore attento della Commedia; anche non specialista, non possa rimanere indifferente a una simile descrizione delle funzioni immaginative applicate alla visione della vita ultraterrena, se è vero che il viaggio nei tre mondi nel poema si sviluppa attraverso una gradualità di stati fantasmatici sempre più puri, fino alla visio finale della Trinità e all’excessus al di là di ogni narrazione possibile . Il confronto è interessante soprattutto perché, come sappiamo bene, le immagini attraverso le quali si compone la visione di Dante conoscono per così dire uno scarto qualitativo nel passaggio fra le prime due cantiche e la terza. Nella fictio dantesca, l’Inferno e il Purgatorio, oltre a essere degli «stati mentali» , sono anche dei ‘luoghi reali e corporali’, per quanto inaccessibili in condizioni normali durante la vita terrena, mentre il Paradiso attiene a una dimensione sovrumana la cui rappresentazione e narrazione può scaturire soltanto dalle supreme «armonie della mente» trasformate in immagini, come ci avverte l’auctor fin dai primi canti e ancora negli ultimi, quando descrive la beatitudine e la bellezza della rosa mistica.
Ora, è doveroso ricordare che la descrizione riccardiana delle visioni immaginative qui citata – come peraltro l’intero itinerario contemplativo scandito nel De contemplatione – è una rielaborazione amplificata della teoria agostiniana delle tre visiones, sensibile, spirituale e intellettuale, formulata nel De Genesi ad litteram, dove anzi nel XII libro ci si sofferma sul problema delle visiones con riferimento alla vita eterna. Ma proprio il confronto con la comune fonte fa risaltare l'interesse della riformulazione vittorina: in Agostino, infatti, si tratta del modo in cui le anime beneficiano della visio spirituale e di quella intellettuale dopo la morte, e delle modalità con cui queste stesse visioni diventano veicolo delle pene o delle beatitudini ivi sperimentate. Nel Beniamin minor, al contrario, si tratta della raffigurazione che noi possiamo a- vere in vita di queste realtà o stati ultramondani futuri: propriamente di un problema di rappresentazione e di narrazione, dunque di un problema di natura testuale.
Illuminante è, in tal senso, l’interpretazione allegorica che Riccardo offre, concludendo l’argomentazione, del nome associato a Neptalim, l'immaginazione permixta intelligentiae. Esso, ci dice, significa comparatio o conversio e translatio, perché queste sono le operazioni compiute dall’imaginatio al fine di innalzarsi per visibilia ad invisibilia: la creazione di similitudini o il trasferimento, la ‘traduzione’ di contenuti sensibili in realtà ultrasensibili:
utitur namque aliquando translatione, aliquando autem. comparatione. Comparatione quando ex praesentium bonorum multitudine uel' magnitudine colligit illa futurae uitae gaudia, quot uel quanta esse possint. [...] Utitur nichilominus, ut dictum est, translatione, quando rerum uisibilium quamlibet descriptionem transfert ad rerum inuisibilium significationem. [...] Neptalim namque comparatio uel conuersio interpretatur. Solet namque cognitam quamlibet rerum uisibilium naturam conuertere ad spiritualem intelligentiam .
Non occorre, credo, approfondire la natura retorica di comparatio e translatio o conversio, indicanti appunto le figure della similitudine, da una parte, e della metafora - del metaphorisma — dall’altra, sulle quali si fonda di fatto tutto il meccanismo dell’allegoresi medievale. Straordinario mi sembra però il modo in cui, in questa antropologia cristiana e neoplatonica delle funzioni interiori disegnata da Riccardo, gli strumenti propri della retorica, della testualità anche poetica, si rivelano parti di una complessa ‘sintassi mentale’, dalla quale deriva loro uno speciale statuto di veridicità, secondo una interpretazione oserei dire assai originale del dettato eriugeniano . Siamo insomma davanti a una decisa affermazione del valore non solo morale, ma persino ontologico dell'ordine testuale, in cui è riconoscibile un progetto unitario di armonia e convergenza fra espressione formale e sostanza concettuale del discorso: «la maîtrise des effets du langage — en termes techniques: les figures — a bel et bien sa part à jouer dans l'opus restaurationis, au fondement de l’anthropologie victorine» .
Questi elementi hanno delle conseguenze decisive proprio per quanto riguarda lo statuto delle immagini poetiche in rapporto alla verità: conseguenze che emergono nell’uso peculiare del verbo fingere e della categoria di fictio in generale. Mi sembra infatti che si prospetti qui un ulteriore rovesciamento, anch’esso di segno eriugeniano, del criterio di veridicità, quando si afferma che «Neptalim [...] per descriptae rei imaginationem fictam surgit ad intelligentiam veram», poiché «neque enim licet de futuris et invisibilibus bonis per spiritualem intelligentiam aliquid falsum fingere»: non è lecito creare una immagine non veritiera delle realtà celesti. AI contrario, è «absque culpa» «tormenta malorum multo aliter quam sunt per imaginationem cernere» : è operazione innocente quella di osservare nell’immaginazione i tormenti infernali in maniera differente da come realmente sono. Come si vede, Riccardo crea qui un nesso inscindibile e inequivocabile fra la categoria di fictio (la creazione di immagini mentali) e verità, affermando che quest’ultima non dipende dalla congruenza rispetto al dato reale: il criterio di verità è trasferito sull’attività mentale di carattere ermeneutico, non sulla ricezione passiva di un dato di fatto. Rivelatore è in tal senso l’uso, apparentemente paradossale, del termine fingere in relazione alle verità celestiali, e del verbo vedere in relazione alle realtà infernali.
Per un lettore medievale portato a distinguere fra un’«allegoria dei teologi» e un’«allegoria dei poeti» sulla base della conformità alla historia narrata nel testo questo rovesciamento apre prospettive vertiginose e illuminanti: non perché innalzi l’allegoria dei poeti ai livelli di quella teologica (impresa ovviamente contraria al dato dell’historia), ma al contrario perché autorizza a formulare l’allegoria dei teologi anche in termini poietici, nel senso primario di una creazione mentale di immagini fictae, ma portatrici di verità.
Tale valorizzazione della fictio nella rappresentazione delle realtà invisibili assume nel De contemplatione valenze ancor più oltranzose, laddove Riccardo arriva a collegare la similitudo Dei presente nell’uomo proprio alla facoltà e all’uso dell’immaginazione, celebrando la capacità dell’uomo di generare immagini come dal nulla, nel vasto territorio di un fantasticus mundus rappresentato dalla imaginatio:
Sed de imaginationis agilitate facultatisque eius facilitate, quid nos dicturi sumus, uel quid inde digne dicere possumus, que omnium eorum que animus suggerit in tanta velocitate imaginem depingit? Quicquid a foris animus per auditum haurit, quicquid ab intus ex sola cogitatione concipit, totum imaginatio absque mora, et omni difficultate seposita, per representationem format, et quarumlibet rerum formas sub mira festinatione representat. Quale, queso, est tot rerum atque tantarum in momento in ictu oculi picturas efficere, et iterum easdem eadem facilitate delere vel alio atque alio modo multiformiter variare? Nonne per imaginationem animus cotidie novum celum, novam terram cum voluerit creat, et in illo fantastico mundo quasi alius quidam creator quantaslibet eiusmodi generis creaturas omni hora actitat, et pro arbitrio forma ?
[…]
Si miraris quomodo ille omnium opifex Deus tot et tam varias rerum species prout voluit in ipso mundi exordio ex nihilo in actum produxit, cogita quam sit humane anime facile omni hora quaslibet rerum figuras per imaginationem fingere et quasdam quasi sui generis creaturas quotiens uoluerit sine ‘preiacenti materia, et uelud ex nichilo formare, et incipiet minus esse mirabile quod prius forte videbatur incredibile. In quo et illud inuenies valde notabile, quod rerum veritatem, qui summa veritas est, reservavit sibi, rerum vero imagines qualibet hora formandas sue concessit imagini .
Si può affermare in sintesi che le due grandi auctoritates della scuola vittorina, Ugo e Riccardo, sono per Dante dei punti di riferimento di dottrina e di esegesi; ma sono anche e soprattutto dei maestri di allegoria poetica, grazie alla loro teoria dell’imaginatio. Questa, legittimando la consistenza etica e morale di una fictio veritiera, autorizza la messa in versi dell’ascensione visionaria attraverso un fantasticus mundus più vero di ogni historia e di ogni dottrina, qual è la Commedia.