Dati bibliografici
Autore: Jean Pépin
Tratto da: Enciclopedia Dantesca
Editore: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma
Anno: 1970
Pagine: 151-165
Per valutare correttamente il posto occupato dall'a. nell'opera sia di D. che di qualunque altro, bisogna intendersi anzitutto sul significato del termine.
La nozione di A. - Le due allegorie. - La cosa migliore è partire dalla definizione cento volte ripetuta nell'antichità sia classica che cristiana, e che verrà ripresa nel Medioevo a cominciare dallo stesso D., come presto vedremo. Conformemente all'etimologia greca, l'a. è una figura retorica consistente nel " dire altro " da ciò che vuol significare (cfr. Eraclito Quaest. homer. V 2).
Ma bisogna subito aggiungere che questa tradizionale definizione mette in evidenza un solo significato per un termine che ne comporta due. Essa mette in luce l'a. quale si ritiene praticata dai poeti epici e dagli autori del Vecchio Testamento, vale a dire l'‛ espressione ' allegorica, mentre nulla dice dell'operazione mediante cui i commentatori dei poeti e degli esegeti della Bibbia scorgono, oltre il senso letterale, un senso nascosto, in altre parole dell'‛ interpretazione ' allegorica. Si tratta di due procedimenti, senza dubbio complementari ma di segno contrario, in ogni caso assai diversi: un modo di parlare e un modo di capire, un procedimento retorico e un atteggiamento ermeneutico confusi assieme a partire dall'antichità, e fino ai giorni nostri, sotto il nome di ‘allegoria’ (cfr. H.G. Liddell - R. Scott - H. S. Jones, Greek-English Lexikon, I, Oxford 1940, 69a, dove opportunamente è segnalato per il verbo ἀλληγορεῖν il doppio significato di "to speak allegorically", espressione allegorica, e di "to interpret allegorically", interpretazione allegorica). Qualsiasi ricerca sul ruolo dell'a. in un autore deve vertere su ambedue le accezioni del termine. Nel caso di D., una volta fatto un giro d'orizzonte sul suo lavoro nell'ambito dell'interpretazione allegorica, resterà da vedere se e come egli stesso si è espresso allegoricamente.
A., simbolismo, tipologia. - Grazie alla particolare influenza del Romanticismo tedesco e della psicologia del profondo, oggi si è presa l'abitudine di operare una netta distinzione tra a. e simbolo, come tra artificio didattico e spontaneità della vita. Perché una simile distinzione, peraltro fondata, possa prendersi in considerazione nel caso di D., bisognerebbe, così almeno sembra, ch'essa ai suoi tempi fosse entrata nell'uso. Il che non risulta affatto: la definizione antica e medievale di a. è tanto larga da prestarsi a quasi tutte le varietà dell'espressione figurata, e comunque all'espressione simbolica. Una quantità di testi mostrano come la nozione di σύμβολον rientrasse in quella di ἀλληγορἰα tanto che nel descrivere l'esegesi allegorica della Scrittura qual era praticata dai Terapeuti, Filone d'Alessandria nota che essa comporta la spiegazione dei simboli (Vita contemplativa X 78). Forse nella stessa epoca (I sec. d. C.), il grammatico Demetrio accoppia simbolo e a., osservando che la forza di queste figure, superiore a quella del linguaggio comune, risiede nella loro natura brachilogica che, partendo da una parola, fa capire tutto il resto (Eloc. V 243). D'altra parte è risaputo che i celebri ‛ simboli ' pitagorici, anche se forse non furono tali in origine, alla fine dell'antichità vennero considerati come un tipo d'insegnamento (cfr. Giamblico Vita pythag. V 20), cioè come allegorie. Se questa è la testimonianza dei testi greci, non diversa è quella dei testi latini. Essi caratterizzano la nozione di simbolo con quella di significato nascosto, in opposto al senso chiaro (così Gellio Noct. attic. IV XI 10), e in ciò è possibile scorgere la definizione stessa di a.; quanto agli esegeti della Bibbia, gli avvenimenti ai quali attribuiscono un valore simbolico sono quelli stessi che rivestono tradizionalmente una portata allegorica (cfr. Ilario Tract. in psalm. LXVII 9, quanto agli avvenimenti dell'Esodo). Il Medioevo, quindi, non sembra proprio aver smentito la tarda antichità in questa assimilazione di simbolo e di a.; non c'è dunque motivo di disgiungere le due nozioni quando si tratta di esaminare il loro ruolo in un'opera letteraria medievale.
Se tuttavia dovessimo introdurre in D. una distinzione tra simbolo e a., è segno che a quest'ultima nozione s'è dato un contenuto differente dalla definizione tradizionale. Ed è il caso di Gilson (Dante et la philosophie, Parigi 1939, 72-73, 265) quando oppone ‛ le fredde allegorie ' del Roman de la Rose, che sono astrazioni personificate, ai simboli della Commedia quali Beatrice, Tommaso d'Aquino, Sigieri di Brabante, s. Bernardo, ecc., che sono dei personaggi storici viventi e concreti investiti di una funzione rappresentativa. L'opposizione è innegabile: ogni qual volta si è tentati di considerare un personaggio della Commedia come una finzione significativa, il richiamo di un dettaglio di vita reale subito ci attesta che non lo è affatto (così il sorriso di Beatrice, in Pg XXXI 139-145). Tuttavia, se la tesi è vera per la Commedia, non è parimenti applicabile a tutte le opere di D.: nella Vita Nuova infatti, con stile perfettamente analogo al Roman de la Rose, si parla di signoria d'Amore e delle braccia di madonna la Pietade (XIII 2-3, 6, 9-10). Più avanti, D. si giustifica di presentare Amore come se fosse un uomo che cammina, ride e parla, e lo fa invocando l'esempio dei poeti latini, Ovidio in particolare, nei quali parla Amore, sì come se fosse persona umana (XXV 2 e 8-9). E chiaro soprattutto che una tale concezione di a. non ha niente in comune col significato tradizionale del termine, significato che si ritrova molto di più in ciò che Gilson chiama simbolo. Il che è confermato dal fatto che il celebre storico si trova costretto, alla fine dell'opera (pp. 289-297), a distinguere " due famiglie di simboli danteschi " (osservando con piena ragione che il simbolismo, univoco in caso di finzioni, diventa, nel caso di personaggi reali - Beatrice in particolare - complesso come l'essere vivente) e a far posto, accanto a dei simboli quali i personaggi reali, a quelli che sono pure finzioni, come la selva oscura, il leone, la pantera, la lupa, ecc. (If I 1-60), e anche (op. cit., pp. 88-100) la Donna gentile della Vita Nuova come pure quella del Convivio. Nel ritenere queste due donne identiche e fornite ambedue di sola realtà simbolica, Gilson, come si vedrà, si trova in disaccordo con molti storici. Ora, non c'è dubbio che questa seconda categoria di simboli rientra nell'a, secondo l'accezione più classica del termine. E lo stesso bisognerà dire della prima categoria, una volta considerato che, per lo meno nell'esegesi cristiana, la realtà storica di un personaggio non gli impedisce affatto, anzi tutt'altro, di diventare portatore di un significato allegorico.
Pertanto in D. non opereremo una separazione tra simbolo e a., né tanto meno la opporremo alla ‘tipologia’, malgrado le difese di J. Chydenius. Per quest'ultimo infatti (The Typological Problem in Dante. A Study, in the History of Medieval Ideas, Helsingfors 1958, 144-148) la Commedia sarebbe tipologica nella misura in cui i principali avvenimenti - come ad esempio il viaggio di D. attraverso l'Inferno e il Purgatorio, la sua ascensione dei cieli e soprattutto l'apparizione di Beatrice nel Paradiso terrestre (Pg XXX 22 ss.; da raffrontare con la mirabile visione di Vn XLII 1-3) - vi prefigurerebbero la visione di Dio e la rosa dei beati nel Paradiso (Pd XXX-XXXIII). Ma giacché questo modello tipologico della Commedia trae evidente ispirazione dalla tipologia biblica, bisogna osservare che egli se ne discosta su un punto fondamentale, in quanto la tipologia biblica riposa sulla realtà storica dell'avvenimento passato, che rappresenta il ‘tipo’ dell'avvenimento a venire, mentre è difficile pretendere che l'itinerario di D. nell'oltretomba e la stessa apparizione di Beatrice alla fine del Purgatorio siano altro da finzioni. Ma una finzione può sopportare un'interpretazione tipologica? D'altronde è fuor di dubbio che le nozioni di tipologia e a. devono essere in sé stesse distinte. Quanto meno, la prima è da considerare come una specie particolare, e propriamente cristiana, della seconda; ma non va dimenticato, e Chydenius l'ha ricordato (The Theory of Medieval Symbolism, Helsingfors 1960, 16-18), che il periodo patristico e medievale riunisce queste due nozioni sotto il nome comune di a., consentendo, sulla scia di Agostino (Trin. XV 9, 15), alla semplice specificazione della prima come allegoria in facto, lasciando poi alla seconda tutta la sua estensione nel designarla come allegoria in verbis. In simili condizioni parrebbe fuori di luogo, nel caso di un autore medievale come D., alzare un muro tra tipologia e a., per le quali gli stessi medievali conoscevano un solo vocabolo. Tanto più che l'esistenza stessa di una tipologia interna alla Commedia resta controversa.
Manterremo quindi all'a. dantesca tutta la sua ampiezza semantica in rapporto alla definizione etimologica del termine, e tale da non lasciar fuori le nozioni di simbolismo e di tipologia. Non è a dire che essa inglobi tutti i procedimenti espressivi figurati. Ad esempio non si comprenderanno nel numero delle a. le similitudini registrate da L. Venturi (Le similitudini dantesche, ordinate, illustrate e confrontate, Firenze 1889), cioè i ‘paragoni’ di D., molteplici e spesso mirabili, del tipo ‘come... così’. Anche questa esclusione risulta conforme all'uso antico che, almeno da Aristotele in poi (Rhet. III 4, 1406b 20-24), distingueva tra metafora (e l'a. è una metafora continua) e immagine, in quanto queste due figure sono caratterizzate rispettivamente dall'assenza o dalla presenza della congiunzione ‘come’.
Le tre esposizioni di D.: Convivio. - Lo scopo del Convivio è noto: organizzare un immaginario banchetto la cui vivanda è rappresentata da canzoni (senza dubbio composte in precedenza; dovevano essercene quattordici) spesso oscure, e il cui pane consiste in un commento destinato a far luce su questa oscurità (Cv I I 15). Siccome la reale intenzione di queste canzoni differisce da quella apparente, si tratterà, una volta espostane la litterale istoria, di spiegarle mediante a. (I I 18). Sicché, per le canzoni, la distinzione tra un senso letterale apparente e un senso allegorico più vero viene posta preliminarmente. All'inizio del secondo trattato, D. ripete che la spiegazione dev'essere letterale e allegorica. A prova di ciò ricorda che le scritture (in cui annovera le sue canzoni) vanno interpretate secondo quattro sensi.
Il testo del Convivio presenta qui una lacuna che viene diversamente ricostituita. Ci atteniamo all'integrazione di Parodi, accettata da G. Busnelli-G. Vandelli, per cui vedi la nota ad l. e l'appendice I (il Convivio, I, Firenze 19642, 240-242). Sulla teoria dei quattro sensi nel Convivio e nell'Epistola a Cangrande, da vedere B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944, 56-61; A. Pézard, D. sous la pluie de feu (" Enfer" chant XV), Parigi 1943 e 1950, 252-253; J. Chydenius, The Typological Problem in D., cit., pp. 44-50; H. De Lubac, Exégèse médiévale. Les quatres sens de l'Écriture, II II, Parigi 1964, 319-324.
I quattro sensi considerati da D. sono (Cv II I 1-7):
1. Senso litterale, limitato alla lettera delle finzioni, delle parole fittizie.
2. Senso allegorico, nascosto sotto le favole, come la verità sotto una bella menzogna. Sicché, quando Ovidio dice (Met. XI 1-2) che Orfeo ammansiva le fiere e attirava a sé alberi e pietre, intende dire che il saggio, con la propria parola, addolcisce i cuori crudeli e fa muovere a sua volontà quelli che sono privi di vita razionale. I teologi prendono questo senso altrimenti che li poeti, ma D. seguirà questi ultimi.
3. Senso morale, definito mediante la sua utilità. Ad esempio, se solo tre apostoli assistono alla trasfigurazione (Matt. 17, 1-9), bisogna intendere che alle cose molto segrete occorre avere pochi testimoni.
4. Senso anagogico o sovrasenso. Si tratta della spiegazione spirituale, ordinata alla vita eterna, di un testo che peraltro è vero nel senso letterale. Nel caso di Ps, 113 (quando Israele esce dall'Egitto, la Giudea è resa libera), oltre la sua verità letterale, manifesta, esso spiritualmente significa che l'anima, uscita dal peccato, è restituita alla propria sovranità.
Dopo di che (§§ 8-14) assistiamo alla celebrazione del senso letterale che deve venire prima di tutti gli altri (soprattutto rispetto all'allegorico, dice quattro volte D.). In questo caso l'argomentazione è assai serrata, e propriamente sillogistica:
1. Sarebbe impossibile non cominciare dal senso letterale visto che: a) di una cosa si accede prima al di fuori e poi al di dentro, e il senso letterale è il di fuori delle scritture, in cui tutti gli altri sono inclusi; b) la forma non sopravviene se non in un soggetto materiale precedentemente disposto, e il senso letterale è soggetto e materia di tutti gli altri; c) nel caso sia di una casa che della scienza, non si può edificare altro che cominciando dalle fondamenta, e la dimostrazione letterale è fondamento alle altre.
2. Ammessa pure la possibilità di non cominciare dal senso letterale, ciò sarebbe irrazionale; difatti, come dice Aristotele (Phys. I 1, 184a 16-21), la natura vuole che la conoscenza proceda dal più conosciuto al meno conosciuto; ebbene, il senso letterale è il meglio compreso dí tutti gli altri.
In tal modo D. si propone di spiegare per ciascuna delle sue canzoni, dapprima il senso letterale, poi quello allegorico e, all'occasione, gli altri sensi (II I 15). Di fatto, per la parte che scriverà del Convivio, D. si manterrà fedele a questo programma, per lo meno per quanto concerne i primi due sensi. Per esempio, commentando la canzone Voi che 'ntendendo, egli nota il passaggio dalla spiegazione letterale (secondo cui questo primo verso è indirizzato alle intelligenze angeliche motrici del cielo di Venere) alla spiegazione allegorica e vera (II XII 1; al § 2 è presente la menzione dei maestri di retorica quali Cicerone e Boezio) o, ancora, dall'esposizione fittizia e litterale alla vera sentenza (II XV 2). La successione delle due interpretazioni è parallelamente sottolineata nel commento alla canzone Amor che ne la mente (III X 10, XIV 1, XV 20). Quanto all'esegesi morale e anagogica, esse appaiono saltuariamente, come in II XV 6, dove il terzo verso di Voi che 'ntendendo, dopo esser stato oggetto di interpretazione letterale, viene riconosciuto portatore d'alcuna moralitade, relativamente ai problemi dell'amicizia. Il penultimo dei quindici trattati che dovevano formare il Convivio avrebbe mostrato, dice D., perché questo nascondimento [allegorico] fosse trovato per li savi (II I 4). Diversi passi dei quattro primi e unici trattati lasciano intuire i termini di questa promessa: se la canzone Voi che 'ntendendo parla di un amore per una donna gentile - e non per madonna Filosofia, che è tuttavia il reale oggetto -, se essa nasconde il vero sotto figura d'altre cose, è perché egli non sarebbe degno di poetarne apertamente, e gli uditori non sarebbero in grado di cogliere un discorso senza finzione. A quest'enunciazione del duplice merito dell'espressione allegorica (essa conviene solo ai soggetti più elevati e nello stesso tempo dà qualcosa in pasto agl'ingegni superficiali), fa seguito una notevole definizione dell'interpretazione allegorica: essa volge la parola fittizia di quello ch'ella suona in quello ch'ella 'ntende (II XII 8-10). D., in quest'arte difficile, si pretende maestro: egli sotto figura d'a. mostrerà la vera sentenza delle sue canzoni, che per alcuno vedere non si può s'ionon la conto. Esegesi non soltanto piacevole a intendersi, ma in grado d'insegnare altrettanto bene la tecnica dell'espressione allegorica quanto l'interpretazione allegorica degli scritti degli altri autori (I II 17). Da notare in quest'ultimo testo, nettamente formulata, la distinzione dei due sensi del termine a. di cui ricordavamo la necessità.
Monarchia. Il trattato della Monarchia tocca il problema dell'a. in maniera accidentale ma interessante. Alcuni avversari di D., guelfi sicuramente, per stabilire la dipendenza dell'autorità dell'Impero da quella della Chiesa, traevano spunto da Gen. 1, 16, ove si parla della creazione del grande e del piccolo luminare: quest'ultimo, la luna, non ha altro splendore che quello ricevuto dal primo, il sole. In questi due luminari essi vedevano, allegorice dicta, i due poteri e vi trovavano la prova che il potere temporale non ha altra autorità che quella ricevuta dallo spirituale (Mn III IV 1-3). A ciò D. risponde che circa sensum mysticum si compiono generalmente due errori: cercarlo dove non c'è oppure intenderlo diversamente dal dovuto. Ambedue questi errori D. denuncia per mezzo di testi di s. Agostino, uno tratto dal De Civitate Dei (XVI 2), il quale afferma che non tutti i fatti narrati dalla Scrittura hanno per di più un senso nascosto, "Non... omnia, quae gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt", e afferma che quelli che ne sono sprovvisti sono introdotti in funzione di altri; l'altro testo agostiniano, sulla traccia del De Dottrina christiana (I 36, 41-37, 41), considera quelli che vedono nella Scrittura altro dall'intento dell'autore sacro, commettendo l'errore di preferire un giro vizioso alla via diritta, con i rischi che una tale abitudine comporta per la fede (III IV 6-9). D. applica questa duplice avvertenza ai suoi avversari e si dà a distruggere la loro interpretazione dei due luminari ritenuti rappresentare figuratamente (typice importare) i due poteri (§ 12). Poco importa qui l'argomentazione di D., che è per altro artificiosa quasi quanto l'esegesi incriminata. Ciò che andava rilevato è la condanna degli eccessi e delle deviazioni dell'interpretazione allegorica. E a tal riguardo va ricordato Pd XIII 127-129, dove s. Tommaso, nel denunciare la precipitazione nel giudizio, porta come esempio la demenza di Sabellio e di Ario che hanno sfigurato il vero volto della Scrittura. Indubbiamente quello che D. rimprovera a questi eresiarchi è l'abuso e lo sviamento dell'a., e a conferma della parentela tra i due testi vale la comune menzione di Parmenide e di Melisso in Mn III IV 4 e Pd XIII 125, come esempi di spiriti fallaci.
L'Ep XIII, come si sa, rappresenta un'introduzione alla Commedia, indirizzata come omaggio a un benefattore di D., Cangrande della Scala signore di Verona, e la cui autenticità è sospetta.
Tra i fautori dell'autenticità citeremo G. Boffito, L'Epistola di D. A. a Can Grande della Scala. Saggio d'edizione critica e di commento (in " Memorie R. Accademia delle Scienze di Torino ", cl. di scienze mor., stor. e filolog., s. II, LVII, Torino 1907, 1-39), e F. Mazzoni, L'Epistola a Cangrande (in " Atti della Accademia dei Lincei " s. VIII, X, Roma 1955, 157-198). Tra gli avversari, F. Schneider, Der Brief an Can Grande (in " Deutsches Dantes- Jahrbuch " XXXIV-XXXV, Weimar 1957, 3-24, e C.G. Hardie, The Epistle to Cangrande again, ibid. XXXVIII, 1960, 51-74).
A parte ogni giudizio al riguardo, non ci si può esimere dall'allegare questo testo alla documentazione sull'a. dantesca, tanto considerevole è il suo apporto, sia D. o no il suo estensore. Difatti vi si legge che la Commedia non ha un senso semplice, ma molteplici sensi, che è polisemos: al primo senso, quello letterale, se ne aggiunge un altro (quello dei significati della lettera) e questo secondo senso è allegorico o morale o anagogico.
Tale dottrina (eccettuata ovviamente la sua applicazione alla Commedia) coincide quasi del tutto con quella del Convivio. Parimenti comune ai due testi è l'esempio del salmo 113 In exitu Israel de Aegipto, di cui il Convivio offriva solo il senso letterale e anagogico, mentre qui gli vengono applicate le quattro interpretazioni: secondo la lettera si tratta di un avvenimento della storia degli Ebrei; secondo l'a. rappresenta la nostra redenzione tramite Cristo; nel senso morale è la conversione dell'anima che passa dal peccato alla grazia; nel senso anagogico, infine, è la liberazione dell'anima santa che esce dalla schiavitù della morte per entrare nella gloria eterna (exitus animae sanctae ab huius corruptionis servitute ad aeternae gloriae libertatem, § 21). L'autore si ricorda qui di un'altra Epistola, quella di s. Paolo ai Romani (8, 21): "liberabitur a servitute corruptionis in libertatem gloriae". Questa era già l'interpretazione di Cv II I 6-7, questa ancora, implicitamente, quella di Pg II 46-48, in cui troviamo lo stesso salmo 113 - per altro comunemente usato nella liturgia dei funerali -, intonato dalle anime guidate dall'angelo psicopompo alle rive del Purgatorio. Questi riscontri mostrano che l'autore dell'Ep XIII, nel caso non sia D., si trovava con lui in una profonda comunione di pensiero e di sentimento. Da una parte, quindi, il senso ‘letterale o istoriale’; dall'altra i tre sensi ‘mistici’ che, malgrado la diversità delle loro denominazioni, possono essere tutti designati, in via generale, allegorici, nella misura in cui differiscono dal senso letterale; ‘allegoria’ infatti viene dal greco alleon, "altro" o "differente" (Ep XIII 20-22).
Dovendosi così prestare a due interpretazioni, il soggetto della Commedia, evidentemente, sarà duplice. Secondo la lettera, indica lo stato delle anime dopo la morte preso in assoluto; allegoricamente, l'uomo libero che, carico dei suoi meriti e dei suoi demeriti, si presenta alla giustizia §§ 23-25). Tuttavia, in questo caso si tratta del soggetto dell'intera opera; quanto alla parte che viene offerta a Cangrande, cioè il Paradiso, essa ha per soggetto letterale lo stato post mortem, non già di tutte le anime indistintamente, ma di quelle dei beati, e per soggetto allegorico, non già tutto l'uomo presente alla giustizia, ma quello meritevole che si appresta a riceverne ricompensa §§ 33-34). La duplicità del soggetto rende necessaria una duplice interpretazione. L'autore dell'Epistola abbozza l'esposizione della lettera avvertendo che si limiterà a far apparire la forma dell'opera, vale a dire le sue grandi linee §§ 42-43).
Verso la fine del testo (§§ 83-84), incontriamo un'interessante osservazione sulla ragion d'essere dell'espressione allegorica. Tornato dal Paradiso dove ha visto la realtà divina, il poeta l'ha dimenticata o, qualora se ne rammenti, la sua parola è impotente a esprimerla. In Cv III IV 4 e 11-13, era già stata formulata la stessa idea: siccome la parola ha mezzi più limitati del pensiero, non può seguirlo dappertutto, e i difetti delle rime sono scusabili quando il soggetto trattato è l'amore per la donna della canzone Amor che ne la mente (su questo tema del linguaggio che vien meno nel racconto di determinate esperienze, vedi anche If XXVIII 1-6 ss.). Vediamo in che cosa una tale constatazione tocca il problema dell'a.: se certe visioni dell'intelletto sono intraducibili in linguaggio chiaro, sermone proprio, la via d'uscita è il ricorso alle metafore, come lascia intendere l'esempio di Platone. Ma non ci si è dimenticati che la metafora ha la stessa natura dell'allegoria. Allegando l'esempio di Platone, l'Epistola XIII coincide con l'importante passo di Pd IV 40-63, dove vediamo Beatrice spiegare a D. perché le anime sante, che in realtà risiedono tutte nell'Empireo, gli appaiono situate nei diversi cieli a seconda del loro grado di beatitudine: la ragione è che non si può parlare in altro modo a delle menti che traggono dal sensibile ogni conoscenza. Così la Scrittura attribuisce a Dio mani e piedi, e altro intende. Lo stesso dicasi per Platone quando nel Timeo afferma l'origine e il destino astrale delle anime; qualora non intenda altro da ciò che dice, se come dice, par che senta, si tratta di errore, ma con ogni probabilità la sua idea è di natura diversa dal suono delle parole (sua sentenza è d'altra guisa / che la voce non suona), e queste ultime nascondono un senso degno di rispetto (cfr. A. Pézard, Regards de D. sur Platon et ses mythes, in "Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age" XXI [1954] 171-172). Questi diversi modi di distinguere, tanto in Platone che nella Bibbia, tra parole e significato, provano che ci troviamo in piena a. la cui nozione, come s'è visto, è quella tradizionale.
Il falsificatore della lettera a Cangrande, se di falsificatore bisogna parlare, riguardo alla teoria dell'a, non manca di trovarsi d'accordo con Dante. L'impressione finale è quella di una grande conformità tra l'Epistola e il Convivio. La prima applica alla interpretazione della Commedia la dottrina dei quattro sensi biblici, nell'identico modo in cui il secondo si proponeva di procedere per le canzoni. Ma, di fatto, sia l'una che l'altro realizzano solo metà del loro programma, giacché soltanto due dei quattro sensi, il letterale e l'allegorico, vengono effettivamente impiegati (vedi per questo B. Nardi. Nel mondo di D., pp. 57-59, e inoltre la Appendice alla seconda ediz. del Convivio di Busnelli-Vandelli, II, Firenze 19642, 556-557).
Nondimeno, tra i due testi sussistono delle divergenze. La principale è che i quattro sensi in questione nell'Epistola, prima di qualsiasi applicazione alla Commedia, sono manifestamente quelli della Scrittura, come dimostra la quadruplice interpretazione di Ps. 113. Nel Convivio, invece, i due soli sensi che ricevono un'illustrazione biblica sono il morale e l'anagogico, mentre gli altri due sono messi in relazione con le favole dei poeti profani, segnatamente con quella di Orfeo. D. ebbe piena coscienza di questa discriminazione, dal momento che osserva (Cv II I 4) che il senso allegorico è preso dai teologi altrimenti che dai poeti, e che per parte sua seguirà l'uso di questi ultimi. Come intendere questa diversità tra teologi e poeti? Più che sul senso allegorico essa deve vertere sul senso letterale. D., come abbiamo visto, concepisce la lettera come un discorso fatto di finzione, parole fittizie, quali le favole, e ancora come una bella menzogna (Cv II I 3, da confrontare con If XVI 124 dove, a proposito dell'incredibile salita di Gerione, è detto quel ver c'ha faccia di menzogna). Con quest'ultima formula D. riprende un'antica idea che già si ritrova in un celebre detto del retore del II secolo, Teone d'Alessandria (Progymn. 3, ediz. Spengel, 72, 28): "Il mito è un discorso menzognero che esprime la verità con immagini" ("λόγος ψευδὴς εἰκονίζων ἀλήθειαν"). Ma è chiaro che i teologi non erano disposti a considerare il senso letterale della Bibbia come fittizio, favoloso e menzognero. L'unico tra di essi che fa assolutamente eccezione è Origene, quando ammette che gli scrittori sacri "spesso seguivano la verità spirituale entro il corpo che era, diciamo così, menzognero" ("ἐν τῷ σωματικῷ…ψευδεῖ", In Johann. X V 20, ediz. Preuschen, 175, 16-20; con ‘corpo’ della Scrittura designa il senso letterale). Di contro, per la tradizione cristiana, la lettera della Scrittura è garantita nella sua propria verità, prima di qualsiasi interpretazione spirituale.
Gli stessi ‘teologi’ non hanno mancato d'interessarsi all'a. dei ‘poeti’, ma essi ne danno un'analisi diversa da quella di Dante. San Tommaso ad esempio, partendo dal principio che il senso letterale di un testo è quello che l'autore ha l'intenzione di esprimere (Sum. theol. I 1 10) e considerando, d'altra parte, che l'autore di una finzione poetica non persegue altro fine che il significato in essa nascosto, giustamente conclude che in questo significato risiede l'effettivo senso letterale del poema; concezione questa di cui il Chydenius (The Theory of Medieval Symbolism, cit., pp. 37-38) ha visto la novità rispetto alla tradizione patristica e medievale anteriore al XIII secolo (cfr. però C. Spicq, Esquisse d'une histoire de l'exégèse latine au Moyen Age, Parigi 1944, 98, 249-251, 273-276). Per D. invece, come s'è visto, il significato come tale spetta all'a., mentre il senso letterale si limita all'aspetto di finzione. C'è qui un'importante discordanza tra i due autori, giacché D. si mostra fedele a un antico schema che di contro s. Tommaso aveva abbandonato. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, i teologi non rifiutano di riconoscere, anche nella Bibbia, la presenza di finzioni poetiche: è il caso delle parabole. Anche qui il senso letterale non è la figura, ma il figurato, non è il ‛ braccio di Dio ', ma la potenza di Dio; così parla Tommaso (Sum. theol. I 1 10 ad 3), aggiungendo che in questo caso il senso letterale è duplice: il senso letterale proprio, limitato alla finzione, e il senso letterale figurato, o senso parabolico, costituito dal significato.
Il Convivio, lontano da queste sottigliezze, è più vicino a una tradizione che ignora simili raffinatezze. Ma forse l'Ep XIII ne è meno indenne. Difatti, come ha rilevato Nardi (Nel mondo di D., pp. 60-61), è sorprendente come in essa il senso letterale della Commedia sia indicato nello status animarum post mortem (§ 24); non è vero piuttosto che, secondo la prospettiva del Convivio, in questo caso si tratta già di un senso allegorico, non meno dell'homo...iustitiae...obnoxius, cui l'Epistola (§ 25) riserba tale qualità? E, stando all'uso classico, il vero senso letterale della Commedia non è più d'ogni altro il viaggio di D. attraverso i tre regni dell'oltretomba? Senza dubbio. Ma questa apparente anomalia comporta una spiegazione verisimile: che l'autore dell'Epistola (quale che esso sia, può trattarsi benissimo del D. del 1316) si sia rifatto alla dottrina tomistica che abbiamo citato e secondo la quale il senso più manifestamente figurato di un poema è considerato letterale (a sua volta, il senso letterale proprio perde qualsiasi interesse sotto il nome di ‛ finzione '; e ciò è in accordo con Ep XIII 27 dove è detto che la forma della Commedia è ‛ poetica ' e ‛ fittizia '); mentre dieci o dodici anni prima, l'autore del Convivio seguiva ancora la via tradizionale per la quale la lettera è la lettera, e l'a., l'allegoria.
Ecco dunque un caso in cui il richiamo a teorie contemporanee sull'a. aiuta a superare una difficoltà riguardo a Dante. Né c'è da meravigliarsi, tant'è vero che le diverse tesi riscontrate nel Convivio, nella Monarchia e nell'Epistola a Cangrande, sono tributarie delle idee del tempo e, oltre a ciò, dell'ermeneutica patristica. Pochi e dettagliati esempi basteranno a fugare ogni dubbio.
All'epoca di D. niente era più comune dell'ammettere, com'egli fa, un quadruplice senso della Scrittura.
Nell'impossibilità di citare tutti gli adepti medievali di questa teoria (alcuni se ne troveranno in A. Pézard, D. sous la pluie de feu, cit., pp. 387-396, Appendice VIII, Les quatre sens de l'Ecriture, 372-400; e H. De Lubac, Exégèse médiévale, cit., I I, Parigi 1959, 136-169), bisognerà nominare per lo meno s. Tommaso Sum. theol. I 1 10 ("sensus historicus vel litteralis, allegoricus, tropologicus sive moralis... anagogicus") e Quaest. quodl. VI 6 15, dove si noterà come sensus moralis ha per sinonimo, e spesso per sostituto, sensus tropologicus o tropologia. Al limite tra XIII e XIV secolo, cioè esattamente al tempo di D., era in voga un celebre distico mnemotecnico - dovuto ad Agostino di Dacia (m. 1282) anche se spesso attribuito a Niccolò di Lira, che l'ha soltanto popolarizzato (cfr. C. Spicq, Esquisse, cit., p. 340, e H. De Lubac, Exégèse, cit., I I 23) - che condensava la dottrina nel modo seguente: " ittera gesta docet, quid credas allegoria, / moralis quid agas, quo tendas anagogia". Ma le sue origini erano più lontane; infatti la si incontra durante la rinascita carolingia, in Rabano Mauro (Allegor. in sacram script., P. L. 112, 849 A s., "historia", "allegoria", "tropologia [qui aedificat moralitatem]", "anagogia"). Di fatto essa s'inizia con i Padri latini a partire dai primi del V secolo (v. E. Von Dobschiitz, Vom vierfachen Schriftsinn. Die Geschichte einer Theorie, in Harnack-Ehrung. Beiträge zur Kirchengeschichte, Lipsia 1921, 2-3, 8-13; A. Pézard, D. sous la pluie, cit., pp. 373-376; H. De Lubac, Exégèse, cit., I I 187-198; J. Chydenius, The Typologica. Problem in D., cit., pp. 30-41): mettendo l'uno accanto all'altro due passi disgiunti di una lettera di s. Gerolamo, si otterrà uno schema a quattro termini, tre dei quali saranno ripresi dalla tradizione (Epist. CXX ad Hedybiam, 8 2 e 12, ἀναγωγὴ, "historia", "tropologia", "intelligentia spiritalis"). Nella stessa epoca s. Agostino distingue un quadruplice contenuto nei libri sacri (Gen. ad litt. I I): "In libris autem omnibus sanctis intueri oportet, quae ibi aeterna intimentur, quae facta narrentur, quae futura praenuntientur, quae agenda praecipiantur vel admoneantur". Benché qui tale distinzione venga applicata al contenuto della Bibbia più che alla sua interpretazione, è chiaro che essa annuncia in modo sorprendente i quattro sensi medievali, che le corrispondono perfettamente. Più avveduti di certi storici moderni (quale il De Lubac nel luogo prima citato, pp. 181-182), Beda il Venerabile (De Tabern. I 6, P. L. 91, 410 B). Rabano Mauro (Comment. in Exod. III 11, P. L. 108, 147 D) e Tommaso d'Aquino (Quaest. quodl. VII 6 15) hanno visto giusto al riguardo. Dietro l'impulso dato in tal modo da Gerolamo e Agostino fu così possibile a Giovanni Cassiano ed Eucherio di Lione, qualche anno più tardi, di formulare la dottrina dei quattro sensi dandole i nomi che l'uso imporrà (Giovanni Cassiano Conlat. XIV 8 "historia", "tropologia" [detta pure "moralis explanatio"], "allegoria", "anagoge"; Eucherio Formulae spirit. intelligentiae, praef., "littera" o "historia", "tropologia" o "sensus moralis", "anagoge", "allegoria"). Come si vede, su questo punto i principi esegetici di D. venivano di lontano.
Alcuni degli esempi proposti da D. non sono meno tradizionali. Abbiamo notato la sua predilezione per il salmo 113, In exitu Israel de Aegipto (Cv II 16-7 e soprattutto Ep XIII 21). Busnelli e Vandelli (nota a Cv II I 4) osservano che un esegeta del XIII secolo, Ugo di San Caro, dava una quadruplice interpretazione di questo testo analoga a quella dantesca. Ma anche in questo caso, l'uso di citare il salmo 113 per illustrare la possibilità di molteplici interpretazioni di uno stesso testo risale a tempi molto più antichi. Senza farne un'esplicita citazione, sin dai primi anni del III secolo Tertulliano avverte che la cattività e la liberazione di Israele sono occasione di intempestive a., laddove il senso storico è più d'ogni altro evidente (Resurr. carnis XX 33-37). Più tardi, da parte sua, uno pseudo-Gerolamo, commentando il salmo versetto per versetto, offrirà proprio come D. tutta una gamma di interpretazioni (Breviar. in psalm. 113, P.L. 26, 1173 B; questo e il precedente testo sono citati da A. Pézard, D. sous la pluie, cit., pp. 377 e 379-380). A ciò si aggiunga che l'idea di vedere in questo salmo un oggetto privilegiato di esegesi allegorica venne imposta dall'esempio stesso di s. Paolo che, degli episodi dell'esodo dall'Egitto presenti nell'Esodo, diceva: "Haec autem omnia in figura contingebant illis" (I Cor. 10, 11).
Nei passi del Convivio relativi all'a. capita di trovare qua e là delle espressioni di particolare interesse per lo storico. In IV XXVIII 14, a proposito del matrimonio di Marzia e Catone, che ritroveremo tra poco, compare questa felice notazione sul procedimento proprio dell'interpretazione allegorica: E potemo così ritrarre la figura a veritade. È qui riconoscibile, leggermente modificata, la formula tradizionale per rendere il ‘transfert’ (trahere, traducere) costituente l'a. classica, segnatamente stoica (cfr. ad es. Cic. Nat. deor. I XLI = Stoicorum veterum fragmenta, III, Diog. Babyl. 34, 217, 31-32 "ad physiologiam traducens diiungit a fabula"; Lattanzio Div. instit. I XII 3 "ad rationem physicam... traducere", da confrontare con Eucherio Formulae, praef. 6 22 "in allegoriam trahuntur"). Quanto alla definizione del senso anagogico di II I 6, essa basta da sola a dimostrare la dipendenza di D. dalla Summa theologica di Tommaso; egli infatti spiega che questo senso sussiste quando le cose significate da una scrittura significano a loro volta le supreme cose della gloria eterna, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria. Orbene, non soltanto questa relazione istituita tra l'anagogia e le cose de l'etternal gloria si ritrova testualmente in s. Tommaso, ma più ancora l'idea, così profonda, che nel senso spirituale sono le cose significate dalle parole, e non già le parole come tali, che significano a loro volta altre cose (cfr. Sum. theol. I I 10, parallelismo segnalato da Busnelli-Vandelli, ad l.).
Infine, come sopra s'è detto, secondo Ep XIII 22, l'aggettivo ‘allegorico’ può applicarsi non soltanto a uno dei quattro sensi, ma ai tre che tra di essi sono ‘mistici’, vale a dire non letterali; tale estensione semantica era giustificata da un'etimologia approssimativa del termine allegoria. Ebbene, tutti questi elementi si ritrovano, con tale evidenza da non lasciar pressoché dubbio sul debito dell'autore dell'Epistola XIII, in una pagina di un commento paolino di s. Tommaso, e cioè: un'etimologia maldestra ed erronea di a. con cui l'esegeta dà prova della sua ignoranza del greco, e l'idea che la stessa parola venga usata per designare, talvolta uno qualsiasi dei sensi ‛ mistici ', talaltra esclusivamente quello dei quattro sensi che non è né storico, né mistico (morale), né anagogico: bisogna tuttavia riconoscere che la mediocrità dell'etimologia greca è riscattata da un'eccellente definizione latina dell'a., che si colloca nel filone della retorica classica: "modus loquendi, quo aliud dicitur, et aliud intelligitur" (Tommaso In Epist. ad Gal. IV lect. VII).
Tra le ragioni che rendono necessario l'esame del senso letterale prima d'ogni altro, D. fa anzitutto la considerazione che questo senso racchiude gli altri dal di fuori e che, conseguentemente, non li si può raggiungere che tramite esso. Anche questa rappresentazione risale alla patristica; essa vi ricorre più volte a proposito di Ezech. 2, 9-10, in cui si vede il profeta invitato da Dio a inghiottire un libro scritto, contrariamente al solito, sia di dentro che di fuori. Nel duplice contenuto di questo singolare rotolo, molti padri della Chiesa, tra i quali Gerolamo e Gregorio Magno, scorgevano l'indizio dei due principali sensi della Scrittura: racchiuso al di dentro, il senso spirituale o allegorico; aperto al di fuori e immediatamente accessibile nella sua semplicità, il senso letterale o storico (Gerolamo In Hierem. I 5 3, In Hezech. I 31 a; Gregorio Magno Homil. in Ezech. I 9 30, P.L. 76, 883 B; cfr. H. De Lubac, Exégèse, cit., I I 306). Un altro " liber scriptus intus et foris " compariva nell'Apocalisse (5, 1), e per Niccolò di Lira, contemporaneo di D., raffigurerà il senso letterale esterno e quello mistico interno (Prol. in moral. bibl., P.L. 113, 33 B, citato da A. Pézard, D. sous la pluie, cit., pp. 399-400).
Altre volte, sempre a partire dall'epoca patristica, la stessa idea è resa per mezzo di un paragone: la Scrittura è simile a una noce il cui guscio rappresenta la lettera, e la polpa il senso spirituale; benché in ambedue i casi la superficie sia bella, quanto più dolce è l'interno che scopriamo schiacciandola! In tal modo si esprime s. Gerolamo (Epist. LVIII ad Paulinum 9), instaurando un uso che ritroveremo nel XII secolo con Onorio d'Autun (Expos. in Cant. cant. III ad 7 5, P. L. 172, 466 B) e con s. Bernardo (Dominica Ia post oct. Epiph. serm. II 1). Va detto inoltre che questo paragone non è caratteristico dei commentatori della Bibbia. Secondo Fulgenzio Planciade, che all'inizio del VI secolo disserta sulla Tebaide di Stazio (Super Tebaiden, ed. Helm, 180 13-16, citato da A. Pézard, D. sous la pluie, cit., p. 374), anche i poemi profani in cui il senso mistico si nasconde sotto quello letterale, somigliano a una noce il cui guscio cela la polpa. A tale concezione del senso letterale come involucro esterno degli altri sensi, occorre aggiungere quanto D. afferma più oltre (Cv II I 13-14) su una nostra innata disposizione che impone di procedere da ciò che si conosce meglio a ciò che si conosce meno bene, cioè, all'occorrenza, dal senso letterale agli altri sensi. Per porre questa legge sull'ordine da seguire nel progresso della conoscenza, il poeta si richiama all'inizio della Fisica di Aristotile. In realtà egli dipende soprattutto dal commento tomistico a questo passo, di cui riprende certe espressioni (Comm. in Pbys. I, da cfr. con Cv II I 13). Ma egli se ne discosta notevolmente nella sostanza, difatti non fa parola su ciò che per s. Tommaso e per Aristotele era essenziale, cioè la distinzione tra ciò che è meglio conosciuto ‘per noi’ e ciò che è più conoscibile ‘in sé’. A tal proposito la Quaestio (§ 61), la cui autenticità purtroppo non è certa, sembra assai più fedele allo spirito dell'epistemologia aristotelico-tomista, senza per questo tradirne maggiormente la lettera.
Un altro argomento arrecato da D. in favore della priorità del senso letterale, è che esso è fondamento degli altri. E in qualsiasi campo, sia naturale che artificiale, si tratti della costruzione di una casa o dell'edificazione di una scienza, il fondamento dev'essere posto per primo. La premessa maggiore di questo sillogismo è d'ispirazione tomista (Comm. in Metaph. V, lectio I). Più interessante è la minore, cioè il paragone tra il senso letterale e le fondamenta di una casa, giacché si tratta di una rappresentazione che ha tutta una storia.
Anche s. Tommaso si rifà, senza insistervi, a questo modo di vedere (Sum. theol. I I 10 c e ad 1, Quaest. quodl. VII 6 14 ad 1, ad 3; cfr. G. Zuccante, Figure e dottrine nell'opera di D., Milano 1921, 23-25). Ma chi aveva elaborato il paragone era stato, nel secolo precedente, Ugo di San Vittore: nell'edificio della Scrittura la storia è il primo fondamento da porre; il senso tipico, allegorico o spirituale è la successiva costruzione da erigervi sopra, come la cittadella della fede; il senso morale, infine, è lo strato di colore con cui si dipinge la casa (Didasc. VI 3, 4). Per la verità, le parole di Ugo di San Vittore non sono farina del suo sacco: egli non fa altro che riprodurre, quasi parola per parola, una frase scritta sei secoli prima da Gregorio Magno (Moralia in Job, Epist. missor. ad Leandrum 3, P.L. 75, 513 C, che ha dato luogo a Ugo di San Vittore Didasc. VI 3). Tra Gregorio e Ugo, Rabano Mauro aveva arricchito di ulteriori dettagli l'immagine, assegnando a ciascuno dei quattro sensi tradizionali una corrispondenza architettonica: nella casa della nostra anima, la storia pone le fondamenta, l'a. innalza i muri, l'anagogia colloca il tetto, la tropologia infine, all'interno con le intenzioni e all'esterno con le buone opere, dispone i vari ornamenti (Alleg. in sacram script., P.L. 112, 849 C).
È senz'altro temerario far risalire l'origine di tale rappresentazione fino a Filone d'Alessandria (come propone J. Taylor, The "Didascalicon" of Hugh of St. Victor. A Medieval Guide to the Arts, Nuova York-Londra 1961, 222-223). Ma è un fatto che già la si incontra alla fine del IV secolo, nelle opere esegetiche e nella corrispondenza di s. Gerolamo: nell'Epistola 108 (Epitaphium s. Paulae 26, così anche in Ep. 129, ad Dardanum 6), il santo loda Paola per aver amato il senso storico delle Scritture, che essa chiamava fondamento della verità, ma ancor più per aver preferito il senso spirituale quale culmine con cui ricopriva l'edificio dell'anima sua; certi commenti geronimiani distinguono parimenti tra fundamentum, identificato con la storia, e culmen, consistente nell'intelligenza spirituale (In Amos III, ad 9, 6, P. L. 25, 1090 B. Lo ps.-Gerolamo De Bened. Jacob, P. L. 23, 1308, sostituisce all'intelligenza spirituale l'a. = Rabano Mauro, Comment. in Gen. IV 14, P. L. 107, 654 D - 655 A). Altri, tra la base e la sommità dell'edificio, introducono delle mura, ed è a queste ultime, in questo caso, e non al culmine, che sembra corrispondere il senso spirituale (In Matth.,prol., P. L. 26, 20 C - 21 A ). Altri infine, preannunciando i raffinati ritocchi di Rabano Mauro, a questi tre termini aggiungono l'ornamentazione delle mura raffigurante l'anagogia (In Esaiam vi prol.). Agostino, più semplicemente ma sempre sulla stessa linea, esorta i fedeli a non ricercare il senso riposto della Scrittura prima di aver saldamente fondato la verità, nel timore che, mancando tale fondamento, diano l'impressione di voler costruire sull'aria (Serm. 8 2 e 2 7). Sotto questa forma anodina potremmo dire che l'abitudine a paragonare l'esegesi a un'architettura compare già in Origene, per il quale la spiegazione storica sta alla base come un fondamento e fa da supporto per la spiegazione mistica e morale (In Gen. hom. II 6, ed. R. Baehrens, 36, 19-24 II 1, ed. B., 22, 16-21. Sulla lettera considerata come fondamento degli altri sensi, sia nei padri che nei medievali, cfr. C. Spicq, Esquisse, cit., pp. 19-20, 95-97; H. De Lubac, Exégèse, cit., I II 434-439, II II 54-60).
I limiti dell'a. (Mn III IV 6-7). - Infine, quando D. denuncia l'errore che spinge a vedere l'a. dove non c'è, ammettendo così che non tutto nella Scrittura è allegorico, egli si dimostra parimenti debitore verso una tradizione antica ancor viva ai suoi tempi. San Bonaventura avverte, nel modo più esplicito, che non bisogna ricercare un senso allegorico in tutti i testi sacri (Breviloq., prol. 6, ediz. Quaracchi, V 207 b; cfr. C. Spicq, Esquisse, cit., p. 269). Prima di lui l'aveva detto Ugo di San Vittore, aggiungendo che non bisogna neppure cercare dappertutto un senso storico o tropologico, ma che ognuno di essi, senza gli altri, dev'essere inteso laddove è opportuno: solo alcuni passi della Scrittura sopportano nello stesso tempo le tre spiegazioni (Didasc. V 2). Anche in questo caso, benché in modo meno evidente del precedente, Ugo riecheggia Gregorio Magno, sostenitore della stessa dottrina: a eccezione di un piccolo numero di testi biblici che si prestano alla triplice interpretazione, uno stesso testo biblico non può essere oggetto della spiegazione storica, tipologica e morale; e questi due ultimi termini portano la comune denominazione di a. (Mor. in Job, Epist. missor. 3, P.L. 75, 513 B-C).
L'idea risale più in là nella patristica. S'è visto come D. si richiamasse a un'affermazione del De Civitate Dei; ma avrebbe potuto arrecarne un'altra, tratta dalla stessa opera, che dà torto sia a quelli che non ammettono per gli avvenimenti narrati nel Vecchio Testamento altro significato che quello storico, sia a quelli che viceversa vogliono che tutto sia avvolto di a. (Civ. XVII 3; cfr. H. De Lubac, Exégèse, cit., II II 94-96). La stessa moderazione ritroviamo in Tertulliano, secondo cui il discorso dei profeti non è allegorico né sempre né ovunque, ma solo talvolta e in certi luoghi (Resurr. carnis 20, citato da A. Pézard, D. sous la pluie, cit., p. 377). André Pézard, che a ragione ritrova in questo testo lo stesso atteggiamento di D., aggiunge un'osservazione di grande interesse: il proposito di mantenere l'a. entro limiti ragionevoli non è appannaggio degli esegeti cristiani. Costoro l'hanno in comune con i commentatori dei poeti greci e latini.È il caso di Donato, biografo e interprete di Virgilio, che si propone di non cadere nel duplice errore consistente nel credere che il linguaggio figurato, cioè allegorico, nelle Bucoliche o non c'è mai o sta dappertutto (Vit. vergil. 66 [99], ediz. Diehl, 25 10-12).
Bisogna inoltre osservare che nella storia dell'esegesi biblica un simile atteggiamento non esclude quello contrario, e che è quello degli avversari di D., secondo il quale tutto nella Scrittura ha un senso allegorico. Giustino per esempio (Dial. cum Tryph. 42 4), limitandosi alle prescrizioni di Mosé, afferma, dopo aver fatta la dimostrazione per alcune, che tutte sono dei tipi, dei simboli, dei preannunci della vita e dell'opera del Cristo. Ma, più tardi, Eucherio (Formulae, praef., 3 9-11) estenderà il procedimento all'insieme delle Scritture, Nuovo Testamento compreso. Lo stesso Agostino, dopo aver tacciato di temerarietà, come s'è visto, coloro per cui tutto nella Bibbia è allegorico, non se la sente di rimproverarli per aver tratto, in modo conseguente, un senso spirituale da ogni avvenimento, dietro la riserva che essi da principio ne mantengono la verità storica (Civ. XVII 3). Del resto, spinto dall'esempio di s. Paolo che affermava (I Cor. 10, 11) che tutti gli episodi dell'uscita dall'Egitto erano accaduti in modo figurato, affermerà (Gen. ad litt. I 1, ediz. Zycha, 3 10-13) che tutti gli avvenimenti riportati nella Scrittura hanno un senso figurato in modo più certo che non siano degni di fede in quanto fatti. Del resto, ancora, nell'affermare che ‛ tutti ' i fatti del Vecchio Testamento sono da intendere non solo in senso proprio, ma anche in senso figurato, egli aggiungerà per scrupolo "o quasi tutti" ("vel paene omnia", Doct. christ. III 22 32, P. L. 34, 78; cfr. H. De Lubac, Exégèse, cit., II II 61-68).
La lettura allegorica dei poeti latini. - Un'ipotesi seducente è quella formulata da Paul Renucci (Dante, Parigi 1958, 84-85), secondo cui sarebbe durante il soggiorno di studi a Bologna, verso il 1304-1306, che D. prese gusto alla lettura in chiave allegorica dei poeti antichi. Una tale lettura, infatti, era tenuta alla facoltà delle Arti di questa città e le opere in programma si chiamavano Tebaide, Eneide, Metamorfosi, Farsaglia, vale a dire gli unici e identici titoli presi in considerazione nel Convivio.
Comunque sia, in D. è presente una spiccata propensione a scorgere intenzioni nascoste nei versi dei suoi predecessori latini (cfr. E.H. Curtius, La littérature européenne et le Moyen Age latin, traduz. franc., Parigi 1956, 19-21). È il caso delle Metamorfosi di Ovidio. A proposito delle gazze parlanti (Met. V 294 ss.), che potrebbero suggerire l'idea che il linguaggio non è privilegio dell'uomo, D. spiega che questa non è l'intenzione del poeta, che si esprime in forma allegorica: dicimus quod hoc figurate dicit, aliud intelligens (VE I II 7). Un altro esempio è in Cv IV XXVII 17-20: nella lunga favola che racconta come Cefalo d'Atene andò a chiedere soccorso a Eaco re d'Egina contro Creta (Met. VII 490-660), in realtà Ovidio intenderebbe insegnare che alla vecchiaia convengono quattro virtù, cioè prudenza, giustizia, liberalità e affabilità. S'è visto inoltre, ma ci ritorneremo tra poco, come in Cv II I 3 la leggenda di Orfeo qual è raccontata da Ovidio (Met. XI 1-2) viene portata come esempio di bella menzogna che dissimula una verità.
Più ancora di Ovidio, quello che agli occhi di D. sembra aver caricato i suoi poemi di un significato profondo, distinto da quello apparente, è Virgilio (per quest'ultimo e D. vedi D. Comparetti, Virgilio nel medio evo, Firenze 1896, 1259-307). Questo modo di considerare Virgilio, risalente ai suoi commentatori latini, era accompagnato tradizionalmente da alcuni postulati, desunti peraltro dagli esegeti allegorizzanti di Omero. Uno di questi voleva che al poeta fosse toccata in sorte la scienza universale: "Vergilius nullius disciplinae expers". La formula è di Macrobio (Somn. Scip. I VI 4, ma anche I XV 12, II VIII 1; Saturn. I XVI 12, III II 7 e 10), ma l'idea è comune ai commentatori del IV e V secolo, quali Fulgenzio Planciade (Vergil. contin., ediz. Helm, 83-84) e, prima di lui, Servio da cui passerà nel XII secolo in Alano di Lilla (per questi ultimi autori vedi E.R. Curtius, La littérature européenne, cit., pp. 252-253). Orbene, alcune tracce mostrano in D. un erede di tale principio; è così che egli chiama Virgilio quel savio gentil, che tutto seppe (If VII 3) e, con linguaggio più immaginoso, mar di tutto 'l senno (VIII 7).
Uno degli aspetti tra i più sorprendenti dell'esegesi allegorica di Virgilio, è la sua cristianizzazione da parte di alcuni padri della Chiesa. Essa, come sappiamo, dovette verificarsi a partire soprattutto dalla celebre quarta Egloga (cfr. J. Carcopino, Virgile et le mystère de la IVe Églogue, Parigi 1943, 201 ss.; P. Courcelle, Les exégèses chrétiennes de la quatrième Églogue, in "Revue des Études anciennes" LIX [1957] 294-319). D. fa sua volentieri anche questa tradizione, come testimonia Pg XXII 70-81, dove vediamo Stazio far risalire non soltanto il suo mestiere di poeta, ma anche la sua qualità di cristiano, all'influenza di Virgilio; infatti, dice, la parola di Virgilio poco prima pronunciata s'accordava al ‘credo’ diffuso dagli apostoli, e la parola tua sopra toccata / si consonava a nuovi predicanti. Ebbene, la parola sopra toccata non è altro che il passo dell'Egloga IV 5-7, tradotto un pò liberamente da D. ai vv. 70-72. Questa interpretazione cristianizzante è tanto più notevole, in quanto in due altri luoghi (Mn I XI 1, Ep VII 6) D. intende gli stessi versi senza riferimento al cristianesimo; non senza a. però, giacché, secondo Mn I XI 1, la ‘Vergine’ di Virgilio significa la Giustizia, e il suo ‘regno di Saturno’, l'età dell'oro. Immediatamente prima del citato passo del Purgatorio compare, già in bocca a Stazio (vv. 67-69), un paragone giustamente celebre che precisa in che senso Virgilio fu un propagatore del cristianesimo; egli lo fu senz'essere lui stesso cristiano, come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte (cfr. per questo P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 341-342). In altri termini, Virgilio profetizzava il Cristo senza saperlo. Anche in questo caso D. riecheggia una credenza più antica. Difatti, sin dal V secolo il commentatore Filargirio riteneva che se l'autore dell'Egloga in realtà aveva, proprio come la Sibilla, profetizzato il Cristo, da parte sua immaginava di annunciare l'imperatore Augusto (Explan. in Verg. Buc. IV 7, ediz. Hagen, 78 b 3-7, citato da J. Carcopino, Virgile, cit., p. 201, e P. Courcelle, Les exégèses, cit., p. 300). Più vicino a D., nel XII secolo, Abelardo esprimeva con più dettagli un'identica convinzione, dicendo che seppure è fuor di dubbio che l'Egloga contiene, formulata in modo tipico, una profezia dell'incarnazione, il poeta poteva benissimo ignorare ciò che lo Spirito Santo diceva per bocca sua, né più né meno di quello che dovette accadere a Caifa, altro profeta veridico e inconsapevole (Introd. ad theol. I 21, P. L. 178, 1032 A; stesso testo in Theol. christ. I 5, P. L. 178, 1163 C-D, ma cfr. anche II, P. L. 178, 1168 C e 1172 B. Cfr. H. De Lubac, Exégèse, cit., II II 254-255, e P. Courcelle, Les exégèses, cit., pp. 317-318).
Ma in D. la lettura allegorica di Virgilio non si limita alla quarta egloga. Egli interpreta in modo analogo - benché, forse, meno evidente, trattandosi in questo caso d'a. morale - diversi passi dell'Eneide. Ciò si può vedere alla fine del IV trattato del Convivio, nell'esposizione delle quattro età dell'uomo. D. ammette che Virgilio trattò la questione in modo figurato, giacché egli rinuncia a utilizzare lo figurato che di questo diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida (IV XXIV 9). Ma questo proposito è di breve durata in quanto, come nel caso dei versi di Ovidio scelti, come s'è visto, per illustrare le virtù della vecchiaia (e la Tebaide di Stazio per quelle dell'adolescenza), gli adornamenti della giovinezza sono scorti ben presto ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura, vale a dire nei canti IV, V e VI. Sicché, la storia di Enea che si distacca da Didone (Aen. IV 265 ss.), scende tra i morti con la Sibilla (VI 262 ss.), affida ad Aceste i vecchi troiani (V 711 ss.) dopo essersi preoccupato dell'educazione sportiva del figlio Ascanio (V 545 ss.), spacca la legna del rogo funebre di Miseno (VI 162 ss.), e infine ricompensa i vincitori dei giuochi secondo quanto aveva promesso (V 303 ss.), tutto ciò è interpretato come la prova che all'età della giovinezza conviene essere temperante, forte, amorosa, cortese e leale (Cv IV XXVI 8-15).
Questa tendenza esegetica a vedere nell'opera di Virgilio un' a. delle diverse età dell'uomo o dell'umanità e virtù a loro convenienti, non era del tutto inedita. Comparetti, e più recentemente Pézard, hanno dimostrato che al riguardo la strada era stata aperta da Donato (IV secolo) e da Fulgenzio Planciade (V secolo). In epoca più vicina a D., nel XII secolo, un Giovanni da Salisbury farà da mediatore nella tradizione, dando un'interpretazione figurata dell'Eneide analoga a quella del Convivio (cfr. D. Comparetti, Virgilio, cit., I 148, 158; A. Pézard, D. sous la pluie, cit., pp. 344-346). Accade anche che D., con l'esegesi allegorica, attribuisca a certi passi dell'Eneide un senso cristiano. È il caso dei celebri versi " Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames ! " (Aen. III 56-57), con i quali Virgilio intende evidentemente biasimare l'‘secrabile’ appetito di ricchezze, ma di cui la bacchetta magica dell'a. permette a D., in piena coscienza, di rovesciare il senso originario, facendo loro esprimere il rammarico che la fame sacra dell'oro (reale o mistico) non guida l'appetito dei mortali: Per che non reggi tu, o sacra fame de l'oro, l'appetito de' mortali? (Pg XXII 40-41, secondo l'ipotesi sottile, ma seducente, del Pézard nella sua traduzione delle Oeuvres complètes di D., Parigi 1965, nota ad l., 1272-1273).
Dalla sua lettura allegorica degli antichi poeti D. trae soprattutto un'interpretazione della mitologia. La tendenza generale è definita in Cv II IV 1-7. Dei e dee del paganesimo, quali Giunone, Pallade, Vulcano, Cerere sono, non diversamente dagli angeli cristiani, delle designazioni popolari per le intelligenze motrici o anche per le idee platoniche.
Sin dai suoi lontani inventori greci, l'interpretazione allegorica degli dei e dei miti era suddivisa tradizionalmente in vari tipi, non secondo il suo oggetto ma secondo i suoi risultati. Questi diversi modi si ritrovano in Dante. In Mn II IX 8 è presente un esempio d'a. metafisica sullo spunto di una pagina degli Annali di Ennio citata da Cicerone (Off. I XII 38): quando il generale Pirro, messo in scena in questi versi, chiama (o sembra chiamare) Era, egli secondo D. vuol significare la Fortuna cioè, per i cristiani, la Provvidenza. Un esempio d'a. fisica di gusto stoico compare a proposito dei quattro cavalli del Sole la cui menzione D. trovava in Ovidio (Met. II 153 ss.), e che per Cv IV XXIII 14 rappresentano le quattro stagioni dell'anno e le quattro ore del giorno. Va notato che un'esegesi del tutto simile (salvo che per il nome di ciascun cavallo) era già stata elaborata da Fulgenzio Planciade (Mitol. 112, ediz. Helm, 23 11-14; cfr. P. Renucci, D. disciple et juge, cit., pp. 234, 366). Ancora un altro genere di a., di tipo storico, è quella ad esempio che troviamo in Ep VII 24-28, dove Mirra che si offrì con frode al padre Cinira (Ovidio Met. X 298-502; cfr. If XXX 37-41), e Amata che per maritare la figlia a Turno e non a Enea, suscitò la guerra prima di impiccarsi (Aen. XII 595-603; cfr. Pg XVII 34-39), sono interpretate da D. come delle anticipazioni simboliche di Firenze che cerca di sedurre il papa, padre dei padri, e che, complottando con un re straniero, si passa intorno al collo un laccio forse fatale (cfr. P. Renucci, D. disciple et juge, cit., p. 232).
Talvolta questi diversi tipi di a. sono applicati da D. a uno stesso mito. Come nel caso del racconto di Orfeo che, come s'è visto, presenta come un esempio di favola fornita di un senso riposto (Cv II I 3): Orfeo che ammansisce le fiere e fa muovere alberi e pietre è il saggio che addolcisce i cuori crudeli e governa quelli che non sono partecipi della cultura e della ragione. Qui si tratta, situata fuori del tempo, di un'a. morale priva di grande rilievo e che vede in Orfeo l'immagine del saggio in generale. Ma si può intendere in modo alquanto differente l'espressione savio uomo e supporre, come fa Pézard (Le "Convivio" de Dante. Sa lettre, son esprit, in "Annales de l'Univ. de Lyon" lettres, III s., IX, Parigi 1940, 15-26, nel qual caso sarebbe inutile sostituire, con gli editori della ‘21, faria alla lezione facia dei manoscritti), che D. l'abbia tratta da Cicerone (Inv. I II 2) tramite Brunetto Latini (che peraltro parla non di Orfeo ma di Anfione). Allora avremmo a che fare con un'.a propriamente storica, dove Orfeo rimanderebbe non già a un saggio qualsiasi di un'epoca qualsiasi, ma precisamente al primo uomo che fu capace di parlare con arte e ragione e di convincere in tal modo i suoi simili a vivere in società. Congettura, questa, tanto più verisimile, in quanto già s. Tommaso, commentando una citazione aristotelica degli pseudo-poemi orfici, vedeva in Orfeo il prestigioso oratore che per primo seppe toccare il cuore degli uomini duri come pietre, conducendoli dalla ferocia solitaria alla vita associata (In Arist. De An. I, lect. 12, commento al passo I 5, 410b 28. Un'altra citazione di Orfeo è in If IV 140-141. Vedi J. Oeschger, Antikes und Mittelalterliches bei D. Hinweise und Untersuchungen zur Commedia, in "Zeitschrift fiir roman. Philologie" LXIV [1944] 9-10).
Altra testimonianza di questo pluralismo allegorico riguarda il mito di Fetonte, lungamente raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi (I 747 - II 400). Della scappata di Fetonte esisteva un'esegesi di origine stoica che vi vedeva la trascrizione poetica del corso annuale del Sole che talvolta favorisce la vegetazione, talaltra infuoca la terra, ma che poi finisce col calmarsi per ordine della natura. Una tale interpretazione ritroviamo in Fulgenzio, nel terzo Mitografo Vaticano, e in Arnolfo d'Orléans del secolo XII; cfr. A. Pézard, Le sonnet de la Dame Verte (D. à Cino, Rime XCV), in D. et les mythes. Tradition et rénovation, "Revue des Études italiennes", n. s., XI (1965) 340-351, che fa l'accostamento con Dante. Un certo numero di metafore dimostrano che D. dava per scontata questa a. fisica. In questo senso chiama il Sole que' che vide nel fiume lombardo / cader suo figlio (Rime X CV 3-4), e il suo corso la strada / che mal non seppe carreggiar Fetòn (Pg IV 71-72), o ancora parla dello splendore del carro di Fetonte (XXIX 118-120) e dell'aria che s'infiamma al suo avvicinarsi (Pd XXXI 124-126). A questa esegesi abbastanza banale il passo di Cv II XIV 5 aggiunge un particolare che ha un suo valore: è la favola di Fetonte ad aver spinto i filosofi pitagorici a considerare la Via lattea come la traccia di una bruciatura prodotta in altri tempi nel cielo dalla deviazione del Sole. E il passo di If XVII 107-108 mostra che D. fa sua questa spiegazione mitica dell'origine della Galassia; per descrivere la sua paura quando montò in groppa a Gerione, egli evoca appunto quella che dovette diffondersi quando Fetonte lasciò andare le redini, sicché 'l ciel, come pare ancor, si cosse, si bruciò. La dottrina riportata nel Convivio, il suo riferimento a Fetonte e la sua attribuzione ai Pitagorici in definitiva proviene, come sappiamo, dal Meteorologica di Aristotele (I 8, 345a 13 ss.), con la differenza che il filosofo non parla della deviazione del Sole, ma della caduta di una stella (è vero che egli in seguito parla di una bruciatura provocata dalla traslazione del Sole, ma si tratta della sua normale traslazione, senza riferimento al mito di Fetonte). Sappiamo anche che D. poteva leggere questa testimonianza aristotelica in Tommaso, che trascrive fedelmente sebbene più diffusamente (In Arist. Meteor. I, lectio XI, citato da Busnelli-Vandelli, ad l.).
Ma in D. incontriamo un'altra utilizzazione allegorica della disavventura di Fetonte. Nella veemente lettera in cui scongiura i cardinali italiani di ricondurre il papato da Avignone a Roma, egli assimila al falsus auriga Phaeton i cattivi prelati che, in luogo di guidare il carro della Chiesa nella sua orbita luminosa, l'hanno sviato e trascinato nel precipizio, e come Fetonte devono temere il fuoco celeste (Ep XI 5-8). Un'esegesi come questa è lontanissima dalla precedente, mentre è accomunabile alla tipologia storica. Lo stesso avviene in Pd XVII 1-6, quando D. vede nel mito di Fetonte l'immagine della sua personale situazione in quanto, come Fetonte andò dalla madre Climene per assicurarsi di essere proprio il figlio di Apollo, così lui attende dal trisavolo Cacciaguida la rivelazione dei pericoli che lo minacciano. Potremmo anche sottoporre, come fa Pézard (Le sonnet de la Dame Verte, cit., pp. 374-380; cfr. la sua citata traduzione delle 0euvres di D., appendice 17, 1707, per Pd XVII 107-108), questi versi e i successivi a una più fine analisi: sentendo che il tempo urge (Pd XVII 106-108), D. si vanta di condurre felicemente alla meta il carro della Commedia, diversamente da Fetonte, che è simile a quelli che, non comprendendo l'arte, pretenderebbero d'imitare facilmente il poeta o anche di comprenderlo in tutto.
Come in ogni impresa di esegesi allegorica, anche in quella di D. si pongono dei problemi classici. In primo luogo, il poeta crede o no alla passata realtà storica dei miti di cui propone una interpretazione figurata? Anche se mancano gli elementi che consentano di pronunciarsi caso per caso, certe indicazioni orientano verso una risposta positiva. Così, il fatto che D. pone Orfeo nel Limbo tra i filosofi e i sapienti dell'antichità (If IV 140), dimostra che egli lo ritiene un personaggio storico. Altro dato indicativo in questo senso è che, dopo aver esposto la tattica di Anteo nel combattimento contro Ercole (per illustrare la teoria secondo cui ogni corpo vivente ha più forza nel luogo in cui fu generato), D. aggiunge che questa battaglia ebbe come teatro l'Africa, secondo la testimonianza delle scritture (Cv III III 6-8; tali scritture sono anzitutto Lucano Phars. IV 593-660; per il duello tra Ercole e Anteo, v. Mn II VII 10 e IX 11). Una simile precisione geografica indica senza dubbio che D. riteneva l'episodio storicamente vero, e per di più Anteo viene collocato in uno degli ultimi cerchi dell'Inferno (If XXXI 100-145).
Come si vede, per D. come per la maggior parte dei suoi predecessori nell'esegesi figurata, la presupposta realtà storica di un personaggio o di un avvenimento, lungi dall'impedirne l'utilizzazione allegorica, piuttosto la favoriva. Si capisce allora come D. non manchi di trattare allegoricamente non soltanto delle figure mitiche, ma anche degli esseri che, per lui come per noi, appartengono incontestabilmente alla storia. È risaputo come nella Commedia santa Lucia è anche il simbolo della luce della grazia divina (Pg IX 52-63), s. Bernardo quello della contemplazione (Pd XXXI 139-142), Beatrice quello dell'ardore dell'amore divino (If II 52-114), ecc. (su questi personaggi esemplari in D. v. E.R. Cutius, La littérature européenne, cit., pp. 447-466). Ma limitandoci per il momento ai personaggi dell'antichità pagana, incontriamo ovviamente Virgilio che poco fa abbiamo visto simboleggiare, per D., la pienezza della scienza umana.
Ma, di questa galleria, la figura che dà luogo alla più interessante esegesi allegorica è quella di Marzia, moglie di Catone Uticense, lungamente evocata in Cv IV XXVIII. Commentando I vv. 136-139 della canzone Le dolci rime (Cv IV), D. spiega che nell'ultima età della vita o decrepitezza, la nobile anima torna a Dio benedicendo il cammino percorso in questa vita (§§ 1-2). È quanto, secondo lui, Lucano ci dice figuratamente, ne figura, quando riferisce del ritorno di Marzia da Catone (Phars. II 326). L'interpretazione di questa figura è: Marzia è la nobile anima, Marzia vergine significa l'adolescenza, il matrimonio con Catone e i figli che gli diede indicano la; giovinezza e le sue virtù. Identico rapporto simbolico tra il matrimonio con Ortensio e la vecchiaia: la sua vedovanza per la morte di Ortensio designa l'estrema vecchiaia, durante la quale l'anima nobile torna a Dio nello stesso modo in cui Marzia tornò da Catone (§§ 13-15). Va peraltro notato che nessun uomo più di Catone fu degno di simboleggiare Dio. L'apprezzamento di D. è la ripresa di un'antica idea formulata da Seneca il retore e Lucano (i cui testi v. in Busnelli-Vandelli, ad l.), e va confrontato col sacratissimo petto di Catone di Cv IV V 16, e col santo petto, sempre di Catone, di Pg I 80, la cui fonte è da ricercarsi in vari passi di Lucano e Seneca il filosofo, segnalati dallo Oeschger (Antikes und Mittelalterliches, cit., p. 46). Dopo la suddetta presentazione di Marzia, D., alla luce di questa generale a., sottopone a un'analisi dettagliata il discorso fatto da lei a Catone, quale appare in Phars. II 339-344. Com'è ovvio, dietro questo travestimento D. scopre il discorso che l'anima nobile rivolge a Dio quando, affranta dalla stanchezza, torna a lui nella speranza di trovar pace alla sua presenza, di morire sposa di Dio e graziosa ai suoi occhi (§§ 16-19). Non potremmo chiedere esempio migliore d'interpretazione allegorica in cui il fatto di vertere su un oggetto costituito di personaggi reali e di parole che si ritengono da essi pronunciate non reca alcun intralcio. Indubbiamente il procedimento dell'esegeta è facilitato dalle dimensioni eccezionali della personalità di Catone, modello di nobiltà e di libertà morale, degno di rappresentare Dio e unico pagano destinato da D. alla salvezza (su ciò cfr. P. Renucci, D. discipie et juge, cit., pp. 302-310, 395, e anche P. Chistoni, Le fonti classiche e medievali del Catone dantesco, in Raccolta... A. d'Ancona, Firenze 1901, 98).
Il Vecchio Testamento. - Tra i personaggi, gli episodi, le realtà storiche che D. sottopone all'esegesi allegorica, va posto innanzitutto il contenuto della Bibbia. La materia in questo caso è talmente vasta che potremo soltanto passare in rassegna pochi esempi, scelti via via secondo la cronologia biblica. Del resto già abbiamo visto molte applicazioni di questa a., come a proposito delle esposizioni teoriche di Cv II I e di Ep XIII. Tra i testi biblici così commentati abbiamo avuto modo di ricordare il brano di Matt. 17, 1-9 sulla trasfigurazione, e soprattutto il salmo 113 In exitu Israel de Aegipto. Tali esempi, uniti a quelli che esamineremo tra poco, mostrano in D. un continuatore dell'a. patristica.
Il posto occupato nella Commedia dal Paradiso terrestre, e più ancora da quello celeste, lo conosciamo. Ebbene, ambedue, oltre la loro realtà concreta - attestata particolarmente dalla loro topografia - hanno un valore simbolico, ordinato al duplice fine dell'uomo: il primo raffigura (per terrestrem paradisum figuratur) la beatitudine di questa vita che si realizza nelle operazioni delle nostre proprie virtù, mentre col secondo ci è dato intendere (per paradisum coelestem intelligi datur) la beatitudine della vita eterna che consiste nel godimento della visione di Dio (Mn III XVI 7). L'albero della conoscenza, nel Paradiso terrestre, è anch'esso un simbolo: secondo il senso morale in esso va riconosciuta la giustizia di Dio nella sua forma proibitiva (la giustizia di Dio, ne l'interdetto, / conosceresti a l'arbor moralmente, Pg XXXIII 71-72); e le considerazioni fatte da Beatrice nel suo discorso, precedenti questi due versi, attestano che si tratta, appunto, di a.: ella difatti rimprovera a D., in luogo di percepire il senso profondo dei simboli, di soddisfarsi della loro mutevole superficie, come il gelso colorato dal sangue di Piramo (Pg XXXIII 67-69).
Mn II VII 5-6 offre un esempio di esegesi allegorica di Lev. 17, 3-4, che prescrive di offrire a Dio, dinanzi alla porta del tabernacolo, ogni animale immolato. In questa disposizione di legge D. vede l'affermazione che, per la salvezza, le buone opere sono subordinate alla fede. Egli infatti dice che la porta del tabernacolo, come risulta dal Vangelo (Iohann. 10, 7-9), raffigura il Cristo, mentre l'immolazione degli animali designa le opere dell'uomo.
All'epoca della Commedia era tradizionale simboleggiare la dualità tra vita attiva e vita contemplativa mediante due coppie di sante donne tratte dalla Bibbia. Lia e Rachele, ambedue mogli di Giacobbe, per il Vecchio Testamento (Gen. 29, 9-30), e Marta e Maria, le due ospiti di Gesù, per il Nuovo (Luc. 10, 38-42). La presenza di questo duplice simbolismo è riscontrabile specialmente in Gregorio Magno (Mor. in Job VI 37 61, P.L. 75, 764 B-D; lo stesso in Homil. in Ezech. II 2, P.L. 76, 953 C - 955 A), a cui lo fa risalire s. Tommaso che lo fa proprio anch'egli (Sum. theol. II II 179 2 c, 1821 ad 3, Comm. in Sent. III 35 1 1). Non c'è dubbio che D. si colloca sulla linea di questi autori, con la sola differenza che non riunisce, come loro, le due coppie di simboli, ma li usa volta a volta. In Pg XXVII 97-108, Lia appare in sogno a D. per dirgli che il piacere che le è proprio è quello di abbellirsi con le sue mani, mentre quello di Rachele è di guardarsi tutto il giorno nello specchio, lei lo vedere, e me l'ovrare appaga, dov'è riconoscibile, appena velato, il classico dualismo delle due vite. Quanto a Marta e Maria, il loro valore simbolico è esplicitamente riconosciuto in Cv IV XVII 9-11. Dopo aver ricordato, secondo il Vangelo, il comportamento di ciascuna delle due sorelle e l'apprezzamento che di loro dà Gesù, D. ne intraprende l'esegesi allegorica con una formula inequivocabile: Che se moralmente ciò volemo esponere, per scoprirvi l'idea che se la vita attiva è buona, quella contemplativa è eccellente.
Questa distinzione tra vita attiva buona e vita contemplativa ottima (identica a quella operata in IV XVII 9 tra i due cammini e le due felicitadi) è anch'essa di origine patristica, come per esempio in Agostino (Serm. 103 4 5 e 104 2 3, P.L. 38, 615 e 617, cit. da Tomm. Sum. theol. II II 182 1) e in Gregorio Magno (Mor. in Job VI 37 61, P.L. 75, 764 D).
Il Nuovo Testamento. - Con Marta e Maria siamo già passati dal Vecchio al Nuovo Testamento. In Cv IV XXII 14-18, è sottoposto ad a. l'episodio evangelico relativo a tre altre donne di nome Maria che, andate al sepolcro, invece del corpo del Salvatore, trovarono un angelo risplendente (Marc. 16, 1-8, Matt. 28, 1-7). Se questo brano evangelico, dice D., bene... volemo guardare, scopriremo che esso ci insegna a ricercare come suprema la beatitudine della vita contemplativa, giacché le tre donne vogliono intendere le tre sette della vita attiva e cioè epicurei, stoici e peripatetici (tre scuole spesso accomunate da D. in Cv III XIV 5, IV VI 9-16, XXII 4; cfr. A. Pézard, Un D. épicurien?, in Mélanges E. Gilson, Toronto-Parigi 1959, 506 ss.). Esse vanno al monumento, cioè al mondo corruttibile, e vi cercano invano il Salvatore, vale a dire la beatitudine. L'angelo rappresenta la nobile ragione divina, e se egli invia le donne a dire ai discepoli che Gesù li precederà in Galilea, ciò significa che la beatitudine risiede soprattutto nella vita contemplativa, giacché Galilea vuol dire ‘bianchezza’, che corrisponde alla luminosità propria della contemplazione. Questa sorprendente pagina raccoglie in sé molti dei caratteri dell'a. patristica, quale l'artificioso legame stabilito tra l'ovvio senso del testo e il significato attribuitogli, la mobilitazione dei minimi particolari dell'episodio utilizzati nel senso dell'interpretazione generale, il ricorso all'etimologia, ecc. Il fatto è tanto più notevole in quanto non si conosce una reale fonte nella letteratura antica per questa a.: a mala pena si può segnalare che Ugo di San Caro aveva già visto nelle tre donne la raffigurazione degli studenti che affrontano l'esame della Scrittura (Postilla super Evang. sec. Marcum 16, 2, Colonia 1621, fol. 124 V a), e che Isidoro di Siviglia aveva già riferito Galilea alla parola greca γάλα e all'idea di bianchezza (Etym. XIV III 23; I due ultimi testi sono citati da Busnelli-Vandelli, ad l., che ne esagerano un po' la somiglianza con D.; sull'esegesi del termine ‛ Galilea ' vedi P. Toynbee, D. Studies and Researches, Londra 1902, 285-286).
Un altro esempio di a. neotestamentaria quale praticata da D. viene offerto da Mn III IX. L'oggetto in questo caso è Luc. 22, 38, dove, rispondendo a Gesù che li consiglia di acquistare una spada, Pietro e i discepoli dichiarano di averne due. Gli avversari guelfi di D. vedevano in ciò l'indice che tanto il governo temporale quanto lo spirituale sono nelle mani di Pietro e dei suoi successori. Contro una simile interpretazione D. solleva due obiezioni: anzitutto essa non corrisponde alle intenzioni di Cristo, che non ha parlato di ‛ due ' spade, ma di un numero imprecisato, probabilmente di dodici. D'altra parte il Vangelo mostra in una quantità di passi che Pietro aveva l'abitudine di rispondere senza riflettere, restando alla superficie delle cose (de more subito respondebat ad rerum superficiem tantum). Parlando delle due spade, egli quindi usava di una ‛ intenzione semplice ', quanto dire che non aveva intenti allegorici (§§ 1-17). Questa critica dell'a. fuori luogo si collega con quella già vista di Mn III IV 6-12. Ciò nonostante, qui D. non rifiuta ogni interpretazione figurata (Quod si verba illa Christi et Petri typice sunt accipienda), nel senso che essa si accorderebbe con Matt. 10, 34, che oppone la spada alla pace. In questa prospettiva la duplicità delle spade di Pietro significherebbe semplicemente quella di parole e opere (§§ 18-19; B. Smalley [The Study of the Bible in the Middle Ages, Oxford 19522, 306-307] osserva a ragione che qui l'interpretazione ‛ tipica ' di D. è molto meno allegorica di quella dei suoi avversari, conformemente alla comune dottrina dei medievali che vedevano nel significato metaforico della Bibbia una dipendenza dal senso letterale).
Da quanto precede risulta accertato che D. non soltanto ha analizzato teoricamente il meccanismo dell'esegesi allegorica, ma ha largamente interpretato secondo questo metodo tanto il contenuto della cultura pagana quanto quello delle Scritture. Tuttavia questi sviluppi, già di per sé considerevoli, non esauriscono la sua attività di allegorista. Lo stesso proposito dell'Epistola a Cangrande, come s'è visto, manifesta infatti la sua intenzione di applicare l'interpretazione allegorica, oltre che ai miti antichi e alla Bibbia, anche alla sua Commedia. Già il Convivio aveva in programma di estrarre il significato allegorico delle canzoni dopo averne spiegato il senso letterale. Di modo che in D. scopriamo, accanto a un'esegesi allegorica che prende come oggetto i dati a lui esterni, un'altra esegesi del tutto simile che egli saggia sulle sue stesse opere. Se per designare quest'ultimo procedimento osassimo forgiare un neologismo, la cui debolezza è però evidente, potremmo parlare di ‛ auto-allegoresi '(da parte sua E. R. Curtius [La littéérature européenne, cit., pp. 270-274] parla di "auto-esegesi" a proposito dell'Epistola a Cangrande). Il termine in ogni caso corrisponde a un aspetto originale della pratica letteraria di D., che appare senz'altro estranea ai suoi predecessori e ispiratori, tanto patristici che medievali.
Indubbiamente è possibile riferire questo atteggiamento, tutto sommato piuttosto sorprendente, al fatto che D. si considera come un poeta ispirato. A tal riguardo va ricordata la celebre invocazione ad Apollo di Pd 113-21, in cui il poeta chiede di esser svuotato della propria sostanza, come un tempo era avvenuto al satiro Marsia, per esser riempito al suo posto dal soffio del dio (su ciò cfr. P. Renucci, D. disciple et juge, cit., pp. 205-206; Ph. Guiberteau, Spiritualité de la aiythologie selon D. d'après quelques passages du Paradis, in D. et les mythes, cit., pp. 181-183). Che se qualcuno si sentisse sconcertato per questo richiamo al paganesimo dovrebbe rifarsi alla risposta data a Bonagiunta, in Pg XXIV 52-54, dove vedrebbe il D. del dolce stil novo comportarsi da scriba ispirato che scrive sotto dettatura d'Amore (v. P. Renucci, Dante, cit., p. 146). Dal,momento che D. si accomuna così agli autori della Bibbia, semplici strumenti dell'impulso divino, cesserebbe di meravigliarsi che egli considerasse la sua opera come materia suscettibile di esegesi allegorica.
Su questo punto gli antichi lettori della Commedia non si ingannarono. Di modo che Boccaccio, nell'introduzione al suo commento del poema (ove del resto molte sono le espressioni ricalcate sulla lettera a Cangrande), si propone di spiegare i sublimi sensi nascosti dietro il velo poetico, distinguendo il soggetto secondo la lettera da quello che si rivela a un'interpretazione allegorica (Esposizioni sopra la Comedia di Dante, accessus § 3, ediz. Padoan, Milano 1965, 1 "[gran peso è] spiegare l'artificioso testo, la moltitudine delle storie e la sublimità de' sensi nascosti sotto il poetico velo della Comedia"; § 7, ediz. Padoan, 2 "per ciò che altro suggetto è quello del senso litterale e altro quello del senso allegorico, li quali nel presente libro amenduni sono, sì come manifestamente aparirà nel processo").
E di fatto tutto il commento del Boccaccio è fondato sulla dualità di una "esposizione allegorica" che succede, per ogni canto considerato, alla " esposizione litterale ". Un altro commentatore della Commedia, Cristoforo Landino, umanista fiorentino del Quattrocento, si dimostra ancor più fedele alla lettera a Cangrande, dal momento che riunisce sotto la stessa denominazione di ‛ allegorici ' i sensi tradizionalmente detti allegorico, tropologico e anagogico, opponendoli tutti e tre al senso letterale, che egli chiama " naturale ". Comunque, egli si dichiara risoluto, nel limite delle sue forze, di mettere in luce non solo il senso naturale della Commedia, ma anche gli altri tre (Commento sopra la Comedia di D. A., Firenze 1481, proemio, fol. 10 v.: "Et useremo inquanto basteranno le nostre forze l'uficio di fedele interprete. Ne solamente apriremo el senso naturale. Ma anchora l'allegorico, tropologico et anagogico: Equali tre sensi, perche hanno tra loro molta convenientia, chiameremo tutti allegorici"; A. Chastel [Marsile Ficin et l'art, Ginevra-Lilla 1954, 142] attribuisce per distrazione questo testo alla prefazione del Landino alla sua edizione di Orazio del 1482). Simili dichiarazioni dimostrano come le prime generazioni successive alla composizione della Commedia non erano più esitanti dell'autore a riconoscerle una portata allegorica.
Se dunque D. ritiene la propria opera suscettibile d'interpretazione allegorica, se lui stesso ha lavorato a siffatta interpretazione nel Convivio e nell'Epistola a Cangrande, ciò presuppone con ogni evidenza che egli non la scrivesse senza una certa intenzione allegorica. Per riprendere una distinzione segnalata all'inizio di questo articolo, il fatto che D. usi nei riguardi dei suoi poemi l'a. come ‛ interpretazione ', implica che nel comporli si sia dedicato all'a. come ‘espressione’.
Di questo intento di scrittura allegorica possiamo rintracciare gl'indizi lungo tutta la sua carriera letteraria. In Vn XXV 10, per esempio, D. si beffa di quei poetastri che sanno velare il loro soggetto sotto vesta di figura o di colore rettorico, ma sono incapaci di denudarlo da cotale vesta in modo da rendere alle loro parole il verace intendimento, il reale significato. Dietro quest'aspra descrizione sono riconoscibili quegli stolti poeti allegoristi che, una volta richiesti, sono incapaci di rendere ragione delle loro allegorie. Vantandosi di non simigliar loro in questa impotenza, D. si annovera tra gli autori di poesia allegorica affermando da parte sua di essere in grado, all'occorrenza, di riesporla chiaramente.
In If IX 61-63, inseriti tra l'orrido ritratto delle Furie e l'apparizione del messaggero celeste (e così da poter riguardare sia l'uno che le altre), leggiamo tre ben noti versi: O voi ch'avete li 'ntelletti sani / mirate la dottrina che s'asconde / sotto il velame de li versi strani; con la dottrina che si nasconde sotto il velo dei versi strani e che si svela solo agli sguardi dei lettori di mente sana, ci troviamo certamente di fronte a un'indicazione di a. formulata nei termini più classici. Con un procedimento insolito per le antiche letterature, è D. stesso ad avvertire che il contesto di questi tre versi è stato scritto con un'intenzione allegorica, sebbene gli eruditi di oggi si affannino molto a identificarla (cfr. per es. P. Renucci, D. discipie et juge, cit., pp. 216, 223-225, 359). Un analogo appello al lettore troviamo in Pg VIII 19-21. Ne] momento di mettere in scena i due angeli vestiti di verde, guardiani della valle delle anime, D. prega chi legge di andar oltre il velo, peraltro trasparente, del senso superficiale e di aguzzare lo sguardo verso il vero: Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / ché 'l velo è ora ben tanto sottile, / certo che 'l trapassar dentro è leggero, dove il poeta non potrebbe dare miglior avvertimento che sta disponendosi a scrivere in linguaggio allegorico - ma senza eccessivo ermetismo - i versi seguenti la terzina.
In nessuno dei due passi D. offre la chiave dell'a. di cui segnala l'esistenza. Ma talvolta lo fa. L'esempio indubbiamente più esplicito è in questo caso il passo di Pd XI 49 ss. dove, dopo aver raccontato la storia di un amore singolare in cui si parla di un giovane orientale che si ammoglia contro il volere del padre con una donna che nessuno ama, rimasta vedova da millecento anni, il poeta interrompe il discorso, esteso e troppo esoterico, per dire chiaramente che questi amanti altri non sono che Francesco d'Assisi e madonna Povertà: Ma perch'ionon proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso (vv. 73-75; più esattamente, questa narrazione allegorica e la sua spiegazione sono messe in bocca a Tommaso d'Aquino, di cui è giustamente detto poco prima [vv. 22-24] che consentendo al desiderio di D. riprende il suo discorso, fino a quel punto oscuro [in... aperta e 'n... distesa lingua]; in altri termini che egli s'appresta a passare dall'a. all'espressione chiara; cfr. P. Renucci, Dante, cit., pp. 153-154).
Ma è raro che D. sveli tanto nettamente il segreto delle sue a.: il più delle volte egli la lascia intendere in modo più o meno involuto. Tutti conoscono la scena di Pg XXXII 109-160, in cui il carro di Beatrice, attaccato successivamente da un'aquila, una volpe e un drago, si ricopre di piume prima di scomparire nella foresta, guidato da un'avida meretrice e da un brutale gigante. Con tutta evidenza ci troviamo di fronte a una ‛ strana ' a. il cui senso, senz'essere espressamente indicato dall'autore, è comunque suggerito piuttosto chiaramente. La molteplicità dei singolari dettagli, infatti, orienta verso un'interpretazione non già morale (l'anima trascinata dalla cupidigia), ma storica: il carro della Chiesa, dopo aver patito le persecuzioni dell'Impero romano, le eresie, la donazione di Costantino, s'abbandona alla corruzione della curia romana fino al giorno in cui Filippo il Bello ridurrà la Chiesa in cattività trascinandola ad Avignone.
Un'altra a. religiosa, ma di tutt'altro genere, è rappresentata dalla processione che occupa quasi per intero il c. XXIX del Purgatorio. Assistiamo allo sfilare in ordine successivo di sette candelabri, ventiquattro vegliardi, quattro animali alati disposti intorno a un carro trainato da un grifone, poi tre donne a destra e quattro a sinistra, infine sette vegliardi, di cui uno medico e uno che porta una spada. Un lettore non avvertito durerebbe fatica a riconoscere di primo acchito in questo corteo, preceduti dai sette doni dello Spirito Santo; i ventiquattro libri del Vecchio Testamento, i quattro evangelisti, Cristo che tira il carro della Chiesa, le tre virtù teologali e le quattro cardinali o morali, infine i sette autori non evangelisti del Nuovo Testamento, tra i quali Luca e Paolo. D. infatti non svela esplicitamente il significato di questa lunga a., ma ne fornisce qualche indizio cammin facendo, e comunque sarebbe difficilmente immaginabile un'altra interpretazione che possa rendere ragione del testo nel suo insieme.
Se a questo punto gradissimo - come esempio di siffatta a. la cui interpretazione, anche se non offerta dal poeta, si può facilmente fornire - non più un intero episodio, ma un semplice personaggio, si può considerare quello di Matelda. Indubbiamente il suo valore simbolico non è univoco - ella infatti rappresenta, come Proserpina, anche la fecondità vegetale e la generazione umana (cfr. A. Pézard, Nymphes platoniciennes au Paradis terrestre, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze 1955, Il 561-566) - ma gli ultimi canti del Purgatorio (XXVIII 37-148, XXXI 91-105, XXXIII 118-129, ecc.) dimostrano che Matelda ha soprattutto la funzione di raffigurare la perfezione della vita attiva, che permette di raggiungere la felicità terrena. In virtù di tale simbolismo ella somiglia a Lia, con la quale del resto ha altri tratti in comune (come il fatto che ambedue appaiono la prima volta in atto di cantare e di cogliere fiori: Pg XXVII 97-99 e XXVIII 39-42). Le due donne coincidono, inoltre, nel fatto che il loro valore simbolico, pur se non enunciato espressamente nel contesto, si lascia indurre senza grossi rischi d'errore.
Il raccostamento tra Lia e Matelda è istruttivo per il funzionamento dell'a.: esso mostra anzitutto che anche se ambedue sono soggette a uno stesso impiego allegorico, non lo sono allo stesso modo. Il personaggio di Lia proviene a D. dall'esterno, ed egli lo ‛ interpreta ' in un determinato senso, peraltro tradizionale. Matelda invece è una creazione del poeta, che si serve di lei per ‘esprimere’ concretamente siffatta nozione.. Tra i due casi ritroviamo la differenza, sotto l'unico nome di a., che corre tra ‘interpretazione’ ed ‘espressione’. D'altra parte noi vediamo che in D. per un identico significato allegorico - la vita attiva - due sono i personaggi che lo sopportano, uno storico o ritenuto tale (Lia) e un altro immaginario (Matelda). Probabilmente siffatta considerazione permette, non certo di dirimere, ma di affrontare da un punto di vista inconsueto, quale quello dell'a., il sempre spinoso problema della Donna gentile.
Il procedimento letterario mediante il quale la filosofia riceve apparenza di donna compare, con il risalto che sappiamo, in Boezio, la cui Consolatio, insieme al De Amicitia di Cicerone, costituì il libro d'iniziazione filosofica di D. (Cv II XII 2-5). Il maestro del poeta, Brunetto Latini, aveva ugualmente presentato, in apertura del Tesoretto, la filosofia ‛ in sembianza di donna ', e l'uso era passato in molti altri autori del tempo (cfr. M. De Gandillac, Dante, Parigi 1968, 9 e 69). E indubbiamente sull'autorità di questi precedenti che D. attribuisce a sua volta alla filosofia, da poco scoperta, i celebri tratti di una gentile ‘dama’: E imaginava lei fatta come una donna gentile (§ 6). È chiaro che la presentazione di questo personaggio rientra nell'ambito dell'a. in quanto ‘espressione’. Gli argomenti con cui al § 8 D. giustifica la finzione della donna gentile (inadeguatezza del discorso chiaro ai soggetti più elevati e incapacità delle menti comuni a comprenderlo), fanno parte difatti, e l'abbiamo visto, dei clasmondo di D., cit., p. 34), tale finzione obbedisce a un'altra parte, come ha bene osservato Bruno Nardi (Nel mondo di D. cit., 34), tale finzione obbedisce a un'altra regola tradizionale della personificazione allegorica che vuole che i minimi particolari siano in funzione dell'intento generale. È così che il sorriso e lo sguardo della donna gentile sono presentati rispettivamente come simbolo delle persuasioni e delle dimostrazioni della filosofia (III XV 2, 19). Più ancora, caricata com'è di una funzione allegorica, sembra che la donna gentile del Convivio non abbia alcuna realtà fuori di tale funzione. Gli storici sono d'accordo nel negarle ogni esistenza storica e a tal riguardo notano diversi indizi: per esempio, il fatto che commentando Voi che 'ntendendo D. ripete nella spiegazione allegorica quanto ha detto nella spiegazione letterale (B. Nardi, Nel mondo di D., cit., pp. 37-38); o, ancora, il passo di Cv IV I 11 in cui l'autore, nel momento di dissertare su Le dolci rime, rinuncia a scoprirvi alcuna a., e decide di limitarsi a rendere ragione del senso letterale, in altre parole di parlare direttamente il linguaggio della filosofia omettendo il contorno allegorico della donna gentile (cfr. A. Pézard, Avatars de la "Donna gentile", in "Annales du Centre univ. méditerranéen" II [1947-1948] 179).
Tuttavia, la simbolica donna del Convivio non somiglia all'a. della filosofia quale appare in Boezio e Brunetto Latini. La donna di costoro è un'austera e sentenziosa matrona, mentre la donna gentile è una donna giovane e bella, che parla d'amore, parente prossima della Diotima del Simposio di Platone (v. M. De Gandillac, Dante, cit., 9; Sur le double visage de la Philosophie dans le " Convivio " de D., in "Arch. für Gesch. der Philos." L [1968] 166). Inoltre, come non esser colpiti dal fatto che D. stesso (Cv II II 1) identificò espressamente la donna gentile del Convivio con un'altra donna gentile di cui aveva parlato in precedenza nella Vita Nuova, ove la chiamava egualmente donna pietosa (Vn XXXV 2, XXXVI 2, XXXVIII 1, 4, ecc.)? Occorrerà, oserei dire, seguire D. alla lettera e concludere che la prima donna gentile ha anch'essa, come quella del Convivio, come unica realtà quella allegorica. Molti specialisti, quali per es. il Pézard (Avatars, cit., pp. 173-185, e anche M. De Gandillac, Dante, cit., pp. 9-28) si rifiutano all'idea; essi pensano che la donna gentile della Vita Nuova è una donna reale, una rivale in carne e ossa che mette in pericolo la fedeltà del poeta a Beatrice morta, e che infine ha la peggio (Vn XXXVIII-XXXIX), mentre la donna gentile del Convivio ha il sopravvento su Beatrice (Cv II II 1-5). Dalla prima alla seconda si sarebbe verificata una trasfigurazione, un'idealizzazione, un passaggio dalla realtà alla finzione. Una corrente avversa, rappresentata in particolar modo dal Nardi (cfr. tra l'altro Nel mondo di D., cit., pp. 3-40), ritiene viceversa che già la donna gentile della Vita Nuova non è che un'a. della filosofia consolatrice, priva di concreta esistenza, vittoriosa su Beatrice in una prima elaborazione del testo prima d'esserne vinta in un ulteriore rimaneggiamento.
"Non nostrum inter hos tantas componere lites". Quanto possiamo dire è che il dibattito, di grande portata per quanto riguarda la storia personale e la psicologia del poeta, perde di valore per chi s'interessa del meccanismo dell'a., giacché, come abbiamo visto molte volte, e come abbiamo appena verificato nel caso di Lia e Matelda, la validità di una raffigurazione allegorica è totalmente indipendente dal grado di realtà storica del suo portatore. La vita attiva riceve indifferentemente come simbolo un personaggio storico come Lia e un personaggio fittizio come Matelda. Così, nel Convivio la relazione allegorica tra filosofia consolatrice e donna gentile è inattaccabile dall'incertezza che investe gli antecedenti del simbolo: essa rimane identica, sia che la donna non sia stata mai altro che una creazione letteraria, sia che abbia un passato di personaggio reale.
"L'allegoria, quando comporta una certa oscurità, diventa enigma", dicevano gli antichi grammatici (Quint. Inst. VIII VI 52). In D. l'a. spesso si fa oscura, ma con diverse gradazioni, di modo che il confine tra simboli decifrabili ma avari del loro segreto ed enigmi non privi di qualsiasi trasparenza, è vago.
Tra questi ultimi segnaleremo il simbolismo del mare che compare spesso nella Commedia, e che aveva avuto fortuna nella tradizione platonica. A più riprese D. rappresenta sé stesso mentre traversa il ‘mare crudele’ a bordo di una nave, in una navigazione senza precedenti, più meravigliosa di quella degli Argonauti (If I 22-27, Pg I 1-3, Pd II 1-18, XXIII 67-69). E andrà inteso nel senso, come nel neoplatonismo, che l'uomo per pervenire al termine nella sua ricerca di Dio deve sventare le insidie di un mondo ostile. Interpretazione verificata dal fatto che D., sulla scorta dei neoplatonici, raffigura le potenze avverse con le sirene il cui canto sviò Ulisse dal suo cammino (Pg XIX 19-24, XXXI 44-45; altri testi indicati in P. Renucci, Dante, cit., pp. 113-114).
Altro enigma non completamente oscuro è la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute (Rime CIV). In essa è ravvisabile un'a. poitlica e morale che è assai difficoltoso precisare. L'interpretazione più sensata potrebbe essere quella di Pietro Alighieri, secondo il quale le tre donne raffigurerebbero tre potenze, ciascuna delle quali è figlia della precedente - la Giustizia eterna, la Giustizia distributiva e la Legge civile - che deplorano liricamente la desuetudine in cui sono cadute tra gli uomini. Ma si vede bene come questa esegesi, pur non del tutto gratuita, resta congetturale, mancando di un appoggio nel poema (cfr. P. Renucci, Dante, cit., pp. 89-91). Tra questi enigmi il cui segreto non bisogna disperare di poter cogliere, vanno infine menzionate tutte le visioni soprannaturali che si presentano negli ultimi canti del Paradiso. Il significato sarà tanto più percepibile quanto più esatta sarà la conoscenza della cultura teologica di D.; a tal proposito possiamo ricordare Pd XXX 61-114, dov'è descritto il fiume di luce che non tarda a raccogliersi in un immenso lago rotondo esteso al ridosso del cielo cristallino. Lo stesso testo avverte che si tratta di un'a., in quanto Beatrice, garbatamente deridendo la sete di sapere di D., gli fa osservare che tutte queste meraviglie non sono altro che l'ombra annunciatrice del vero: son di lor vero umbriferi prefazi (v. 78). Le apparizioni soprannaturali, peraltro, non sono privilegio della Commedia. Esse si incontrano sin dalla Vita Nuova. Basta pensare, ad esempio, al giovane vestito di bianco che visita D. durante il sonno e, piangente, lo intrattiene sulla nozione di circonferenza con un discorso latino che il poeta trova a buon diritto molto oscuro (mi parea che m'avesse parlato molto oscuramente, Vn XII 3-5). Tutto lascia credere che per i dotti dantisti di oggi l'oscurità non sia irrimediabile.
Altrettanto non si potrebbe dire di numerose altre a. che serbano il loro mistero, né sembrano prossime a svelarlo. Se ne incontrano fuori della Commedia, come in Eg II 58-64, dove si parla di una pecora dal carattere altero, ricca di latte di cui riempie dieci ciotole. L'animale è sembrato figurare la Commedia e le ciotole i dieci ultimi canti del Paradiso, a meno che non si tratti delle dieci egloghe progettate, si dice, da D.; interpretazioni gratuite, benché la presenza di un'a. in questi versi sia pressoché indubbia.
Ma naturalmente, dove l'enigma trova il suo terreno d'elezione è nella Commedia, suscitando dal XIV al XX secolo le spiegazioni più opposte tra loro. Come minimo, il disaccordo degli esegeti mostra bene, come ha notato Bruno Nardi (Nel mondo di D., cit., p. 28), che i testi controversi sono di natura allegorica. Gli esempi sono tanti e così celebri che non si sa quali scegliere.È difficile non ricordare per lo meno la descrizione del veglio di Creta: volto verso Roma, con il corpo fatto di diversi metalli, le cui fessure lasciano trasudare lacrime che ammassandosi hanno penetrato la grotta infernale dando origine ai fiumi dell'Ade (If XIV 103-120). Il riferimento al sogno di Nabucodonosor spiegato da Daniele è innegabile (Dan. 2, 31-45), e suggerisce in questo caso di scorgervi l'annuncio del declino degli Imperi terreni. Ma è chiaro che esso non dà ragione dell'intera figurazione dantesca (cfr. M. De Gandillac, Dante, cit., pp. 126-127).
Tuttavia i due più famosi enigmi della Commedia rimangono senza dubbio il Veltro e il numero cinquecento diece e cinque; essi, peraltro, sono accomunati nel fatto che tutto ciò che si sa del loro significato è che esso, per ambedue, rimanda a un salvatore. Il Veltro è un grosso cane da caccia che sterminerà la lupa impudica e avida e, per la salvezza d'Italia, la ricaccerà nell'Inferno (If I 100-111; cfr. Pg XX 10-15; per P. Renucci [D. disciple et juge, cit., pp. 89-94] il ‘veltro’ è il papa Benedetto XI). Quanto al numero DXV, esso caratterizza un inviato di Dio, erede dell'aquila, che ucciderà la ladra e il gigante suo complice (Pg XXXIII 37-45), e va inteso in rapporto all'interpretazione desunta più su da Pg XXXII 109-160, che un imperatore provvidenziale piegherà la curia romana e il re di Francia (P. Renucci [D. disciple et juge, cit., pp. 92-94, e D. et les mythes du millennium, in D. et les mythes, cit., pp. 414-421] riprende la non improbabile ipotesi che si tratti di Enrico VII). Niente nel testo permette di precisare ulteriormente il significato dell'a.; comunque il misterioso numero DXV, che va ricondotto al simbolismo dei numeri caro a D. (su ciò cfr. F. Koenen, D. s Zahlensymbolik, in "Deutsches D. Jahrbuch" VIII, Weimar 1924, 43-44; P. Renucci, Dante, cit., p. 35), resta completamente inspiegato. D'altronde il poeta ha senz'altro l'intenzione di proporre qui un rompicapo, dal momento che fa dire a Beatrice che si tratta di un racconto oscuro (narrazion buia) che ostacola la mente, come quelli di Temi e della Sfinge, con un ostico enigma (enigma forte) che solo i fatti presto risolveranno (vv. 46-51; v. P. Renucci, D. disciple et juge, cit., pp. 235-236, 367-368). Ma non sembra che questi fatti esplicativi si siano mai verificati.