Dati bibliografici
Autore: Mira Mocan
Tratto da: Immagine, figura, astrazione.Le geometrie del testo nella "Commedia" di Dante
Editore: Salerno Ed., Roma
Anno: 2022
Pagine: 93-110
E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose racchiuse dal cielo, niuna altra piti cara che questa trovandone in questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine, tutto a questa sola si diede. E, acciò che niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle profondità altissime della teologia con acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l’effetto lontano, perciò che, non curando né caldi né freddi, [né] vigilie né digiuni, né alcun altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere della divina essenzia e dell’altre separate intelligenzie quello che per umano ingegno qui se ne può comprendere. E cosi come in varie etadi varie scienze furono da lui conosciute studiando, cosi in vari studi sotto varii dottori le comprese. [...] E di tanti e si fatti studii non ingiustamente meritò altissimi titoli: perciò che alcuni il chiamarono sempre poeta, altri filosofo, e molti teologo, mentre visse. Ma, perciò che tanto è la vittoria pit gloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto sono state maggiori, giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestoso mare costui, gittato ora in qua ora in là, vincendo l’onde parimenti e’ venti contrarii, pervenisse al salutevole porio de’ chiarissimi titoli già narrati.
In queste righe Giovanni Boccaccio, in veste di «biografo ed editore» di Dante, tratteggia quello che potremmo definire il primo ritratto intellettuale del poeta della Commedia, ponendolo sotto il segno di una fervente esplorazione delle «altissime profondità» della teologia, quale culmine di un percorso infaticabile di ricerca e penetrazione del «vero», percorso compiuto in «varie etadi» e «vari studi».
Al lettore-dantista di oggi il passo risulta, nella sua concisa sintesi, pit che mai emblematico: al di là della verità storica e biografica di cui può essere portatore, esso sembra poter racchiudere le ragioni delle tante difficoltà e dell’estrema complessità con cui si confronta chi si voglia avvicinare alla questione che in breve potremmo definire delle «fonti» dantesche (intese come quei testi di rilievo nella formazione di Dante che lasciarono tracce riconoscibili nelle sue opere), come anche la definizione del senso e dello statuto del suo «poema sacro». Boccaccio fa incrociare nel discorso varie linee problematiche: la varietà degli autori, delle teorie e delle prospettive, per cui in molti aspetti ili pensiero dantesco risulta in «una filosofia che oggi potremmo definire sincretica, una sintesi cioè di tradizioni comunemente percepite come opposte e inconciliabili»; si pone inoltre il discusso problema della cronologia della formazione dantesca («in varie etadi varie scienze furono da lui conosciute») e dunque delle modalità in cui diverse auctoritates possono avere, in modi e momenti differenti, influito sul pensiero e sulle posizioni del poeta, sulla penetrazione di un sapere che si avvicina nel massimo grado a «conoscere della divina essenzia e dell'altre separate intelligenzie». Ma, soprattutto, Boccaccio suggerisce una difficoltà già dei contemporanei nel definire Dante rispetto a una divisione convenzionale delle discipline, e a dominare la compresenza e il dialogo delle varie scienze e dei saperi nell'opera di un autore da alcuni chiamato «sempre poeta, [da] altri filosofo, e [da] molti teologo, mentre visse»: è questa, credo, ancora oggi una delle sfide più ardue nell’approssimazione alle radici del pensiero dantesco.
Di fatto, la celebrazione boccacciana dell'eccellenza di Dante è tutta imperniata, qui come in altri luoghi, sulla convergenza, nelle opere del sommo poeta fiorentino, fra poesia e teologia: quasi a individuare proprio in questa coincidenza la più profonda legittimazione della creazione letteraria. Nel contempo, la dichiarazione del certaldese sembra ricollegarsi, riassumendone alcune argomentazioni fondamentali, al nutrito dibattito che impegna letterati e religiosi, a partire dai primi decenni del Trecento, intorno alla definizione dello statuto della poesia in rapporto alle altre scienze e alle discipline liberali (dibattito che coinvolge, oltre allo stesso Boccaccio, Albertino Mussato in polemica con il domenicano Giovannino da Mantova, ma anche Petrarca in dialogo con il fratello Gherardo o con Benvenuto da Imola): può la lingua dei poeti farsi portatrice di verità pura, al pari della teologia intesa anche, se non primariamente, secondo l’accezione condivisa nel Medioevo di «sacra Scrittura» (ma senza perdere di vista la complessità semantica del termine e la necessità di storicizzare sempre il suo uso nei contesti)? In effetti, «proprio sull’esistenza di analogie tra poesia e Scrittura poggia, come su un caposaldo, tutta l’argomentazione sviluppata dai letterati nelle loro “difese della poesia”».
Sono in realtà le domande presenti già nel cuore stesso della riflessione di Dante intorno alla natura della parola poetica (si pensi solo ai celebri luoghi che definiscono, in Conv., II 1, e poi nell’Epistola a Cangrande, XXVIII, il discorso allegorico) e che sorgono immediatamente alla radice di ogni sforzo ermeneutico dedicato al «poema sacro». Potremmo anzi affermare che l’interrogativo sul nesso poesia-teologia (e dunque, in senso più radicale, fra linguaggio e verità) è proprio uno dei lasciti più profondi di Dante alla sua immediata posterità, se è vero che «s’assiste a un infittirsi di dibattiti sulla difesa della poesia e sul rapporto “teologia-poesia” proprio a partire da un'età che si potrebbe chiamare post-dantesca», che questi dibattiti sono necessari dal momento che «il poema sacro /al quale ha posto mano e cielo e terra”, obbligava coloro che avevano scelto altra lingua, altri generi letterari [...] a una riflessione sulle propile scelte e, in certo modo, a una giustificazione di esse» e che «l’equazione “teologia-poesia”, negli anni immediatamente successivi a Dante, se, da un canto; si collocava nel pit generale dibattito di una nuova gerarchia del sapere, dall’altro diveniva quasi condizione indispensabile per legittimare [...] la figura stessa del nuovo poeta e letterato». L'esistenza stessa della Commedia obbliga insomma i poeti e letterati a riprendere in mano la spinosa questione, già affrontata in sede di riflessione filosofica e religiosa da Aristotele e poi da Agostino e Tommaso, che coinvolge la figura del poeta theologizans e dunque le forme in cui la Verità può celarsi e poi rivelarsi all’intelletto umano.
Ad ogni modo, è già la ricezione trecentesca a consegnarci, pur se in modo controverso, anzitutto l'immagine di un «Theologus Dante», come testimonia anche l’epitaffio composto da Giovanni del Virgilio. E, in prospettiva ovviamente diversa, questa stessa definizione sembra impegnare almeno una parte della critica contemporanea, sempre più incline a riconoscere la cifra della genialità e dell’unicità dantesca proprio nella sua identità di poeta- theologus, ovvero nella capacità di trasfigurare e rinnovare le verità speculati- ve della filosofia e della teologia attraverso lo strumento della lingua poetica. AI centro di questa riflessione si colloca naturalmente la Commedia: è in relazione al poema che il problema della “poesia teologica” (o “teologia poetica”) si carica della sua intera complessità e problematicità, e si connette naturalmente al problema delle fonti, al tentativo di individuare eventuali precedenti che possano legittimare in chiave dottrinaria un’opera letteraria, umana, che si autodefinisce «sacra»; che possano cioè sostenere «the vital function of the human word as the link with the divine» e una visione della creazione poetica come «fundamentally analogous to the Incarnation», e anzi persino «the vehicle to God».
La domanda è, quindi: se la poesia della Commedia si pone come “teologia”, quali sono i teologi e i discorsi sui fondamenti dell’Essere che vi trovano accesso e di cui, eventualmente, essa si nutre, specificamente per quanto riguarda lo statuto e il valore di verità del linguaggio umano? E l'interrogativo è certo dei più ardui, dal momento che in poesia il ricorso alle fonti non è mai innocente o lineare, ma presuppone sempre una rielaborazione implicita, non dichiarata, massimamente per «lo scrittore nella cui opera straordinaria “la riflessione tecnica” convive intimamente con la “poesia”», e che dunque si confronta incessantemente, in modo «agonistico», con il resto della tradizione letteraria. La risemantizzazione delle dottrine filosofiche e teologiche da cui prende vita il «pensiero poetante» dantesco va in effetti sempre al di là di una semplice adesione o confutazione della fonte, e implica un’assimilazione profonda in cui la voce del predecessore è trasformata in segno portatore di un significato e di un messaggio rinnovati, quali elementi vivi e intimamente strutturanti del nuovo universo poetico. Alle difficoltà sollevate dalle caratteristiche dell’istruzione e dalla concezione dell’auctor su cui si fonda l’approccio medievale al sistema dei saperi si aggiunge dunque, in sommo grado nel caso della Commedia, l’assoluta l’irriducibilità di qualunque fonte testuale al semplice valore di citazione, quale monito preliminare per ogni indagine di tipo intertestuale intorno alla formazione intellettuale di Dante.
Con riferimento specifico alle letture propriamente filosofiche o teologiche su cui sorgono le fondamenta teoriche, dottrinarie, del pensiero dantesco è per questo importante avere in vista le tradizioni testuali che possono aver mediato una concezione relativa allo statuto di verità e alla funzione etica della creazione letteraria: intendo, cioè, le linee di riflessione di ambito religioso che aprono la possibilità di una concezione della poesia non come veicolo espressivo di una determinata dottrina (il che significherebbe una poesia al servizio di una particolare posizione ideologica), ma come espressione pit pura del discorso teologico in quanto discorso sull’Essere. Saranno cioè da guardare con particolare attenzione (come già invita a fare, con alterna fortuna, la critica anche recente) le varie forme della letteratura allegorica medioevale, che si ancorano nella lettura del testo sacro e in cui, dunque, il procedere dell’argomentazione teologica si avvicina agli strumenti espressivi per eccellenza poetici e dove è particolarmente evidente «l’esistenza di analogie tra poesia e Scrittura» (in cui, cioè, per dirlo ancora con Boccaccio, «teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire», dove «uno medesimo sia il suggetto; anzi [...] la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio», sicché «bene appare, non solamente la poesì essere teologia, ma ancora la teologia essere poesia»).
Di questo ampio retroterra culturale fanno parte, in estrema sintesi, le tradizioni teologiche — quella cistercense, quella vittorina, quella rappresentata dalla Scuola di Chartres, o quella espressa dalle più alte figure del pensiero francescano – che, sulla scia di un ripensamento cristiano di istanze neoplatoniche, propongono una riflessione profonda sullo statuto ontologico e gnoseologico dell'immagine, e di conseguenza sul valore conoscitivo di tutte le figure imperniate sull’uso traslato di segni, in primo luogo la metafora e l’allegoria, la quale, «utilizzata sia come forma strutturale sia come forma esegetica, è proprio il punto dove la poesia e l'ideologia della Commedia si sovrappongono nel modo pit stretto e definiscono non solo i suoi tratti testuali, ma anche il suo carattere semiotico, cioè, la sua identità segnica».
Un’enfasi del tutto particolare va posta perciò sull'importanza dei testi esegetici nella ricostruzione del tessuto di fonti e richiami che sostanzia quello che Harald Weinrich ha definito il theatrum memoriae della Commedia, per almeno due aspetti, o due funzioni di altissimo valore nella prospettiva della genesi del «poema sacro». L’esegesi cristiana fondata sull’illustrazione della polisemia del testo sacro da una parte apre la strada, attraverso le potenzialità del linguaggio allegorico, al passaggio dalla dimensione temporale circoscritta verso quella universale, e rende patrimonio condiviso l’idea di una coincidenza o sovrapposizione fra livello storico, individuale, e livello universale, in prospettiva escatologica. Questa coincidenza non emerge quale frutto di argomentazione logica o razionale, ma unicamente grazie al senso dinamico della macchina allegorica: di conseguenza va riconosciuto nella pratica dell’esegesi prima, e nei singoli testi esegetici poi, uno dei fondamentali modelli di “manipolazione” del linguaggio finalizzata all'espressione di una verità essenziale. Essi costituiscono, inoltre, degli importanti repertori di immagini poetiche già legittimate in sede dottrinaria, il cui reimpiego diventa perciò, nel tessuto del poema, una trama di rinvii all'ambito della grande narrazione biblica e alla sua verità dispiegata sui vari livelli: letterale, morale, allegorico, anagogico.
Una delle teologie cui spetta un ruolo emblematico sul piano della pratica esegetica medioevale è quella formulata nell’ambito della Scuola parigina di San Vittore, uno dei centri vitali del panorama intellettuale della Francia fra il XII e il XIV secolo, dove si affianca alla tradizione scolastica una disciplina di pensiero ancorata nella psicologia agostiniana e nel simbolismo dionisiano, e in cui la speculazione teorica non è mai scissa da un esercizio di evoluzione spirituale. A Ugo di San Vittore, il rappresentante più noto e autorevole della scuola, è dovuta una delle riflessioni capitali sulle forme della lettura allegorica del testo sacro come base essenziale di ogni formazione intellettuale: dove la speculazione teologica è, cioè, fortemente ancorata nella parola del testo sacro. Su queste premesse nell’ambiente della Scuola vittorina si sviluppa e giunge a massima fioritura anche il peculiare metodo di lettura delle Scritture che si definisce «esegesi visiva» (cfr. cap. III). Si tratta, come indica la formula, di un metodo ermeneutico e insieme mnemonico, sofisticato erede delle antiche artes memoriae, fondato sulla visualizzazione mentale e materiale del testo sacro quale passaggio indispensabile per l’accesso verso l’autentico senso allegorico. L'esegesi visiva presuppone infatti un percorso di rappresentazione in immagini mentali e materiali dei «quattro sensi della Scrittura»: in forma di disegno, schema, diagramma o persino maquette tridimensionale sono raffigurati e compresi sia la historia dei testi biblici intepretati, sia i significati corrispondenti allegorici. Così, l'’esegesi visiva vittorina presuppone necessariamente anche la creazione dell'immagine materiale quale terreno di esercizio per la mente nella ricerca del significato ulteriore: il passaggio attraverso la visualizzazione renderà visibile il senso del testo. A questo accessus sul piano ermeneutico si associa una finalità di natura spirituale, dato che l’attività interpretativa è ritenuta generatrice di una trasfigurazione interiore, sicché le rappresentazioni iconiche del testo sono prevalentemente dei «supporti per la meditazione», mentre l’esito della pratica è di natura propriamente contemplativa, di possesso interiore della verità depositata e “velata” nel segno del testo.
L’esegesi vittorina, presupponendo la stratificazione e la compresenza simultanea dei diversi livelli di significato nell'immagine, si fonda di fatto su un'articolata rivalutazione della vis imaginativa e su un ripensamento di matrice neoplatonica dei rapporti fra questa e le altre facoltà dell’anima. Questa concezione, definibile in senso ampio come «simbolismo vittorino», sviluppato a partire dal neoplatonismo dionisiano, riconosce nella realtà sensibile il riflesso di quella spirituale: «in der Seiendes als Abbild fir den es bedingenden urbildlichen Grund wahrgenommen und gedeutet wird»: premessa che garantisce che le rappresentazioni sensibili del mondo comunicano a li vello ontologico con le realtà superiori. In questo senso le immagini fantasmatiche, riflessi per speculum di verità essenziali, fanno cenno all’organizzazione della realtà terrena secondo una gradualità o gerarchia di stati immaginativi, corrispondenti ad altrettanti gradi di similitudo con l’Essere.
Nel contempo, secondo l’“l’economia dell'anima” formulata dai Vittorini la vis imaginativa, proprio in virtù della sua funzione indispensabile nei processi di conoscenza, può assumere anche una posizione elevata, in particolare nei contesti in cui si sottolinea la sua valenza creatrice. La fantasia rimane cioè, aristotelicamente, l’istanza di mediazione fra esterno e interno, che consente la traduzione dei dati della percezione in idee; ma diventa anche, attraverso la mediazione del neoplatonismo, la sorgente della creatività, grazie alla sua capacità di produrre immagini interiori.
A Ugo di San Vittore dobbiamo alcune delle formulazioni più originali, anche sul piano dell’imagery impiegata, circa tale concezione dell’imaginatio quale veicolo e principio di unione fra cielo e terra, spirito e materia: un tema che percorre la maggior parte della sua opera e fonda la dottrina teologica ed esegetica della mistica vittorina. Una sintesi particolarmente efficace in tal senso, e di interesse nella prospettiva dantesca, è compresa nel breve trattato didascalico De unione corporis et animae, dall’ampia diffusione in epoca medioevale, in cui è chiaramente affermato il ruolo unitivo dell’immaginazione nel congiungere spirito e materia, corpo e anima: il luogo di tro, dunque, fra il corporeo e l'incorporeo. Un brano in particolare si impone all’attenzione, in prospettiva dantesca, in cui Ugo rappresenta le gradazioni della “partecipazione” dell’imaginatio alla parte razionale e spirituale dell’uomo:
Nichil autem in corpore altius vel spirituali naturae vicinius esse potest quam id ubi post sensum et supra sensum vis imaginandi concipitur [...]. Ipsa itaque vis ignca, quae extinsecus formata sensus dicitur, cadem forma usque ad intimum transducta imaginatio vocatur. [...] Haec autem in rationalibus purior fit [...]. Rationalis autem substantia corporea lux est; imaginatio vero, in quantum corporis imago est, umbra est. Et idcirco postquam imaginatio usque ad rationem ascendit, quasi umbra in lucem veniens et luci superveniens, in quantum ad eam venit manifestatur et circumscribitur, in quantum illi supervenit obnubilat ea et obumbrat et involvit et contegit.
Notevole è, in questa concisa formulazione, il modo in cui è proposto e rielaborato il radicamento neoplatonico dell’imaginatio nella metafisica della luce. In quanto elemento di transizione ma anche di unione fra corpo e anima, in rapporto con la sensibilità ma protesa verso la ragione e l’intelligenza, l’immaginazione può essere assimilata, secondo Ugo, all’ombra: intesa però, come vuole la sottigliezza classificatoria del pensiero medioevale, non come sinonimo di tenebra (cioè di assenza della luce), ma quale segno visibile dell’incontro fra la luce e un oggetto che la ostacola e la trattiene. È precisamente attraverso questo incontro, infatti, che la presenza della luce diventa visibile all'occhio umano: pit che esprimere una negatività, dunque, in questo contesto l’ombra forma il pernio di una dialettica fra luce e materia, e definisce la zona dove, nel reciproco delimitarsi di queste due dimensioni, si determinano le condizioni stesse della visibilità. Se tanto la luce pura quanto l'oscurità assoluta escludono la possibilità di vedere, le varie gradazioni di una luminosità temperata formano lo spazio proprio delle immagini percepite, nella misura in cui «la visibilité du monde résulte [...] d'une compétition entre la lumière et l’ombre».
Per questa sua natura di confine, l'ombra è fin dall’antichità fortemente e in vario modo connessa al problema dell'immagine e soprattutto della rappresentazione: in quanto tale condivide la stessa ambivalenza attribuita, nella riflessione medioevale, alle immagini in senso lato, assumendo talvolta – come accade anche nel brano di Ugo – proprio una valenza sinonimica rispetto al concetto di “immagine”. Come l’immagine, infatti, su un piano archetipico all’ombra appartiene una potenzialità conoscitiva, nel rendere visibile e accessibile al pensiero umano ciò che altrimenti lo sovrasterebbe, per eccesso di luminosità; ma essa partecipa anche di quella stessa mutevolezza e imprendibilità dei fantasmi che stanno, secondo la concezione in senso lato aristotelica dominante nella filosofia medioevale, alla base della conoscenza umana. In questa prospettiva, a mio avviso, l'assunto espresso da Ugo aiuta a decifrare più nel profondo il senso di quell’«ombra del beato regno» trattenuta nella memoria, chiamata (in Par., I 23) a indicare il tessuto verbale e immaginifico del «poema sacro». Nella dimensione umbratile si condensa, infatti, la definizione della natura segnica del Paradiso quale traccia di un’esperienza vissuta ma indicibile, accessibile al linguaggio e alla lettura solo grazie al “calarsi” della pura luce nelle zone intermedie dell'ombra, cioè dei metaphorismi quali veicoli di verità nella scrittura: quale «manifestazione sensibile del Sol intelligibilis, “altro sole”», quello sensibile dell'esperienza umana, può diventare nel poema solo un segno «tralucente nell'ombra rimasta “segnata” nella mente del poeta».
Sulla stessa linea Riccardo di San Vittore, discepolo ed erede spirituale di Ugo, sviluppa la teoria dell’imaginatio in particolare nel suo trattato più noto e diffuso, conosciuto come il Beniamin maior (trattato certamente noto anche a Dante). Qui le premesse impostate da Ugo di San Vittore intorno al ruolo dell’imaginatio quale gradino intermediario, necessario, per accedere a una conoscenza “di livello ulteriore”, sono sviluppate in maniera particolarmente articolata e portate, per cosî dire, alle loro estreme conseguenze. Alla funzione dell’immaginazione sono infatti dedicate numerose pagine del trattato, in cui sono descritte le modalità e i vari livelli con cui questa facoltà umana opera, i diversi “gradi” di contatto con la realtà sensibile che può mantenere. Riccardo impiega e modula in modo molto esteso ad esempio il motivo della scala dell’immaginazione, come progressione di visioni sempre pit spirituali, e articola dettagliatamente il presupposto dionisiano dell’imaginatio quale manuductio – letteralmente “accompagnamento” per mano – utilizzata dalla ragione per avvicinarsi alle realtà celesti.
Ciò che interessa soprattutto in questo contesto è l'enfasi posta da Riccardo sulla pit “alta” ipostasi della fantasia o immaginazione: che si realizza al di là della percezione sensibile e viene pertanto a coincidere con la potenza creatrice, poietica, della mente umana. Sono i luoghi testuali che descrivono la formazione, attraverso le immagini della mente, di un vero e proprio “cosmo interiore”, dove, mediando fra materia e forma, l'immaginazione tiene il luogo del «primo cielo» – assume cioè, in questa vera e propria cosmologia trasferita nell’interiorità, il luogo del cielo visibile nel mondo reale, cielo che «omnium, quae terra gignit atque nutrit, multitudinem sinus sui magnitudine comprehendit»:
Profundum siquidem, immo et prauum est cor hominis et inscrutabile [...]. In hoc sane profundo inuenies multa stupenda et admiratione digna. Ibi inuenire licet alium quemdam orbem, latum quidem et amplum, et aliam quandam plenitudinem orbis terrarum. Ibi sua quedani terra suum habet celum, nec unum tantum, sed secundum post primum, et tertium post primum et secundum. [...] Tenet itaque imaginatio uicem primi celi, ratio secundi, intelligentia uero uicem tertii. Et horum quidem primum ceterorum comparatione grossum quiddam atque corpulentum et suo quodammodo palpabile atque corporeunti, eo quod sit imaginarium atque phantasticum post se trahens et in se retinens formas, et similitudines rerum corporalium. [...] Quod autem est terra ad hoc visibile celum, hoc est sensus corporeus ad illud internum phantasticum et imaginarium celum. Nam sicut hoc uisibile celum omnium que terra gignit atque nutrit multitudinem sinus sui magnitudine comprehendit, si cn que sensus attingit, appetitus suggerit, similitudines intra sinum suum imaginatio includit.
A un gradino superiore – quello dell’«alta fantasia», per usare un'espressione dantesca – si sviluppa la potenza creatrice dell’imaginatio, che si fa portatrice di un’“arte” interiore, nel «dipingere» e «formare nella rappresentazione» tutto ciò che tocca i sensi e l’intelletto. Ma soprattutto, l'immaginazione si incarna nella figura di artefice e regista di un vero e proprio nuovo mondo – mundus fantasticus – sul cui palconscenico muove le sue creature secondo il proprio piacere: Riccardo descrive qui quasi una figura di demiurgo interiore, grazie al quale la vita dell'anima prende forma nelle immagini mentali:
Sed de imaginationis agilitate facultatisque cius facilitate, quid nos dicturi sumus, uel quid inde digne dicere possumus, que omnium eorum que animus suggerit in tanta uelocitate imaginem depingit? Quicquid a foris animus per auditum haurit, quicquid ab intus ex sola cogitatione concipit, totum imaginatio absque mora, et omni difficultate seposita, per representationem format, et quarumlibet rerum formas sub mira festinatione representat. Quale, queso, est tot rerum atque tantarum in momento in ictu oculi picturas efficere, et iterum casdem eadem facilitate delere uel alio atque alio modo multiformiter uariare? Nonne per imaginationem animus cotidie nouum celum, nouam terram cum uoluerit creat, et in illo fantastico mundo quasi alius quidam creator quantaslibet eiusmodi generis creaturas omni hora actitat, et pro arbitrio format?
Con gesto ancora pit radicale, Riccardo arriva ad ancorare nel potere creatore dell’immaginazione un riflesso della similitudo fra l’uomo e il Creatore: nel passo che segue, tratto dal IV libro del Beniamin maior, una sorprendente, audace assimilazione mette in continuità diretta l’attività del Dio opifex, operoso nella “invenzione” del mondo, e il potere, posseduto dall’uomo solo attraverso la sua facoltà immaginativa, di creare dal nulla. Il Vittorino propone dunque un’ardita riattualizzazione della «metafora platonica del Deus opifexdi cui l’uomo creatore mima l’azione»: un’analogia che consente di leggere la stessa creazione poetica in cui il poeta produce un universo «ex nihilo» non come attività antagonistica rispetto alla potenza creatrice divina, ma come compimento della similitudine fra Creatore e la sua creatura, come compiuta realizzazione dell’icona divina nell’uomo:
Si miraris quomodo ille omnium opifex Deus tot et tam uarias rerum species prout uoluit in ipso mundi exordio ex nihilo in actum produxit, cogita quam sit humane anime facile omni hora quaslibet rerum figuras per imaginationem fingere et quasdam quasi sui generis creaturas quotiens uoluerit sine preiacenti materia, et uelud ex nichilo formare, et incipiet minus esse mirabile quod prius forte uidebatur incredibile. In quo et illud inuenies ualde notabile, quod rerum ueritatem, qui summa ueritas est, reseruauit sibi, rerum vero imagines qualibet hora formandas sue concessit imagini.
Soprattutto, vorrei mettere in evidenza il valore di verità connesso da Riccardo all'attività creatrice dell’immaginazione: nel parallelismo stabilito fra la verità pura, riservata all’intelletto divino, e la formazione dell'immagine nella mente dell’uomo, quale modalità appunto umana di avvicinamento e di contemplazione indiretta della verità. Cost nella teoria gnoseologica formulata nella Scuola di San Vittore (e massimamente in queste righe di Riccardo) si sviluppano le basi di una concezione della fantasia, anche nella sua ipostasi «alta», in cui l'immagine interiore può diventare segno e impronta della verità, più e oltre la caducità del mondo percepito: e farsi dunque strumento di una forma di assimilazione a Dio, di recupero dell’originaria somiglianza con Dio in un’imago che apre l’accesso alla verità, e che nasce dal potere creativo della mente umana. Proprio in questa cornice ideologica, che ha «elaborato una tecnica della fantasia creatrice, quella facoltà altissima, concessa a pochi, [...] che permette di dare una consistenza sensibile ai dati di un vissuto in sé ineffabile», la poesia si configura come la forma pit autentica di accesso alla verità, poiché consente di «riscoprire dietro l’immagine sfigurata dell’uomo la somiglianza con Cristo».
Credo sia comunque evidente, pur nella brevità della sintesi in cui ho compresso l’articolata teoria vittorina, che ci troviamo, con questa complessa meditazione sulla creazione di immagini, di fatto molto vicini a una teoria dell’arte, o meglio a una sorta di fondazione dogmatica, in sede di riflessione religiosa, del valore insieme conoscitivo ed etico della creazione artistica e letteraria. D'altra parte, è significativo che proprio questa tradizione di pensiero concepisca l’excessus mentis quale esito della contemplatio, al calmine di un percorso di ascensione attraverso l'immaginazione sempre pit pura, nei termini della “fioritura” ed “esplosione”di un'alta esperienza visionaria.
Con la teologia contemplativa e la «mistica affettiva» della Scuola di San Vittore si compie così, nella forma forse più alta, la rielaborazione in chiave cristiana di una teoria dell'immagine creatrice dalle radici neoplatoniche, con esiti affini a quelli del misticismo arabo mediato dal pensiero di Avicenna e di Ibn ‘Arabî. Il mundus fantasticus che la mente comprende in sé attraverso il potere dell’imaginatio possiede infatti le stesse caratteristiche di quel mundus imaginalis, quella dimensione spirituale «intermedia e intermediaria» fra il materiale e l’intelligibile, sostanziata interamente di immagini e ancorata nel potere conoscitivo, noetico, della facoltà dell’immaginazione, indagata da Henry Corbin con riferimento in particolare alla tradizione del neoplatonismo arabo. Il grande studioso della spiritualità islamica insiste sulla necessità di ricorrere, nella definizione, a un sintagma latino, per sfuggire alle connotazioni di “irrealtà” e di “mancanza di consistenza” (dunque di “finzione” nel senso della non-verità) che i termini equivalenti a imaginatio possiedono nelle lingue moderne; poiché la “patria delle immagini”, il mundus imaginalis dei filosofi neoplatonici si pone, al contrario, proprio quale territorio interiore e spirituale della verità autentica, a cui si accede grazie alla facoltà immaginativa pura, cioè libera dalle percezioni sensibili. È anzi in questo luogo interiore che si dà «la premessa necessaria per dimostrare la validità dei sogni e dei resoconti visionari che descrivono e narrano “eventi avvenuti nei cieli”» e la «prova di realtà e di esistenza dei luoghi presenti alla mente durante l’intensa meditazione, la validità delle visioni immaginative profetiche, delle cosmogonie e teogonie e dei sogni fatti nell’al di qua».
Emblematico è, in questa prospettiva, anche il modo in cui la teoria vittorina della contemplazione, come si è detto interamente radicata nel potere dell’imaginatio di veicolare e presentare all’intelligenza anche contenuti trascendenti, riattualizza l’antico motivo dell’edificatio, applicando alla teoria e alla pratica spirituale descritta nei testi uno schema propriamente architettonico, e coniugandola con l’immagine della navigazione. Su questa base, si trovano condensate, nel vero e proprio mundus fantasticus che prende P'«immagine di un tempio» interiore, alcuni dei grandi ambiti metaforici e allegorici – quello architettonico, quello della navigazione – che non restano senza conseguenze anche sul piano della creazione letteraria medioevale, in particolare per quanto concerne la concezione “architettonica” del testo sotto la specie di un edificio: la concezione che ha consentito, in sintesi, di definire la Commedia una «grande cattedrale gotica» (sul piano dell’organizzazione formale) o, più sostanzialmente, quale cosmico theatrum memoriae, rappresentazione spaziale delle passioni dell'anima e dei destini dell'umanità. In un’affine dimensione figurale si colloca, ad esempio, la «navicella dell'ingegno» dantesco, luogo interiore di scaturigine della creazione del «poema sacro», che la critica ha autorevolmente messo in relazione alla spazializzazione delle funzioni della mente formulate nella tradizione medica araba. In questo àmbito, insegnava Averroè, la potenza immaginativa può essere localizzata nella «prora» del cervello rappresentato come una nave: «et dicimus quod virtus imaginativa stat in propra cerebri». La circolazione di questa immagine in ambienti vicini ai protagonisti della letteratura volgare nel Due-Trecento è testimoniata, come ha mostrato recentemente Anna Pegoretti, dalla riformulazione latina di Bartolomeo Anglico, il quale ci informa che «in anteriori cellula sive ventriculo formatur imaginatio [...]. Cognominatur autem pars anterior prora [...]». In una comune e diffusa circolazione di temi e motivi comuni, dunque, l'elaborazione in chiave spirituale dell'immagine dell’edificatio e di quella nautica offerta dai maestri della Scuola vittorina forniva la cornice salvifica ed escatologica, inserendo la “creazione visiva” della poesia in un percorso di metamorfosi interiore attraverso la contemplatio, necessaria affinché una costruzione testuale quale quella del poema dantesco potesse definirsi anche «sacro».
In conclusione, si può affermare che l'«esegesi visiva» praticata nella Scuola di San Vittore, in quanto dà vita a quei «testi di mnemotecnica da “attraversare” per arrivare a una determinata conquista di tipo intellettuale e spirituale», costituisce una delle «teologie» che sorreggono l’architettura testuale del poema. Credo insomma, tenendo conto di quanto «la struttura mnemofila della Divina Commedia» sia «sommamente poetica», che le pratiche di esegesi su cui si fonda la teologia vittorina siano straordinariamente vicine ad alcune delle premesse metatestuali del poema, nella misura in cui esse si fondano oltretutto su una capitale rivalutazione dell’imaginatio e di conseguenza del valore della memoria, alle quali, lungo una linea di pensiero di chiara origine agostiniana, è annesso un valore conoscitivo e una valenza specifica anche sul piano spirituale ed etico. Abbiamo visto infatti che proprio alcune delle teorie dell'immagine su cui si fonda la teologia vittorina si rivelano affini alle premesse metatestuali in particolare del Paradiso, quali sono state portate alla luce anche nella critica degli ultimi anni, particolarmente attenta alla funzione della metafora e all'espressione dell’ineffabile.° In questa prospettiva, ricostruire il contributo della concezione vittorina alla formazione del pensiero dantesco, guardando al sisterna dei saperi in essa delineato e alla concezione del rapporto fra testo e ed evoluzione spirituale del lettore, consente credo di aggiungere un ulteriore elemento all’articolatissimo quadro da cui prende vita il progetto della Commedia.
L’immagine dell'anima creatrice, al pari di un Deus opifex, di un fantasticus mundus negli spazi della propria mente ci avvicina ulteriormente al poeta-teologo Dante, il quale ricrea una historia portatrice di verità nella fictio letteraria: ovvero attraverso la sua nuovissima ars poetica che si misura con le verità celesti, nel tessuto del «sacrato poema»; che contiene – notevolissima circostanza – anche la prima attestazione nella letteratura italiana del termine artista, seppure nella figura dell’«artista / ch'a l'abito de l’arte ha man che trema» (Par. XIII 76-77), e che dovrà infine «desistere» di fronte alla bellezza ineffabile di Beatrice, segno supremo dello splendore della verità («ma or convien che mio seguir desista / più dietro a sua bellezza, poetando, / come a l’ultimo suo ciascun artista»: Par., XXX 31-33).