Dati bibliografici
Autore: Luigi Pietrobono
Tratto da: L'Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca
Numero: 2
Anno: 1960
Pagine: 15-18
Le allegorie della Divina Commedia presso gli studiosi sono andate incontro a sorti diversissime. Ci sono stati di coloro che hanno attribuito ad esse il valore più grande del Poema e naturalmente si son dati anima a corpo a interpretarle. Han creduto che per giungere al fondo del pensi-ero di Dante altra via non ci fosse che penetrare «sotto il velame de li versi strani». Sono studiosi appartenenti per io più a secoli lontani, ma non rari a incontrarsi anche ai tempi nostri. Altri invece han ragionato così le allegorie non sì possono mai decifrare; ad aprirle con sicurezza si richiederebbe che tornasse al mondo l'Autore e ci dicesse lui il significato de' suoi simboli. Noi da noi non le possiamo intendere; e ce ne avverte lo stesso Poeta nel Convivio, scrivendo che la «vera sentenza» delle sue canzoni «per alcuno vedere non si può, s’io non la conto, perché è nascosta sotto figura d'allegoria». Ma, dato pure che fossimo in grado di spiegarle, poco sarebbe il vantaggio. Dante sotto il velo allegorico ha celato il suo pensiero, che è quello de' tempi suoi, e non interessa conoscerlo. Ciò che vive immortale nella Commedia è la poesia; ma siccome dov'è allegoria non è poesia, e dov'è poesia non è allegoria, ci rompiamo il capo a compiere un lavoro che sarebbe come quello di Sisifo. Saremmo sempre da capo.
Tanto i primi, quanto i secondi, sia detto con sopportazione, sono fuori del diritto cammino: gli uni, perché credono che un'opera d'arte valga per quello che si dice contenuto; gli altri, perché confondono l’allegoria delle canzoni con quella della Commedia. Ma è chiaro che, quando Dante componeva le sue canzoni, era ben lungi dal preveder-e che un giorno avrebbe dato ad esse un significato al quale, scrivendole, non pensava; mentre le parti allegoriche del Poema sono composte con l'intento deliberato di significare con esse il suo pensiero, Sono mezzi d'espressione; e non un pleonasma che si sia dilettato di aggiungere a' suoi canti dopo averli finiti; come sappiamo che fece il Cav. Marino con il suo Adone. Vi stupireste voi se, aprendo un libro di storia dell'arte, vi accadesse di leggere pagine e pagine sulla ragione del tutto e delle parti dei grandi affreschi di Raffaello nelle stanze vaticane? Vi piacerebbe anzi, io credo, di trovar uno che vi dimostrasse perché l'artista ha distribuito a quel modo le figure, le une ponendole al primo piano, le altre al secondo; il motivo di quei gruppi, della scelta di quei personaggi e così via. Orbene le allegorie di Dante sono un linguaggio figurato al pari di quello di Michelangelo e di Raffaello: una metafora continuata, come ricordo di aver imparato da ragazzo in un libricino di rettorica.
Dante per noi italiani è troppo grain cosa per non cercare di non intenderlo in tutto e per tutto. La gratitudine maggiore l'avremo per coloro che ce ne rivelano meglio la poesia; una gratitudine abbastanza sentita la sentiremo per coloro che ci aiutano a superare le difficoltà che talora presenta la sua lingua, e illuminano le parti con gli usi e i costumi del tempo e con le notizie storiche e culturali spesso indispensabili. Qualche volta il merito lo avranno anche quelli che si affaticano intorno alle sue allegorie. È proprio certo che queste sono contrarie alla poesia? Con tutto il rispetto che merita chi così asserisce, non lo credo. Gerione è una allegoria esso pure, e intanto ci riempie di ammirazione, formando nel tempo stesso una delle creazioni più potenti della fantasia di Dante; e Matelda, quella creatura viva e spirante, che ci procura un’irresistibile simpatia, è similmente un'allegoria.
Si dirà: sia come vi pare. Il fatto è che da sei secoli gli esegeti s'industriano di chiarire, per esempio, la vostra Matelda, e non trovano la via di mettersi d'accordo. Voi che perdete il vostro tempo a inseguire il Poeta ne' suoi riposti pensieri, lo vediamo bene, siete lì, ad accapigliarvi di continuo intorno al senso di questo o quel simbolo, ma senza venir mai a capo di nulla. È verissimo. Ma si lecito pormi questa domanda: per colpa del Poeta, che non è riuscito a imprimere nelle figurazioni allegoriche il suo pensiero in maniera semplice e chiara; o per colpa de' suoi interpreti? Rispondo, senza esitare un istante: nella grandissima maggioranza dei casi, per colpa de' suoi interpreti.
Lo so: la mia affermazione va a colpire molta orava gente, e perciò ha bisogno d'esser subito chiarita. Il poema cli Dante, si può dire, non s'era ancora finito di conoscere che già ora uno, ora due, ora più, si posero all'opera di commentarlo, a cominciare dal figliuolo Jacopo, che ne dette un compendio in versi, e da quel frate Guido da Pisa che al suo compendio fece seguire chiose latine. Molto probabilmente dentro lo stesso decennio della morte del Poeta il bolognese Jacopo della Lana fece il commento a tutt'e tre le cantiche; gli tennero dietro un anonimo, detto l'Ottimo, e il figlio Pietro, e tanti altri che qui non è il luogo di rammentare. Non erano passati cinquant'anni che già la Commedia cominciò ad essere letta pubblicamente nelle università o nelle chiese. La grandezza dell'opera era tale che non è maraviglia abbia suscitata tanta ammirazione e tanto desiderio di conoscerla e di rendersene ragione. Ma è accaduto quello che era inevitabile accadesse: ciascuno si è reputato felice di trovare una spiegazione plausibile dei simboli di Dante via via che, andando innanzi, si offrivano alle loro intelligenze come tante domande, alle quali conveniva dare una risposta. Si è creduto cioè che essi fossero tali da poterli intendere, tenendo conto solo di ciò che leggevano al punto dov'erano. Che cosa rappresentano le tre fiere famose del primo canto? La lonza con il suo manto screziato e con le mosse snelle e seducenti evidentemente, dissero, è hl simbolo della lussuria, cui il Poeta non nasconde che fosse piuttosto incline. E il leone con la testa alta... che altro potrebbe significare, se non la superbia? Sulla lupa poi non c'è luogo a dubbi: basta vederla, dicevano, per capire che è figura dell'avarizia. Si poteva dare un discorso più ragionevole? Così le prime spiegazioni degli antichi... sono state proprio esse a sviane gli Interpreti venuti dopo. Di codeste faccende, si è osservato, s'intendevano meglio di noi; respiravano quasi la stessa aria, c'erano abituati. Darsi a credere di poter di meglio sarebbe, se non stoltezza, arroganza imperdonabile.
L'allegoria di Dante, al contrario, è tale che non si può intendere a pezzi. Dal principio alla fine della Commedia corre un pensiero solo, variato in cento modi, ma unico. Quale? Anche qui si è proceduto e si procede tuttavia a tentoni. Sulle prime, com'era naturale, l'impressione più grande la fece ora il moralista, ora il teologo, ora il politico, ora il creatore di tanti belli episodi e ora altro. La Commedia è un mare magnum dove ciascuno si dà a credere di poter pescare ciò che vuole. Vennero poi gli adoratori dei classici, che non gli menavano buona l'aver egli composto un poema, che si scosta dai modelli eterni di Omero e di Virgilio. Un poema che s'intitola Commedia. Si può concepire un peggior pasticcio? Ma, visto e considerato che si leggeva volentieri e c'era da ammirare, da commuoversi, da apprendere e da godere, in qualche modo bisognava battezzarlo. E arrivarono a questa ammirevole conclusione: è un poema sui generis, che fa parte a sé; e volevano forse dire che era un capriccio, in fondo, non riuscito male. Ma il guaio si è che anche oggi si continua a discutere, non più sulla forma o sul nome da dare a un poema cosiffatto, che si allontana da tutti gli altri, ma sulla sua sostanza. Quale cioè lo spirito informatore di tutta l'opera? Ha, o no, un'idea centrale? Ha un'idea amata con tanto ardore e tanta fede da farlo vibrare tutto? Per non andar troppo per le lunghe vi dirò che ora gli studiosi più seri sono quasi tutti d'accordo nel riconoscere che la Commedia è una grande profezia. Di che? Fino a rispondere: è la profezia' del Veltro: ci si arriva abbastanza bene. Ma il Veltro che è? - Un imperatore. - asseriscono i dantisti più autorevoli. E io sono con loro. Ma perché dobbiamo invocare l'avvento di lui per liberare il mondo dalla lupa? Qui ricomincia la discordia. Ma poiché voi non mi avete chiamato perché io vi facessi la storia della fortuna della allegoria dantesca, sì perché ve la spiegassi, mi restringerò a dirvi come io sia venuto alla spiegazione che devo darvi.
Osservate: la lupa non lascia a nessuno la possibilità di salire al colle... la frode è un male da cui «ogni coscienza è morsa»; l'invidia è «morte comune»; nella Tolomea le anime dei traditori rovinano subito commessa la colpa: Dante non concepisce che l'anima, anche pura e buona, spicchi direttamente il volo dal Paradiso. Come mai? Lasciamo stare il resto; ma il fatto di Branca d'Oria è impossibile che non colpisca il lettore. C'è un peccato al mondo, di cui non ci si possa redimere? Secondo la teologia cristiana e cattolica, no. Il Vangelo parla chiaro... e chiaro parla anche la Chiesa, la quale, al contrario, registra tra i peccati più gravi contro lo Spirito Santo «la disperazione della salute». Per un momento, sappiamo che Dante lo ignorasse o che pensasse altrimenti. La ipotesi si appalesa immediatamente assurda. Dante lo sapeva meglio di noi, e dal sentimento che ne aveva ha tratto uno degli episodi più belli del Purgatorio: Manfredi. Senza dire che l'antipurgatorio è popolato di anime tornate a Dio solo nel punto estremo della vita.
Ma c'è di più. Quasi tutte le volte che gli accade di accennare alle condizioni del mondo de' suoi tempi, il Poeta fa uso di espressioni, le quali dicono che il male è dilagato ovunque e non è possibile guardarsene. Il mondo è deserto d'ogni virtù e di malizia gravido e coperto; gli uomini sono tutti sviati dietro il malo esempio; in terra non c'è chi governi, «onde si svia l'umana famiglia»; la cupidigia, di cui una delle figlie più terribili è la frode, affonda i mortali sotto di sé in modo che nessuno, badate bene, nessuno può «trarre li occhi fuor de le sue onde»; la frode occupa tutto il mondo; Gerione tutto il mondo appuzza. Ma che giova citar passi della Commedia che ciascuno ricorda? Il Poeta intona il suo canto con l'affermazione che la diritta via era smarrita da tutti, e non da lui solo. Per quanto la cosa possa parere strana e quasi incredibile, da quanto si è visto risulta ineluttabilmente che, a giudizio di Dante, gli uomini erano tutti fuori del diritto cammino e tutti inquinati di frode. Questo richiede il senso letterario del poema e questo noi dobbiamo tener per fermo; o cadere nell’arbitrio, di non prestar fede alle sue parole. Quel Dante, che è signore d'ogni rima, piega la parola a significare il suo pensiero con una potenza che pochi han posseduto al par di lui, parla e canta e dipinge e scolpisce nitidamente immagini e pensi; quel medesimo Dante allorché si trovava a dover determinare un pensiero così importante e così fondamentale alla intelligenza dell'opera, perde la virtù, non esprime più netto e preciso il suo pensiero. Ma è inutile continuare. Egli ha detto in una forma, ribelle a qualunque sottigliezza d’interpreti, che la pianta del paradiso terrestre, quella che Dio voleva non si toccasse «è or due volte dirubata quivi». Per la donazione di Costantino il mondo è ricaduto di nuovo nelle condizioni in cui era avanti la redenzione. Si è commessa una nuova colpa originale.
Vi sembrerà un’idea insostenibile. Eppure il peccato originale non è consistito in altro. Dio aveva detto: non mangerete di questa pianta. Il mangiarne, lo scerparla, il dirubarla significa togliere il fondamento della giustizia. «Si conserva il seme d'ogni giusto», risponde il Grifone... Ma nel mondo, violata l'unità dell'impero, ci poteva essere più giustizia? No, secondo il pensiero di Dante lucidamente espresso nella Monarchia. Nell'interdetta Dante vede U comandamento dei comandamenti; l'espressione cioè della volontà divina, e quindi il fondamento d'ogni giustizia: quod divina voluntas sit ipsum ius. E che vuole Dio? Che il genere umano sia uno, come uno è Lui, e sia regolato dall'Imperatore romano. Guardate alla pianta: è fatta come l'Impero di Satana, e come l'impero, «giustissimo e pio» di Paradiso. Ma Costantino lo ha novamente diviso; ha infranto cioè un'altra volta I’interdetto, e tutti gli uomini risentono gli effetti della mancanza della giustizia... Date le sue idee politiche, Dante non poteva ragionare altrimenti. Ponete questa idea alla base della Commedia ·e vedrete tutte le oscurità delle allegorie dileguare come nebbia al sole.