Dati bibliografici
Autore: Pietro Cagni
Tratto da: Natura Società Letteratura. Atti del XXII Congresso dell'ADI -Associazione degli Italianisti, Bologna, 13-15 settembre 2018
Editore: ADI, Roma
Anno: 2020
Per una nuova inchiesta sulla figuralità nella Commedia intendiamo recuperare, innanzitutto, i contributi danteschi di Erich Auerbach, passandone in rassegna le tappe più significative, al fine di indagare nuovamente gli approdi e i limiti della sua riflessione. Consapevoli che «i presupposti allegorici della cultura di Dante non agiscono sempre e ovunque nel poema ed è perciò impossibile trovare una chiave di lettura univoca» , siamo convinti che alcuni spunti di Auerbach possano contribuire al superamento di «un’accezione ristretta di realismo e allegoria» , aprendo la strada a una più ampia comprensione della figuralità dantesca.
Alcuni aspetti degli studi auerbachiani hanno spinto gran parte della critica dantesca a ridimensionarne l’effettivo contributo . In particolare, la nozione di figuralità, che a partire da Figura costituisce una vera e propria “dominante” all’interno del sistema critico di Auerbach , appare segnata da significativi slittamenti che impediscono di riconoscere un intendimento univoco da parte dello studioso. Auerbach, infatti, adotta la medesima etichetta di “figura” per indicare fenomeni assai diversi, muovendosi con libertà tra concezioni differenti. Adottando come criterio modellizzante la relazione spaziale e cronologica dei due poli della tensione figurale, è possibile delineare un sistema figurale tripartito: innanzitutto, nella prima parte del saggio Figura, Auerbach recupera una definizione di figuralità “orizzontale” (in linea con la riflessione tardoantica e medievale), a cui fa seguire una interpretazione figurale “verticale” o “metaforica” o “di secondo livello” (determinante l’interpretazione di Catone e Virgilio in Figura e di Farinata e Cavalcante in Mimesis) e, infine, una lettura figurale “capovolta” o “estesa” (che accomuna la trattazione auerbachiana di Beatrice e di san Francesco). Non si tratta di uno sviluppo teorico lineare: l’instabilità della nozione di figura è già presente all’interno del dittico formato da Figura e Franz von Assisi in der Komödie e raggiunge il culmine nell’ottavo capitolo di Mimesis, ma rientra all’interno di un orizzonte figurale “convenzionale” negli ultimi contributi danteschi .
La critica non ha mancato di rilevare la dubbia legittimità di simili slittamenti. E ha indicato altre difficoltà in corrispondenza degli snodi essenziali del suo discorso: si pensi, ad esempio, alle riserve di Casadei sulla definizione dello stile dantesco come realizzazione culminante del sermo humilis scritturale, che tra l’altro viene fatto coincidere con il “comico” . Il compito che spetta adesso ai lettori è verificare quali aspetti della riflessione di Auerbach si possano e si debbano recuperare per una definizione della figuralità della Commedia.
Nel difficile compito di descrivere il sistema critico di Auerbach , alcuni studiosi hanno valorizzato il suo distintivo andamento “filologico”, orientato all’individuazione di una «topologia storica, nella quale lo scopo principale non è di spiegare la particolarità del fenomeno in sé, ma piuttosto le condizioni della sua nascita e la direzione assunta dai suoi effetti» . La visione insieme globale e frammentata dello studioso, come nota Castellana, non scaturisce mai dall’adozione di «un taglio sincronico “puro”, di tipo strutturalistico», ma è «il risultato di una considerazione evolutiva dei fenomeni, il cui significato si chiarisce nel dispiegarsi temporale quale si presenta all’orizzonte intellettuale dello storiografo» . La ricerca di Auerbach sembra rinunciare a paradigmi del tutto atemporali o assoluti, e mostra lo sforzo di non obliterare le peculiarità di ciascuna manifestazione particolare per riconoscerla parte dello sviluppo diacronico di un fenomeno, al fine di cogliere, in tal modo, «qualche cosa di universale» . Il saggio Figura costituisce forse l’applicazione più rigorosa di tale procedimento: nelle prime tre sezioni dello studio Auerbach svolge un’ampia analisi di carattere storico-semantico, delineando una vera e propria “archeologia della figura”, che gli consente di ricostruire la nascita e la natura dell’intendimento figurale cristiano. Non sarà inutile, allora, ripercorrere brevemente gli esiti di tale analisi, che approda a un efficace quadro generale della figuralità tardoantica e medievale.
Nell’esegesi scritturale dei Padri della Chiesa, e in particolare nei commentari di Tertulliano e di Agostino, Auerbach ha riconosciuto lo spartiacque che ha separato definitivamente l’intendimento antico e pagano dell’espressione “figura” e il nuovo e peculiare significato che essa assume nel mondo cristiano, dove tale parola passa a indicare
qualche cosa di reale, di storico, che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa reale e storica. […] La figura profetica è un fatto storico-concreto, ed è adempiuta da fatti storico-concreti.
Non si tratta appena di un mutamento semantico, ma di una nuova concezione della storia, che pone il passato e il presente all’interno di una nuova dinamica unitiva, il cui centro è costituito dall’avvento e dal sacrificio del Messia. Il Nuovo Patto, istituito da Cristo, aveva compiuto e superato l’antica legge: tutta la storia del popolo di Israele, allora, era stata riconosciuta come un’anticipazione, una profezia successivamente adempiuta dall’avvento di Gesù. Dall’indagine filologica sui significati di figura Auerbach delinea i fondamenti della filosofia cristiana della storia , radicata nella riflessione paolina , e ne fa emergere i termini fondamentali:
L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali; essi sono contenuti entrambi, come si è già sottolineato più volte, nella corrente che è la vita storica, mentre solo l’intelligenza, l’“intellectus spiritualis”, è un atto spirituale.
Sono qui espressi, in estrema sintesi, i tratti caratteristici della concezione figurale o tipologica della storia, che interpreta il passato come “profezia” (umbra, imago) e il futuro come “adempimento” (la veritas), riconoscendo la piena storicità dei due poli di tale tensione. Per far emergere con la massima evidenza il radicamento della figura nel piano della storia e della realtà, Auerbach sviluppa, inoltre, un rapido confronto tra la struttura tipologica o real-profetica e le forme “simboliche” ad essa coeve. Seppur a grandi linee, lo studioso descrive le caratteristiche del “metodo spiritualistico-morale-allegorico”, riconducendo entro questa macro-categoria correnti interpretative eterogenee ma tutte caratterizzate da una marcata sensibilità acronica che nega ai fatti «ogni realtà storicocorporea» e individua in essi significati filosofici o morali. Tale metodo allegorico non riconosce la «pari storicità tanto della cosa significante quanto di quella significata» , ma rende astratto almeno uno dei due elementi. Solo poche pagine prima Auerbach si era soffermato sulla radicale differenza tra l’esegesi tertullianea ed agostiniana e quella di Origene, sbilanciata in senso mistico ed etico . Appare chiaro, dunque, che ad Auerbach preme innanzitutto affermare con decisione la natura storica delle profezie e del loro adempimento, contrastando ogni riduzione morale o spiritualistica:
Mosé non è meno storico o reale perché è “umbra” o “figura” di Cristo, e Cristo, l’adempimento, non è un’idea astratta ma è storico e reale. Le figure storico-reali sono da interpretare spiritualmente (“spiritualiter interpretari”) ma l’interpretazione si riporta a un adempimento carnale, ossia storico.
Solo nel quarto e ultimo segmento della sua ricerca Auerbach mette in atto una sorta di “verifica sperimentale” del paradigma figurale, con l’obiettivo di vagliarne la tenuta ermeneutica e dimostrare il ruolo decisivo delle forme figurali o tipologiche nella struttura della Commedia . Come vedremo, lo studioso non applica coerentemente la nozione che aveva descritto solo poche pagine prima, ma adotta un punto di vista diverso, che ha generato un radicale rifiuto presso alcuni settori della critica dantesca.
Puntando la sua attenzione sulla storicità dei due poli della relazione figurale, Auerbach tralascia di approfondire sistematicamente la natura e i modi dell’adimpletio. Riconosciamo qui la causa della mancata corrispondenza tra l’accurata storicizzazione della categoria di figura e la sua successiva applicazione al testo della Commedia. L’interpretazione di Catone e Virgilio, va detto chiaramente, non si innesta coerentemente nell’ottica figurale delineata dallo studioso in precedenza e si basa, piuttosto, su una nozione della realtà terrena sub specie aeternitatis. Secondo Auerbach, infatti, nel corso del cammino attraverso i tre regni, Dante avrebbe visto e imparato «l’ordine rivelato» delle cose, cioè l’adempimento di quanto l’esperienza terrena degli uomini contiene in nuce . Così, nel Purgatorio, il pellegrino avrebbe conosciuto il vero significato della vicenda storica di Catone, la «figura svelata o adempiuta, la verità di quell’avvenimento figurale. Infatti la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto “umbra futurorum”: una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire» . Allo stesso modo, il Virgilio storico sarebbe «”figura” per il personaggio, ora adempiuto nell’aldilà, del poeta-profeta che fa da guida» . Auerbach ritiene di aver raggiunto il principio regolatore del poema, l’elemento decisivo per la comprensione estetica e ideologica dell’opera che determina, ad esempio, l’assegnazione di una particolare funzione a ciascun personaggio . Tuttavia, un taglio del genere non corrisponde esattamente al paradigma della figuralità medievale. Se si dice che Catone e Virgilio, nella Commedia, dispiegano in modo manifesto una qualità del loro essere che durante la vita terrena si era mostrata in modo imperfetto, si sta praticando un’estensione metaforica del sistema figurale. L’indagine auerbachiana converge, in questo saggio, su una tensione unitiva soltanto simile a quella tipologica-figurale. Nel rapporto tra il personaggio terreno e il suo adempimento ultraterreno, nessuno dei due poli si rivolge all’avvento di Cristo (né come adimpletio del passato veterotestamentario né come ulteriore figura della rivelazione finale): in gioco è una relazione tra i due momenti della vicenda esistenziale dell’individuo, considerata ora nella prospettiva terrena (incompiuta e per questo non del tutto decifrabile), ora in quella ultraterrena (pienamente realizzata). Analogamente a quanto accade nella relazione tipologica, le vicende storiche vengono riconosciute come portatrici di una duplice significatività, per cui ciò che accade non significa soltanto se stesso, ma al contempo preannuncia (o conferma) un altro fatto. La prospettiva di Auerbach è, dunque, solo apparentemente “verticale”, ma resta di fatto confinata entro una dimensione tutta umana. Certo, il compimento di cui parla Auerbach ha luogo nell’aldilà cristiano e, pertanto, fa senz’altro parte del piano provvidenziale di Dio, ma ciò appare un mero postulato: nonostante la sua fede nella realtà escatologica, Dante avrebbe stabilito una frattura tra la vicenda umana e la storia sacra, dalla cui corrispondenza scaturisce, invece, ogni interpretazione propriamente tipologica della storia. Il mondo ultraterreno della Commedia appare un mero scenario in cui ha luogo l’«attualizzazione, il compimento della forma individuale», secondo quel «continuo impulso dalla potenza all’atto» che conduce una forma verso la sua perfezione . Pur avendo magistralmente definito il figuralismo medievale nelle prime sezioni del saggio, Auerbach finisce per teorizzare l’invenzione, da parte di Dante, di una “tipologia secolare” che da un lato estende a soggetti antichi o contemporanei la fondamentale dinamica di profezia-adempimento, dall’altro la circoscrive a un orizzonte tutto umano. Giustamente Castellana ha definito tale figuralismo «di secondo grado rispetto a quello di primo livello immanente alle Sacre Scritture» : Lo stesso Auerbach era ben consapevole del potere corrosivo di tale operazione, il cui esito necessario è l’esplosione, la definitiva rottura della stessa concezione figurale. Mimesis rappresenta il culmine della tesi per cui Dante avrebbe dissipato l’essenza del figuralismo cristiano, aprendo la strada al realismo moderno.
La nozione di figura messa a punto nel saggio del 1939, vera «chiave interpretativa nel progetto critico e storiografico di Auerbach» , costituisce l’«Ansatzpunkt (letteralmente, ‘punto di partenza’) per lo sprigionarsi, successivo, vario e diversificato, della rappresentazione della realtà, di quell’oggetto cioè sfaccettato e a tratti sfuggente che Auerbach ricerca in Mimesis» . Lo studioso allarga in senso universalista il campo di interesse e accantona il metodo semantico-filologico : in Mimesis il modello figurale perde i tratti storicamente determinati e diventa un pilastro del paradigma storiografico attraverso cui Auerbach interroga, procedendo per «sezioni orizzontali» , le forme di rappresentazione del reale nella storia letteraria dell’Occidente. Le conseguenze del radicale mutamento di prospettiva emergono con la massima evidenza nel capitolo dantesco dell’opera, centrato su Farinata e Cavalcante. In estrema sintesi: Dante, nella Commedia, avrebbe compiuto un’operazione straordinariamente originale, coniugando la concezione figurale con l’adozione di uno stile “comico” comparabile al modello del sermo humilis scritturale. Come si è già accennato, Casadei ha rilevato che l’etichetta di sermo humilis non è in grado di abbracciare il poema nella sua interezza, perché inadeguata a rendere la progressiva elevazione della materia e dello stile di un’opera che giunge, infine, alla teodìa . Cardine della lettura di Auerbach è la convinzione che ogni personaggio della Commedia sia «sempre lo stesso, tal quale visse» . L’individualità terrena dell’uomo perdura nel mondo ultraterreno, dove trova definitivo compimento. Farinata e Cavalcante sono exempla scelti per illustrare questa dinamica: essi conservano intatte le grandi passioni che provarono in vita, i loro sentimenti ed affetti terreni, anzi, sono estremamente intensificati dalla nuova condizione, definitiva e immutabile, della dannazione eterna. In questo senso, la riflessione auerbachiana all’altezza di Mimesis può essere considerata come un potente rilancio del frammento eracliteo che lo studioso aveva posto in esergo a Dante, poeta del mondo terreno («ἦθος ἀνθρώπῳ δαίµων»): laddove il “compimento” individua la realizzazione piena e perfetta del “carattere dell’uomo”, però, non si può certo riconoscere una relazione propriamente figuraletipologica. È stato sottolineato il «duplice movimento teorico» che tale operazione comporta: Dante, da un lato, avrebbe realizzato un’estensione del legame tipologico alla sua realtà contemporanea e, dall’altro, avrebbe compiuto un suo drastico ridimensionamento, collocandolo in una dimensione “soggettiva”, appartenente alla sfera individuale dell’uomo . Così, l’attenzione di Auerbach è avvinta dalla straordinaria intensità del racconto dantesco e dalla capacità tutta dantesca di restituire (di “imitare”) l’esperienza sensibile della vita terrena . Il “prepotente genio realistico” di Dante, che ha tratteggiato «un mondo senza tempo e nondimeno pieno di storia», appare radicato nella sua ferma convinzione dell’«indistruttibilità cristiana dell’uomo totale» . Riducendo, come abbiamo visto, la tensione figurale alla dialettica esistente tra i due momenti (terreno e ultraterreno) dell’esperienza umana, Auerbach «concede sempre più spazio all’individuo, alle sue passioni, alla sua vita terrena e alla sua storicità», liberando, di fatto, la storia dell’uomo da «qualsiasi ipoteca teologica» . A nostro avviso, la dimensione teologica non è del tutto negata da Auerbach quanto, piuttosto, “svuotata”: l’esistenza dell’uomo viene letta, certo, sub specie aeternitatis, ma alla sua “figura” non è riconosciuta alcuna effettiva partecipazione alla dimensione sacra della storia. La potenza rappresentativa della poesia si sarebbe spinta «tanto oltre che l’effetto si riversa nel terrestre e il personaggio, nel suo compimento, afferra troppo gli ascoltatori. L’aldilà diventa il teatro dell’uomo e delle sue passioni» . Nella prospettiva di Auerbach l’Inferno della Commedia funzionerebbe, insomma, come un «mezzo per accrescere l’effetto» di sentimenti del tutto terreni e capace di attivare tutta la drammaticità e l’espressività dei personaggi. Siamo di fronte alla riduzione dell’Inferno dantesco a una mera “cornice teologica” o, per usare la definizione dello stesso Auerbach, un «teatro» delle umane passioni. Ammessa tale linea interpretativa, per cui l’aldilà funzionerebbe come un mero «espediente abilitante per la rappresentazione della realtà terrestre», l’escatologia cristiana della Commedia e il mondo interamente laicizzato e terreno del Decameron appaiono ben più affini di quanto lo stesso Auerbach abbia voluto ammettere: già in Dante, infatti, avrebbe avuto inizio quella “secolarizzazione” che si sarebbe completata, poi, con l’opera di Boccaccio .
Seguendo Auerbach, si è costretti ad affermare che nel poema dantesco la figura sarebbe giunta a un punto di rottura e di autoannullamento. Dante non avrebbe più controllato il dispositivo figurale, cedendo alle sue enormi potenzialità rappresentative: «l’immagine dell’uomo si pone davanti all’immagine di Dio» , eclissando il divino. In tal modo la figura, che realizza, al contrario, la compresenza storica del figurante e del figurato, è perduta. De-storicizzando la nozione di figuralismo, Auerbach (e non Dante!)
ha realizzato l’essenza figurale-cristiana dell’uomo e nel realizzarla l’ha distrutta. La potente cornice s’infranse per la strapotenza delle immagini che essa incluse.
Bisognerà concludere che il riconoscimento, nella Commedia, di un figuralismo di tipo “metaforico”, “secolare” o “di secondo grado” impone un prezzo troppo alto: l’esclusione dell’opera di Dante da un orizzonte propriamente figurale. Questa pagina di Auerbach, dunque, non potrà essere assunta come modello per un’interpretazione del poema. Come ben sintetizza Mineo, la prospettiva del figuralismo “vero e proprio” si determina
in senso orizzontale, cioè storico terreno, e implica altresì un rapporto tra diversi, un rapporto di tipo analogico. Non si costituisce invece in senso verticale, tra terreno e sovraterreno, tra storico e metastorico, né all’interno di un’identica realtà. […] Come, in generale, non è raccomandabile nell’esercizio critico l’estensione metaforica dei termini scientifici, perché può creare equivoci e fraintendimenti, e veri e propri errori e distorsioni, nel caso della Divina Commedia tale estensione è – ed è avvenuto – in verità impropria e fuorviante. Il rapporto di figura e compimento tra l’essere terreno dell’anima e la sua realtà d’oltretomba appartiene più al nesso aristotelico di potenza e atto che a quello di figura e sua realizzazione e potenziamento “storici” .
Gli ultimi paragrafi di Figura, dedicati a Beatrice, testimoniano un ulteriore spostamento della prospettiva figurale riconosciuta da Auerbach nella Commedia. Beatrice non è figura di se stessa: la sua apparizione terrena non coincide con una rivelazione incompleta della sua individualità, ma si costituisce già come un «compimento esistenziale» della realtà divina. La tensione figurale non è riconosciuta in senso verticale, tra i due momenti (terreno e ultraterreno) della medesima persona, ma si pone, adesso, in senso orizzontale, tra avvenimenti della storia diversi e uniti dalla dinamica di rivelazione e adempimento. Il personaggio di Beatrice sollecita Auerbach a collocare il compimento della dinamica tipologica nella dimensione terrena, e non in quella oltremondana dove, oltretutto, il compimento riguardava la stessa individualità umana (e non la rivelazione divina): «per Dante la Beatrice terrestre è fin dal primo giorno della sua apparizione un miracolo mandato al cielo, un’incarnazione della verità divina» . E lo studioso aggiunge, subito dopo: «i miracoli accadono soltanto sulla terra, e l’incarnazione è carne». Non a caso, lo studioso ricorre all’esperienza giovanile della Vita Nuova, quando Dante «aveva potuto vedere la rivelazione incarnata in un essere vivente» . Certo, l’inedita dimensione escatologica della Commedia comporta una differenza tra le due esperienze, ma senza fissarle in una gerarchia che metta in secondo piano la vicenda terrena. Nella prospettiva di un figuralismo “orizzontale”, infatti, la figura terrena e quella ultraterrena sono distinte unicamente dal loro diverso grado di “trasparenza” nella mediazione tra l’uomo e Dio: Beatrice «è la guida che, prima indirettamente e in Paradiso direttamente, mostra l’ordine rivelato, la verità delle figure terrene» . Ciò che ci preme sottolineare è che una tale concezione figurale, non riducendo la dimensione escatologica a sistema in cui la forma individuale giunge al proprio compimento, assegna una piena significazione tipologica alla realtà terrena. In Beatrice Dante ha colto la “significatività plurale” propria delle figurae: da un lato la realtà della persona terrena non oscura la realtà divina ma, anzi, la rivela; dall’altro «il significato più profondo» non schiaccia né esaurisce l’individualità umana, ma realizza una perfetta compresenza dei due ordini di significato. Il “compimento esistenziale” compiuto da Beatrice a favore di Dante si offre come un «rinnovamento concreto» dell’azione salvifica di Cristo: «Beatrice è incarnazione, è “figura” o “idolo Christi”» . È evidente che l’adimpletio della figura di Beatrice avrà una valenza profondamente diversa da quella ipotizzata a partire da Catone, Virgilio, Farinata e Cavalcante. Auerbach, tuttavia, come abbiamo più volte rilevato, impegnato com’è a difendere la storicità delle figurae dantesche contro ogni loro riduzione spiritualistica, non ha distinto adeguatamente le differenti prospettive figurali emerse nel corso della sua indagine.
Soltanto sei anni dopo Figura Auerbach avrebbe dato alle stampe Franz von Assisi in der Komödie (poi raccolto, insieme a Sacrae Scripturae sermo humilis e a Figura, nei Neue Dantestudien del 1944). Nelle nozze di Francesco e Povertà Auerbach scorge il «rinnovamento concreto dell’imitazione esistenziale» di Cristo . La povertà e l’umiltà del santo non realizzano appena una realizzazione del modello di vita cristiana, ma ripetono il fatto di Cristo nel presente della Chiesa. Francesco è, dunque, una «“figura” capovolta» . È una straordinaria intuizione delle enormi possibilità della tipologia medievale: la medesima relazione tipologica che legava i fatti e le profezie dell’Antico Testamento alla venuta e al sacrificio di Cristo adesso si “capovolge” per indicare la «ripetizione imitativa» del Redentore nel tempo presente. Auerbach intuisce nello sguardo di Dante una dinamica figurale non più confinata alle Scritture, ma continuamente operante nella storia. Anche il presente, infatti, viene fatto partecipare della significazione tipologica: Beatrice e Francesco testimoniano una nuova forma di adimpletio, la “ripetizione” (o “imitazione esistenziale”) dell’azione salvifica di Gesù. Tale nozione di figuralità sottolinea la centralità storica dell’avvenimento di Cristo, annunciato dalle profezie e prefigurazioni veterotestamentarie, ripresentato dalle figurae contemporanee. La nozione di figuralità “capovolta” non corrisponde, per la verità, a quella “orizzontale” o di “primo grado”. Vero è che a questo punto Auerbach arresta la sua analisi, senza offrire al lettore un inquadramento teorico rigoroso. Tale mancanza ha dato luogo a notevoli fraintendimenti: alcuni studiosi, restringendo dogmaticamente i confini del figuralismo medievale, hanno considerato del tutto illegittima tale nozione di figuralità e liquidato come «assurda» l’analisi di Auerbach . Altri, dimostrando maggiore cautela, per risolvere l’apparente aporia di una figura “capovolta” hanno ridotto il capovolgimento prospettico a una semplice «applicazione letteraria, in cui la successione temporale non è così cogente» . Siamo convinti che questi giudizi non colgano nel segno: il figuralismo dantesco individuato da Auerbach mostra, certo, dei caratteri originali ma, come vedremo a breve, si modella su un’interpretazione coerente alla riflessione figurale tradizionale.
Prima di affrontare questo snodo cruciale va fatto cenno all’ultima fase della riflessione dantesca di Auerbach, che testimonia un ultimo slittamento (ancora una volta, non esplicito) nella sua prospettiva figurale. Auerbach, infatti, non fa più ricorso alla “figura capovolta” e punta piuttosto al rinvenimento, nei versi della Commedia, di riferimenti, allusioni o innovative riformulazioni di ben consolidati “motivi tipologici” (typologysche Motive) scritturali. In modo assai convincente lo studioso rintraccia forti legami tra il sistema di relazioni e di significati individuati dall’esegesi biblica e alcuni snodi del poema dantesco . Gli Ultimi studi danteschi, dunque, attestano una prospettiva ermeneutica integralmente appartenente all’orizzonte del figuralismo “di primo grado”.
Si è visto come il “figuralismo capovolto” sia rimasto, nella riflessione di Auerbach, non più che un’intuizione. Un ideale sviluppo dei suoi contributi può essere rinvenuto nei lavori di Friedrich Ohly, la cui riflessione ha inteso restituire «il largo spettro operativo» dello sguardo tipologico medievale. Ohly è stato in grado di descrivere compiutamente le numerose sfaccettature della concezione figurale cristiana, fondate sulla percezione del comune e unico orientamento dei tempi verso Cristo. Riteniamo che la critica dantesca non abbia ancora valorizzato pienamente questa analisi, e rimanga ancorata a un modello tipologico riduttivo.
A nostro avviso, lo spunto auerbachiano relativo alla possibilità di un’“imitazione esistenziale” coincide con la nozione, individuata da Ohly, di “rispecchiamento” o “rinnovamento” . Affermando (con enfasi pari a quella di Auerbach) la storicità dei due poli di ogni relazione tipologica, Ohly aveva efficacemente definito il compimento delle figurae come “aumento” o “potenziamento” delle prefigurazioni . Il “ritorno potenziato” stabilisce una precisa gerarchia tra le epoche: l’avvenimento del tempo nuovo porta a compimento quanto era prefigurato nel precedente, superandolo. Lo studioso, però, passa a considerare un “compimento” di diversa natura. Secondo Ohly, la dinamica tipologica si fissò come forma mentis superando i confini dell’esegesi scritturale che, fino ad allora, aveva interpretato il Vecchio Testamento come figura del Nuovo e quest’ultimo come compimento del primo. Si affermò, dunque, una nuova consapevolezza del tempo e dei legami tra le epoche, che portò a un nuovo intendimento del rapporto tra i fatti del Nuovo Testamento e il presente della Chiesa:
La spiegazione del Nuovo Testamento in ordine alla storia della salvezza non si limita a contemplare retrospettivamente il ritorno potenziato del Vecchio nel Nuovo, ma anticipa il futuro, il quale è impiantato nel Nuovo. Poiché Cristo, oltre il momento della sua epifania, continua a vivere nel corpus Christi mysticum della Chiesa, c’è un’interpretazione del Nuovo Testamento che guarda al futuro di Cristo nella Chiesa.
Ohly ha riconosciuto con lucidità i tratti di questa nuova relazione tipologica, in cui il dopo ritrova il prima come punto forte, come pienezza di cui il dopo è riverbero . Il “ritorno” che lega l’avvento di Cristo e il presente della Chiesa non è, certo, un “ritorno potenziato”, in quanto «nella Chiesa Cristo non ritorna aumentato ma continua a vivere. L’eucarestia rinnova, non supera la coena Domini» . Non per questo il “rinnovamento” o “rispecchiamento” andrà escluso dalla categoria di “tipologia” (come lo stesso Ohly avrebbe forse voluto, identificando il fattore determinante della figura nel “ritorno potenziato”): esso, infatti, corrisponde alla definizione fornita dallo stesso studioso di “tipologia semibiblica”, in cui «un polo della relazione di significatività tipologica non si trova più nella Bibbia ma nella storia extrabiblica» . Si tratta, a ben vedere, della medesima dinamica figurale che Auerbach ha riconosciuto nelle figurae di Beatrice e di san Francesco: essi non realizzano, infatti, un “aumento” o un “potenziamento” dell’avvenimento di Cristo, ma ospitano una sua rinnovata presenza, realizzando un «compiersi continuo che, nell’età della Chiesa, prosegue nelle membra di Cristo» . Beatrice, allora, andrà riconosciuta come l’apice dell’intendimento tipologico cristiano, perché la sua figura appartiene addirittura all’orizzonte esperienziale di Dante.
Questa rapida ricognizione sulla riflessione figurale di Auerbach ha permesso di mettere in luce la complessità dello sguardo tipologico medievale a disposizione di Dante. La figuralità del poema non potrà essere ricondotta, certo, a un solo modello. Compito della critica, dunque, sarà quello di riconoscere la natura delle diverse tessere figurali che compongono la Commedia.