Farinata e Cavalcante [Erich Auerbach]

Dati bibliografici

Autore: Erich Auerbach

Tratto da: Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale

Editore: Einaudi, Torino

Volume: I

Anno: 1981

Pagine: 189-221

- O Tosco, che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
alla qual forse fui troppo molesto —.

Subitamente questo suono uscìo
d’una dell’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: — Volgiti: che fai?
vedi là Farinata che s’è dritto;
dalla cintola in su tutto ’l vedrai —.

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno in gran dispitto.

E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: — Le parole tue sien conte —.

Com'io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: — Chi fur li maggior tui? —

Io ch’era d’ubidir disideroso,
non lil celai, ma tutto lil’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in soso,

poi disse: — Fieramente furo avversi
a me ea miei primi e a mia parte,
si che per due fiate li dispersi —.

— S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte —
rispuosi lui — l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte —.

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra lungo questa infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che il sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: — Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? perché non è ei teco? —

E io a lui: — Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena,
forse cui Guido vestro ebbe a disdegno —.

Le sue parole e ’l modo della pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.

Di subito drizzato gridò: — Come
dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi il dolce lome? —

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi alla risposta
supin ricadde e più non parve fora.

Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;

e sé continuando al primo detto,
— S’elli han quell’arte, — disse, — male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto...

All'inizio di questo episodio, nel canto decimo dell'Inferno, Virgilio e Dante camminano per uno stretto sentiero fra gli avelli ardenti e scoperchiati. Vanno ragionando; Virgilio spiega a Dante come in quelle arche giacciano eretici e atei e gli promette di soddisfare il suo desiderio a mezzo accennato d'entrare in discorso con qualcuno di quei dannati. Mentre Dante gli sta rispondendo, si leva da uno dei sepolcri una voce che incomincia con i cupi suoni di «O Tosco», e Dante indietreggia spaventato. Uno dei dannati s'è drizzato nel suo sepolcro e rivolge la parola ai due; Virgilio ne fa il nome: è Farinata degli Uberti, morto poco innanzi la nascita di Dante, capo dei Ghibellini di Firenze e loro comandante in battaglia. Dante s'accosta all'orlo di quella tomba e così ha inizio un dialogo che è però, dopo pochi versi (v. 52), improvvisamente interrotto, come dianzi quello fra Dante e Virgilio, dall'intervento d'un altro abitante dell'avello, subito da Dante riconosciuto e dal modo della pena e dalle parole: è Cavalcante de' Cavalcanti, padre del suo amico di gioventù, il poeta Guido Cavalcanti. La scena che adesso si svolge fra Cavalcante e Dante è breve (ventuno versi), e non appena si chiude col ricadere di Cavalcante dentro la tomba, Farinata riprende il dialogo interrotto.
Nello stretto giro di circa settanta versi si compie dunque una triplice mutazione di eventi; sono quattro atti, tutti densi e pieni di energia, strettamente addossati l'uno all'altro. Nessuno di essi ha un contenuto unicamente preparatorio, nemmeno il primo, il dialogo, calmo al paragone, fra Dante e Virgilio, che qui sopra non abbiamo riportato. Ivi, a mo' d'introduzione, viene presentata al lettore e allo stesso Dante la nuova regione che si schiude davanti a loro, quella del sesto cerchio dell'Inferno, ma vi è compresa anche una scena particolare, fra i due interlocutori, di un contenuto psicologico suo proprio. In estremo contrasto con la placidità teorica e la spirituale delicatezza di questo prologo sta il secondo atto oltremodo drammatico, a cui introducono la voce a un tratto risonante e la repentina apparizione del corpo drizzatosi entro l'avello, lo spavento di Dante e le parole e i gesti incoraggianti di Virgilio. In esso sorge e prende forma, alta e scultorea come il suo corpo, la gigantesca figura morale di Farinata, sopravvivente al di là della morte e dei tormenti infernali che non l'hanno potuta intaccare; egli è. sempre lo stesso, tal quale visse. L'hanno spinto a levarsi in piedi e a trattenere il viandante con superba e misurata cortesia gli accenti toscani sulle labbra di Dante, e quando questi gli s'avvicina, gli chiede più particolarmente della sua origine, per accertarsi con chi abbia a che fare, se con un uomo d'importante lignaggio, se con un amico o un nemico; e quando ode che Dante è discendente d'una famiglia guelfa, dichiara con dura soddisfazione d'aver per due volte cacciato dalla città questa parte a lui avversa; il destino di Firenze e della parte ghibellina è ancora il suo unico pensiero. La risposta di Dante, che la cacciata dei Guelfi alla lunga non ha portato vantaggio ai Ghibellini, che alla fine sono rimasti banditi, è interrotta dall'emergere di Cavalcante, che ha udito le parole di Dante e l'ha riconosciuto. Noi vediamo il suo capo su un corpo tanto più piccolo di quello di Farinata spiare intorno ansiosamente se suo figlio sia in compagnia di Dante; e poiché non lo vede, erompe in angosciose domande, che rivelano come anch'egli ancora conservi ugual carattere e uguali passioni a quelle che già ebbe in vita, certamente ben diverse da quelle di Farinata: amore della vita terrena, fede nella libera grandezza dell'animo umano, e soprattutto ammirazione per suo figlio Guido. Commosso, quasi piangendo, e così staccandosi nettamente dalla potente e sostenuta grandezza di Farinata, pone le sue domande incalzanti, e quando (a torto) dalle parole di Dante crede di dover concludere che suo figlio non sia più in vita, stramazza supino; e allora, impassibile, senza por mente a quel caso, alle ultime parole a lui rivolte da Dante, Farinata dà tal risposta che perfettamente lo dipinge: se, come tu dici, ai Ghibellini non è riuscito rientrare nella città, questo è per me tormento maggiore del letto in cui giaccio.
Qui vi è una condensazione d'avvenimenti maggiore che in qualunque altro dei luoghi da noi finora esaminati, e non soltanto non ve ne sono di più gravi e drammatici, ma neanche di più vari in così breve spazio; non si tratta d'un solo avvenimento, bensì di tre diversi, di cui il secondo (la scena con Farinata) viene interrotto e diviso in due parti dal terzo. Non vi è dunque unità d'azione nel senso ordinario; e nemmeno accade come nella scena omerica di cui abbiamo discorso nel primo capitolo, dove l'accenno alla cicatrice di Ulisse offre lo spunto per una lunga, ampia digressione. Qui gli argomenti si alternano rapidamente e senza trapassi: le parole di Farinata interrompono subitamente il colloquio fra Dante e Virgilio; l'«allor surse» del verso 52 spezza senza collegamento l'atto di Farinata, che in modo altrettanto immediato viene ripreso con «ma quell'altro magnanimo». L'unità del tutto riposa sul luogo, sul paesaggio fisico-morale del cerchio degli eretici e dei miscredenti; e il rapido mutare di episodi ciascuno in sé indipendente, 9Eali singole scene di atti fra loro non collegati, ha la sua ragione nella totale struttura della Commedia; questa descrive il viaggio d'un uomo singolo accompagnato dal suo duce, per un mondo i cui abitatori dimorano per l'eternità nei posti loro assegnati: fa eccezione solo Stazio nel Purgatorio. Però, nonostante questo rapido mutare degli episodi, non si può parlare d'una connessione stilistica paratattica; ogni scena in sé mostra una grande ricchezza di legami sintattici, e dove, come qui, le scene sono contrapposte nettamente e senza legamento, vengono impiegate per la contrapposizione forme d'espressione molteplici ed efficaci, che sono da valutarsi piuttosto come commutazioni che come paratassi. I diversi atti non vengono allineati rigidamente e su un tono uguale - si pensi alla leggenda latina di Alessio e alla stessa Chanson de Roland - bensì si staccano dal fondo nell'elaborata singolarità del tono e stanno in reciproco antagonismo. A maggior chiarimento esamineremo un po' più da vicino i passi dove si hanno mutamenti di scena. Farinata interrompe il dialogo dei due viandanti con le parole: «O Tosco, che per la città del foca vivo ten vai...» È un appello, un vocativo introdotto da «o», seguito poi da una proposizione relativa di gran peso e contenuto riguardo all'appello, a cui soltanto allora segue la frase desiderativa ugualmente carica di solenne e misurata cortesia; non è detto: «Tosco, fermati», bensì: «O Tosco, che... ,piacciati di restare in questo loco». La formula è sommamente solenne e deriva dallo stile illustre dell'epos antico, che risuona all'orecchio di Dante come tante altre reminiscenze di Virgilio, Lucano o Stazio. Io non credo che prima di lui sia già stata usata in un volgare medievale. Ma Dante la usa a suo modo: come forma di fortissima invocazione, quale presso gli antichi era usata al massimo nelle preghiere, e serrandola dentro la frase relativa concentrandone il contenuto, come solo lui è capace di fare; il sentimento e la condizione di Farinata di fronte ai due passanti sono condensati in maniera così dinamica mediante le tre determinazioni «per la città del foco... ten vai», «vivo», «così parlando onesto», che il suo maestro Virgilio, se davvero avesse udito quelle parole, si sarebbe spaventato ben più di quanto Dante si spaventi nel poema; le proposizioni relative virgiliane legate a un vocativo sono in verità perfettamente belle e armoniose, ma di gran lunga meno concise e avvincenti (ad esempio: Eneide, I, 436: «o fortunati quibus iam moenia surgunt!» o, ancor più interessante per l'espansione retorica, II, 638: «vos o quibus integer aevi I sanguis, ait, solidaeque suo stant robore vires, I vos agitate fugam»). Si osservi anche come l'antitesi «per la città del foco» e «vivo» si esprima esclusivamente, ma perciò tanto più efficacemente, mediante la posizione della parola «vivo». Dopo questa apostrofe di tre versi, segue la terzina in cui Farinata si dà a conoscere concittadino, e soltanto allora, quando egli ha cessato di parlare, subentra la frase «Subitamente questo suono uscio», ecc., una frase che altrove avremmo aspettato piuttosto quale introduzione a un avvenimento sorprendente, ma che qui, dopo quanto è già accaduto, ha un effetto al paragone acquietante, in quanto spiegazione di ciò che sta accadendo (un recitatore dovrebbe leggerla con voce più smorzata). Non si può dunque parlare d'un allineamento regolare paratattico della scena di Farinata con il colloquio dei due viandanti; da un lato, non si deve dimenticarlo, essa è già stata di sfuggita annunciata da Virgilio durante la conversazione (vv. 16-18), e dall'altro essa è un irrompere così gagliardo e prepotente d'un altro mondo topico, morale, psicologico ed estetico, da non stare con quanto precede in legame di semplice successione, bensì nel vivace rapporto della contrapposizione, del repentino esplodere di qualche cosa già lievemente intuita. Gli avvenimenti non sono – come osservavamo nella Chanson de Roland e nella leggenda d'Alessio - divisi in tante parcelle, bensì vivono di vita reciproca anche nella contrapposizione, e anzi a cagione di questa. Il secondo cambiamento cli scena avviene con le parole «allor surse...» del verso 52, e appare più semplice e meno rilevante del primo; che cosa può infatti esserci di più naturale che introdurre un avvenimento improvviso con le parole: «allora accadde...»? Ma qualora ci si domandi dove si ritrovi nella lingua volgare prima di Dante un simile volger di frase che interrompe un’azione in corso con un taglio così netto e drammatico quale l’«allor surse...», si dovrebbe cercare a lungo e io non saprei indicarne alcuno. «Allora» all'inizio di frase si trova molto spesso nell’italiano predantesco, per esempio nel Novellino, ma con un significato molto più debole; tagli così netti non sono nello stile né nella concezione di tempo della narrativa anteriore a Datore nemmeno oppure dell’epica francese, dove s'incontra «ez vos» oppure «atant ez voz» (cfr. Chanson de Roland 413 e passim), con un senso molto più tenue, Per intendere in qual modo maldestro e freddo venivano rappresentate perfino le svolte più drammatiche dell’azione si veda Villehardouin; egli, per introdurre nell’azione il decrepito e cieco doge di Venezia all’assalto di Costantinopoli, che ai suoi, esitanti a scender dalle navi, comanda sotto pena di morte di mettere a terra lui per primo con lo stendardo di san Marco, adopera le parole: «or porrez oir estrange proece» — proprio come se Dante invece dell’«allora» avesse scritto: «allora accadde qualche cosa di ben meraviglioso».
L’«ez vos» dell’antico francese ci conduce sulla giusta traccia qualora si cerchi l’espressione latina per questo «allora» che produce un’interruzione repentina: essa è non «tum» o «tunc », bensì in molti casi «sed» o «iam», ma la parola veramente corrispondente in tutto il suo vigore, è «ecce» o ancor meglio «et ecce », che s'incontrano più di rado nello stile sublime che non in Plauto, nelle lettere di Cicerone, in Apuleio ecc., e soprattutto nella Vulgata, dove, quando Abramo afferra il coltello per sacrificare il figlio Isacco, è detto: «et ecce angelus Domini de coelo clamavit, dicens: Abraham, Abraham». A me sembra che questa interruzione così tagliente sia troppo brusca perché possa aver origine dal latino classico; corrisponde invece pienamente allo stile illustre della Bibbia. Inoltre Dante adopera ricalcandolo alla lettera l’«et ecce» biblico in altra circostanza, allorché s’interrompe una situazione, anche se non in maniera così drammatica, in conseguenza d’un avvenimento (Purg., XXI, 7: «ed ecco, sì come ne scrive Luca... ci apparve...»; Luca, 24, 13: «et ecce duo ex illis...») Tuttavia non voglio affermare che sia stato Dante a introdurre nello stile illustre questa locuzione interruttrice e che l’abbia attinta dalla Bibbia, ma dovrebbe apparir chiaro che quel drammatico «allora» nel tempo in cui egli scriveva non era così naturale e di uso comune come oggi, e che egli l’usò più radicalmente di chiunque altro prima di lui nel Medioevo. È da considerare inoltre il senso e il suono del «surse» che Dante impiega anche altrove con grandissimo effetto di risonanza a proposito d’un altro che si drizza in piedi (Purg., VI, 72-73, «e l’ombra, tutta in sé romita, surse vér lui...») L’«allor surse» del verso 52 ha dunque un peso appena di poco minore delle parole di Farinata, che iniziano la prima interruzione; questo «allor» appartiene a quelle forme paratattiche che pongono i membri legati per mezzo di esse in un rapporto dinamico; il dialogo con Farinata è interrotto, e Cavalcante, dopo le ultime parole che ha udito, non può attenderne la fine, il suo ritegno l’abbandona. Il suo intervento con i gesti scrutanti, le parole di pianto e l’intempestiva disperazione che lo fa ricadere supino, for- mano un contrasto stridente con la gravità solenne di Farinata, il quale, col terzo cambiamento di scena (vv. 73 sgg.), riprende la parola. Il terzo cambiamento: «ma quell’altro magnanimo» ecc., è molto meno drammatico dei primi, è tranquillo, superbo e grave, Farinata da solo domina la scena. Ma la contrapposizione a quanto è avvenuto prima diventa perciò tanto più forte: Dante lo chiama magnanimo con termine aristotelico, che in lui è ritornato vivo attraverso san Tommaso o, ancor pit probabilmente, attraverso Brunetto Latini, e con cui precedentemente designa Virgilio. Egli lo fa senza dubbio in voluta opposizione a Cavalcante («costui»); i tre elementi della frase esattamente uguali, che esprimono l’incrollabilità di Farinata («non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa»), non debbono descrivere Farinata per sé stante, ma mettere il suo contegno in contrasto con quello di Cavalcante. Questo avverte anche l’ascoltatore udendo le tre proposizioni d’ugual costrutto, dato che ha ancora nell’orecchio il tono disuguale e il crescendo lamentoso dell’altro. Per la forma di queste domande dei versi 58-60 e 67-69, Dante ha avuto probabilmente per modello l’apparizione di Andromaca (Eneide, 111, 310), dunque il lamento d’una donna.
Per quanto i fatti si alternino in maniera così subitanea, non si può parlare d’una connessione paratattica: un movimento incessante trascorre per tutto l’insieme. Dante dispone di mezzi stilistici d’una ricchezza quale nessuna lingua volgare europea conosceva prima di lui, e non li impiega soltanto singolarmente, ma li pone in un continuo rapporto reciproco. Il discorso incoraggiante di Virgilio dei versi 31-33 contiene solo proposizioni principali, senza nessun altro legame di congiunzioni: un corto imperativo, una breve domanda, ancora un imperativo con complemento oggetto e con una frase esplicativa relativa, e finalmente una frase al futuro di significato esortativo con una determinazione avverbiale. Ma il rapido susseguirsi, la tagliente formulazione delle singole parti e il loro accordarsi, creano lo slancio d’un discorso vivacissimo: «Volgiti: che fai?» ecc. Accanto a ciò vi sono finissime articolazioni mentali, accanto alla consueta causale («però») appare «onde» di valore oscillante fra il temporale e il causale e l’ipotetica causale «forse che», a giudizio d’alcuni antichi commentatori, cortesemente attenuatrice; vi sono le più diverse congiunzioni temporali, comparative, gradualmente ipotetiche, sostenute dalla più grande elasticità nell’introduzione delle forme verbali e nella collocazione delle parole. Si osservi, ad esempio, con quale agilità Dante tiene in mano sintatticamente la scena dell'apparizione di Cavalcante, sicché corre in un sol tratto fino alla fine del suo primo discorso (v. 60). L’unità del disegno posa su tre verbi-pilastro: «surse», «guardò», «disse»; sul primo s’appoggiano il soggetto, le determinazioni avverbiali e anche l’inciso esplicativo «credo che»; sul «guardò», le due prime righe della seconda terzina con quel «come se»; mentre la terza riga già mira al «disse» e al discorso diretto di Cavalcante, in cui s’appunta tutto il movimento che, forte all’inizio, decresce poi e dal verso 57 ricomincia a salire.
I lettori di questa mia analisi che non abbiano molta confidenza con le letterature medievali nelle lingue volgari, forse si meraviglieranno che qui io dia tanto rilievo e che esalti come qualcosa di straordinario strutture sintattiche che oggi sono usate con tutta facilità da qualunque scrittore di qualche talento, ma a chi parta dall’esame degli autori precedenti, la lingua di Dante appare quasi un miracolo inconcepibile. Di fronte a tutti gli al- tri scrittori precedenti, fra i quali furono tuttavia gran- di poeti, la sua espressione possiede una tale ricchezza, concretezza, forza e duttilità, egli conosce e impiega un numero talmente superiore di forme, afferra le più diverse apparenze e sostanze con piglio tanto pit saldo e sicuro, che si arriva alla convinzione che quest'uomo abbia con la sua lingua riscoperto il mondo. Spesso si crede d’aver trovato donde egli abbia attinto questa o quella espressione, e invece le fonti sono tante, egli le accoglie e le impiega in un modo tanto esatto, originario, e pur così suo proprio, che tale ritrovamento non fa che aumentare l'ammirazione per la potenza del suo genio linguistico. In un testo come il nostro ci si può imbattere dovunque in qualche cosa di stupefacente, in qual- che cosa che nelle letterature volgari era rimasto fino allora inesprimibile. Prendiamo una cosa da nulla come la frase: «da me stesso non vegno»; si può immaginare una veste così breve e compiuta a un tal pensiero, si può immaginare un pensiero così acuto e un «da» in questo senso nella poesia d’un precedente autore volgare? Dante usa «da» in questo senso parecchie volte (Purg., 1, 52: «da me non venni»; Purg., XIX, 143: «buona da sé»; Par., 11, 58: «ma dimmi quel che tu da te ne pensi»). Il significato «per forza propria», «per propria natura», «con la propria mente» potrebbe essersi svolto dal «da» con significato di provenienza: Guido Cavalcanti, nella canzone Donna mi prega, scrive: «(Amore) non è vertute ma da quella vene». Naturalmente non si può affermare che Dante abbia creato il significato nuovo di questa locuzione; perché anche se non si trovasse nessuna locuzione simile nei testi precedenti, si potrebbe pensare che fosse andata perduta, e anche se non ne fossero state scritte di simili prima di lui, potrebbero però essere state usate nella lingua parlata, e quest’ultima ipotesi mi sembra anzi probabile, perché uomini di formazione dotta avrebbero più facilmente fatto ricorso a «ex» o «per». È certo però che Dante, quando creò o accettò questa breve locuzione, le infuse una forza e una profondità prima impensabili, a cui nel nostro passo contribuisce notevolmente il doppio contrapposto (da un lato a «per altezza d’ingegno», dall’altro a «colui che attende là», ambedue perifrasi retoriche, l’una superba, l’altra tacente il nome per gran rispetto).
Il «da me stesso» origina forse dal linguaggio parlato, che anche altrove Dante mostra chiaramente di non disdegnare. Il «Volgiti: che fai?», per di più sulle labbra di Virgilio e dopo la solenne formulazione dell’appello di Farinata, fa l’effetto d’un discorso spontaneo e non stilizzato quale s’incontra a ogni momento nel parlare quotidiano, e così pure la domanda nuda e cruda «chi fur li maggior tui?» o quella di Cavalcante: «come dicesti? egli ebbe?» ecc. Procedendo nella lettura del canto, ci s'imbatte verso la fine nella domanda di Virgilio: «perché se’ tu sì smarrito?» (v. 125). Tutti questi luoghi, sciolti dai loro legami, sarebbero pensabili in una qualunque conversazione quotidiana di livello stilistico inferiore. Accanto ad essi si trovano espressioni d’altissimo pathos, anche linguisticamente sublimi nel senso antico. In complesso la mira stilistica è rivolta senza dubbio allo stile sublime, e ciò si avverte, anche se già non lo si sapesse dalle precise espressioni di Dante, immediatamente da ogni riga del poema, per quanto comune possa essere il linguaggio nel quale è scritto. La gravitas del tono di Dante è mantenuta con tale continuità da non potersi dubitare un solo momento a quale livello stilistico ci si trovi.
Certamente sono stati gli antichi a fornire a Dante il modello dello stile illustre, a lui per primo; egli stesso parla in molti luoghi, nella Commedia e nel De valgari eloquentia, di quanto sia debitore ad essi per lo stile illustre della lingua volgare. Lo dice perfino in questo nostro passo, poiché il verso dibattutissimo, «forse cui Guido vostro ebbe a disdegno», cela fra i molti significati anche questo, e quasi tutti gli antichi commentatori l’hanno inteso in senso estetico. Ma nello stesso tempo è innegabile che il concetto che Dante ha del sublime si distingue essenzialmente da quello dei suoi antichi modelli, non meno nei soggetti che nella forma linguistica. I soggetti che la Commedia presenta, offrono una mescolanza di sublime e d’infimo che agli antichi sarebbe sembrata mostruosa: si trovano insieme personaggi della storia recente o addirittura contemporanea e, nonostante i versi 136-38 del XVII canto del Paradiso, ordinarissimi e oscuri. Molto di frequente essi vengono rappresentati realisticamente e senza ritegni nella loro cerchia di vita umile, e in genere, come ogni lettore sa, Dante non conosce limiti nella rappresentazione esatta e schietta del quotidiano, del grottesco e del repellente; cose che in sé non potevano venir considerate sublimi nel senso antico, lo diventano con lui per la prima volta, attraverso il modo in cui le ordina e dà loro forma. Della mescolanza linguistica del suo stile si è parlato or ora; si pensi ancora al verso: «e lascia pur grattar dov’è la rogna», in uno dei passi più solenni del Paradiso (XVII, 129), per avere un'idea di tutta la distanza che intercorre fra lui e, poniamo, Virgilio. Molti autorevoli critici, anzi epoche intere di gusto neoclassico, si trovarono a disagio di fronte a questo realismo troppo crudo pur nel sublime, a questa «ripugnante, spesso orribile grandezza» (sono parole di Goethe, Annali del 1821); e ciò si comprende facilmente. Infatti il contrapporsi delle due tradizioni, l’antica che separa gli stili e la cristiana che li mescola, non appare mai così chiaro come in questo potente temperamento che riacquista la coscienza di ambedue, anche dell’antica a cui mira, senza poter rinunciare all’altra. In nessun altro autore la mescolanza degli stili talmente s’avvicina alla violazione di ogni stile. Nella tarda antichità i dotti sentirono come violazione dello stile anche gli scritti biblici; precisamente allo stesso modo gli umanisti dovettero poi sentir l’opera del loro maggiore predecessore, di colui che per primo aveva di nuovo letto i poeti antichi per amore della loro arte e assunto in sé il loro tono, che per primo aveva abbracciato e attuato il pensiero del volgare illustre, della grande poesia nella lingua materna; e proprio perché aveva fatto tutto a questo. Alle precedenti manifestazioni poetiche medievali di stile si mescolato, ad esempio al teatro cristiano bisognava perdonare la mescolanza degli stili per via della sua ingenuità; poiché sembrava che esso non avesse nessuna pretesa d’altra dignità ed giustificato, o per lo meno scusato, dal suo intento e dal suo carattere popolare, e non entrava nel campo di ciò che si doveva considerare e giudicare seriamente. Ma qui non si poteva parlare di ingenuità o di deficiente pretesa: molte espresse parole di Dante, tutti i suoi richiami al modello virgiliano, le invocazioni alle Muse, ad Apollo, a Dio, il vivere intensamente e drammaticamente dentro la propria opera come chiaramente traluce da molti passi, e soprattutto il tono d’ogni riga di essa, stanno a testimoniare l’altissimo proposito. Non è da stupirsi che il fatto stesso dell’esistenza d’un’opera simile potesse riuscire sgradevole a molti umanisti posteriori o a uomini educati umanisticamente.
Lo stesso Dante nei suoi scritti teorici mostra una certa indecisione nella questione della classificazione stilistica della Commedia. Nel De vulgari eloguentia, in cui tratta della poesia della canzone e sembra che ancora non accenni alla poesia della Commedia, assegna allo sti- le illustre e tragico tutt’altre esigenze da quelle che più tardi metterà ad effetto nella Commedia: molto più ristrette circa la scelta del soggetto, molto più puriste e più fedeli alla separazione degli stili per la scelta della forma e delle parole. Egli era allora sotto l’influsso di quella poesia estremamente artificiosa, destinata soltanto a una cerchia eletta d’iniziati, che era la poesia della tar- da scuola provenzale e del dolce stil nuovo italiano, e con essa congiunse l’antica teoria della separazione degli stili quale continuava a vivere presso i teorici medievali dell’arte retorica. Del tutto egli non si è liberato mai da questi concetti, altrimenti non avrebbe chiamato «commedia» il suo grande poema in chiara contrapposizione alla definizione di «alta tragedia» data all’Eneide di Virgilio (Inf., XX, 113). Sembra dunque che non pretenda per il suo grande poema la dignità dell’illustre stile tragico, e ciò appare anche dalla ragione che del nome «commedia» dà nel decimo paragrafo della lettera a Cangrande. Tragedia e commedia, egli vi dice, si distinguono innanzi tutto per il corso dell’azione, che nella tragedia conduce da un inizio calmo e nobile a una chiusa terribile, e invece nella commedia da un inizio amato a una chiusa felice; e poi, e questa è per noi la cosa più importante, anche per lo stile, per il modus loquendi: «elate et sublime tragedia; comedia vero remisse et humiliter»; e perciò il suo poema deve prender nome di commedia, sia per il triste inizio c la chiusa felice, sia per il modus loquendi: «remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et muliercule communicant». Si potrebbe credere a tutta prima che ciò si riferisca all’uso della lingua italiana, in quanto lo stile solo per questo già sarebbe umile, essendo la Commedia scritta in italiano e non in latino; ma non si può attribuire una tale idea a Dante, che ha difeso la nobile dignità del volgare fin dal De vulgari eloguentia, che ha iniziato nelle sue canzoni lo stile illustre della lingua volgare, e al tempo della lettera a Cangrande aveva già finito la Commedia. Perciò molti studiosi moderni hanno interpretato locutio non nel senso di lingua, bensì in quello di mezzo espressivo, sicché Dante avrebbe voluto dire che il mezzo espressivo dell’opera non è quello dell’italiano illustre, del «vulgare illustre, cardinale, aulicum et curiale», per usare le sue parole (De vulg. el., 1, 17), ma invece il linguaggio comune e quotidiano del popolo. In ogni caso nemmeno qui egli esige per la sua opera lo stile tragico illustre, bensì, al massimo, uno stile medio, e anche questo esprime solo oscuramente, citando cioè quel passo dell’Ars poetica di Orazio (93 sgg.) in cui è detto che talvolta la commedia adopera anche toni tragici e viceversa.
Tutto sommato, egli dichiara che la sua opera è di stile umile, dopo aver parlato poco prima della sua molteplicità di toni — cosa che non si accorda affatto con la definizione di stile umile — e quantunque designi parecchie volte la cantica che con quella lettera dedicava a Cangrande, il Paradiso, come «cantica sublimis» e la sua materia come «admirabilis». Nella stessa Commedia continua l’incertezza, ma qui prevale la coscienza che soggetto e forma possono aspirare alla suprema dignità poetica. A dir vero, anche nel testo chiama spesso commedia la sua opera, ma già più sopra abbiamo enumerato tutto quello che sta a dimostrare la sua piena consapevolezza dell’essenza e del grado stilistico di essa. Ma, per quanto egli scelga Virgilio per sua guida, quantunque invochi Apollo e le Muse, evita però di chiama- re il suo poema un poema sublime nel senso antico. Per esprimere la sua particolare sublimità, crea una parola speciale: «’l poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par., XXV, 2-3). Riesce difficile credere che egli, dopo aver trovato questa parola e aver compiuto la Commedia, debba esprimersi ancor così scolasticamente intorno alla sua opera come fa nel passo citato della lettera a Cangrande, della cui autenticità infatti si è molto dubitato, ma d’altra parte si deve pensare quanto s’imponesse la riverenza della tradizione antica, in quel tempo ancor oscurata da un pedantesco sistematicismo, e la tendenza a stabilire classificazioni assurdamente teoriche per il nostro giudizio.
I commentatori contemporanei, e ancor più quelli immediatamente susseguenti, riguardo alla questione dello stile si sono espressi del pari in un modo del tutto scolastico, pur essendovi certamente fra di essi alcune eccezioni: il Boccaccio, ad esempio, le cui osservazioni intelligenti, e che già testimoniano una conoscenza genuina e umanistica degli antichi, tuttavia non soddisfano, perché si allontanano dal vero problema; ma specialmente Benvenuto da Imola, il quale, dopo aver spiegata la tripartizione classica degli stili (il tragico illustre, il medio polemico-satirico, l’umile comico), prosegue così:

Modo est hic attente notandum quod sicut in isto libro est omnis pars philosophiae [ogni specie di filosofia], ut dictum est, ita est omnis pars poetriae. Unde si quis velit subtiliter investigare, hic est tragoedia, satyra et comoedia. Tragoedia quidem, quia describit gesta pontificum, principum, regum, baronum, et aliorum magnatum et nobilium, sicut patet in toto libro. Satyra, id est reprehensoria; reprehendit enim mirabiliter et audacter omnia genera viciorum, nec parcit dignitati, potestati vel nobilitati alicuius. Ideo convenientius posset intitulari satyra [e forse qui il pensiero si volge anche al sirventese] quam tragoedia vel comoedia. Potest etiam dici quod sit comoedia, nam secundum Isidorum comoedia incipit a tristibus et terminatur ad laeta. Et ita liber iste incipit a tristi materia, scilicet ab Inferno, et terminatur ad laetam, scilicet ad Paradisum, sive ad divinam essentiam. Sed dices forsan, lector: cur vis mihi baptizare librum de novo, cum autor nominaverit ipsum Comoediam? Dico quod autor voluit vocare librum Comoediam a stylo infimo et vulgari, quia de rei veritate est humilis respectu litteralis, quamvis in genere suo sit sublimis et excellens...1.

L’originalità di Benvenuto si apre una sua propria via attraverso il folto della teoria scolastica: questo libro contiene ogni sorta di poesia così come ogni sorta di scienza; e se il suo autore lo ha chiamato commedia perché il suo stile è umile e popolare né è la lingua, esso appartiene tuttavia al genere di poesia sublime e grandioso.
Già la quantità stessa degli oggetti trattati, pone il problema dello stile alto nella Commedia sotto un aspetto del tutto nuovo. L’amore idealizzato («Minne») era per i Provenzali e per i poeti del dolce stil nuovo l’unico grande tema; se Dante nel De vulgari eloquentia ne enumera tre («salus, venus, virtus», e cioè fatti d’arme, amore e virtù), in quasi tutte le grandi canzoni gli altri due sono però subordinati all’amore o chiusi dentro la veste d’un’allegoria amorosa. Ancor nella Commedia questa cornice è conservata mediante la figura e gli atti di Beatrice, solo che essa cornice abbraccia uno spazio sterminato. La Commedia è, fra l’altro, un poema enciclopedico didascalico, in cui è presentato nel suo insieme tutto l’ordine universale fisico-cosmologico, etico e storico-politico; essa è inoltre un’opera d’arte imitatrice della realtà, in cui s’affacciano tutte le possibili regioni del reale: passato e presente, sublime grandezza e spregevole bassezza, storia e leggenda, tragedia e commedia, uomini e paesi; ed è finalmente la storia dell’evoluzione e della salvezza d’un uomo singolo, di Dante, e come tale una figurazione della salvezza dell’umanità. In essa appaiono figure dell’antica mitologia, talvolta, ma non sempre, fantasticamente demonizzate; personificazioni allegoriche e animali simbolici originanti dalla tarda antichità e dal Medioevo; angeli, santi e beati del mondo cristiano, come portatori d’una significazione: vi appaiono Apollo, Lucifero e Cristo, la Fortuna e madonna Povertà, Medusa come emblema dei più profondi cerchi infernali e Catone Uticense come guardiano del Purgatorio. Però, entro la cornice dell’aspirazione allo stile illustre, nulla di tutto questo è più nuovo e più problematico che quel dar di piglio immediato alla realtà attuale della vita, che non è realtà scelta e preordinata secondo regole estetiche; e di qui nascono poi anche tutte quelle immediate forme di linguaggio, inusitate nello stile illustre, la cui asprezza scandalizzò il gusto classicistico. E tutto questo realismo non è che si muova dentro un’azione unica, bensì un’infinità di azioni, nelle più diverse gradazioni di tono, si muovono e s’intersecano tra loro.
E tuttavia ci convince l’unità del poema. Essa riposa sull’argomento complessivo: lo «status animarum post mortem». Esso deve, come giudizio finale di Dio, costituire un’unità perfettamente ordinata, tanto come sistema teoretico quanto come realtà pratica, e dunque anche come creazione estetica; deve rappresentare in una forma più pura e più attuale l’unità dell’ordine divino che il mondo terrestre o quanto in questo accade, poiché l’aldilà, pur essendo incompiuto fino al giudizio finale, è ben lungi dal mostrare, come il mondo terrestre, svolgimento, potenza e provvisorietà, ma mostra invece l’effettuazione del piano divino. L’ordine unitario dell’aldilà, quale ce lo rappresenta Dante, è percepibile nel modo più immediato come sistema morale, con la ripartizione delle anime in tre regni e con le sottoripartizioni: questo sistema segue in tutto l’etica aristotelico-tomistica, ripartendo i peccatori prima nell’Inferno conformemente al grado della loro prava volontà, e, dentro questa ripartizione, secondo la gravità delle loro azioni; i penitenti del Purgatorio secondo le loro cattive inclinazioni di cui debbono purificarsi, e i beati del Paradiso secondo la misura della vista di Dio, di cui sono partecipi. In questo sistema morale sono però intessuti altri sistemi fisico-cosmologici e storico-politici. La posizione dell’Inferno, del monte della purificazione e delle volte celesti costituisce nello stesso tempo un’immagine del mondo morale e del mondo fisico; la dottrina delle anime che sta a fondamento dell’ordine morale, è nello stesso tempo anche un’antropologia fisiologica, e in molti modi l’ordine morale è fondamentalmente legato a quello fisico. Lo stesso avviene nell’ordine storico-politico; la comunità dei beati nella candida rosa dell’Empireo è nello stesso tempo anche il termine della storia della salvazione, secondo il quale si dispongono tutte le teorie storico-politiche e si debbono giudicare tutti i fatti storico-politici. E questo è detto di continuo lungo tutto il poema, tal- volta con particolari diffusi (ad esempio nei fatti simbolici sulla cima del Purgatorio, nel Paradiso terrestre), sicché i tre ordini, il morale, il fisico e lo storico-politico, in ogni momento presenti e in ogni momento riscontra- bili, appaiono un’unica cosa.
Per comprendere praticamente come l’unità degli ordini dell’aldilà influisca sull’unità dello stile illustre, torniamo al nostro testo. La vita terrena di Farinata e di Cavalcante è finita; la vicenda del loro destino è cessata; essi si trovano in una condizione definitiva e immutabile, in cui avverrà soltanto un unico mutamento, il riacquisto dei loro corpi nel giorno del Giudizio finale. Essi, quali li incontriamo qui, sono dunque anime separate dal corpo a cui Dante dà però una parvenza di corpo, così da farle riconoscibili e capaci di parlare e di soffrire (cfr. Purg., I11, 31 sgg.). Sono collegati con la vita terrena solo col ricordo; al di là di questo hanno, come Dante spiega proprio nel nostro canto, certe nozioni intorno al passato e all’avvenire sorpassanti quelle concesse in terra: vedono con chiarezza gli avvenimenti del passato e del futuro, e possono dunque presagire l’avvenire, essendo invece ciechi di fronte al presente e al terreno. È questa la ragione per cui Dante esita di fronte alla domanda, se il figlio viva ancora; egli si meraviglia dell’ignoranza di Cavalcante, tanto più che già prima altre anime gli hanno profetato l’avvenire. Hanno dunque nel ricordo il possesso completo della loro vita terrena, che pure è finita, e quantunque si trovino in una condizione differente da ogni pensabile condizione terrestre, agiscono tuttavia non come defunti, quali sono, bensì come viventi. E qui arriviamo a quel fenomeno stupefacente, paradossale, che si chiama il realismo dantesco. Imitazione della realtà è imitazione dell’esperienza sensibile della vita terrena; ai cui essenziali contrassegni ben appartengono la sua storicità, il suo mutare ed evolversi. Per quanta libertà si voglia concedere al poeta nella creazione, egli non può sottrarre alla realtà queste qualità che ne costituiscono la stessa essenza. Gli abitatori dei tre regni danteschi si trovano però in un’esistenza immutabile (espressione usata da Hegel nelle Lezioni di estetica, in una delle più belle pagine che mai siano state scritte su Dante), e tuttavia Dante immerge «il mondo vivente del fare e del patire, e più precisamente delle azioni e dei destini individuali, in questa esistenza immutabile». Col nostro testo alla mano ci chiediamo come ciò si compia. L’esistenza dei due abitatori degli avelli e il luogo di essa sono in verità definitivi ed eterni, ma non sono senza storia. All’Inferno sono discesi Enea e Paolo e anche Cristo; per esso vanno Virgilio e Dante; ci sono paesaggi e in essi si muovono spiriti infernali; azioni, avvenimenti, e perfino trasformazioni si compiono sotto i nostri occhi. Le anime dei dannati, col loro corpo di ombra, nella loro dimora eterna, hanno apparenza fenomenica, libertà di parola e di gesti, di qualche movimento, e con ciò, dentro la loro immutabilità, di qualche mutamento. Abbiamo lasciato il mondo terreno, siamo nel luogo dell’eternità, e tuttavia c’imbattiamo in concreti fenomeni e in concreti accadimenti: tutto questo è diverso da quanto appare e accade sulla terra, e tuttavia evidentemente le due cose sono collegate da un rapporto necessario e saldamente determinato. La realtà delle apparizioni di Farinata e di Cavalcante diventa percettibile nella condizione in cui essi si trovano e nelle loro espressioni. Nella loro condizione di abitatori degli avelli infuocati è espresso il giudizio divino su tutta la categoria dei peccatori eretici e miscredenti a cui essi appartengono, ma nelle loro espressioni l’essenza individuale di ciascuno appare in tutta la sua potenza. Questo è particolarmente chiaro per Farinata e Cavalcante, perché sono peccatori della medesima categoria e si trovano nella medesima condizione. Come individui di carattere diverso, di diversi destini, di diverse passioni nella vita che fu, sono nettissimamente separati. Uguale è la loro eterna e immutabile sorte, però solo nel senso che debbono soggiacere a uguale punizione, solo nel senso obiettivo, poiché in realtà la subiscono in modo affatto diverso: Farinata non degna il proprio stato della minima attenzione, Cavalcante rimpiange nel cieco carcere la bella luce, e ognuno dei due mostra perfettamente con gesti e parole la sua singolare personalità, che non può essere altra, e altra non è, che quella un tempo posseduta nella vita terrena. E di più: per il fatto che la vita terrena si è fermata, sicché nulla più di essa può aver sviluppo e mutamento, mentre ancor continuano le passioni e gli stimoli che la mossero, senza che si possano scaricare nell’azione, nasce per così dire un’enorme accumulazione; diviene visibile la figura di ogni singola individualità, sublimata e fissata per l’eternità in proporzioni smisurate, quale non sarebbe mai stato possibile incontrare, con simile purezza e rilievo, in nessun momento della trascorsa vita terrena. Non v’ha dubbio che anche questo fa parte della sentenza divina pronunziata contro di loro. Dio ha non solo schierato le anime secondo categorie e le ha poi ripartite nelle regioni dei tre regni, ma ha assegnato a ciascuna una particolare condizione eterna, non distruggendo l’individualità di ciascuna, ma al contrario fissandola nell’eterno giudizio, anzi solo così portandola a compimento e rendendola del tutto trasparente. Nel mezzo dell’Inferno, Farinata è più grande, più gagliardo e più nobile che mai, poiché nella vita terrena mai aveva avuto una simile occasione di mostrare la forza del suo animo; i suoi pensieri e le sue aspirazioni ancora s’aggirano immutati intorno a Firenze e ai Ghibellini, intorno ai meriti e agli errori della sua azione passata, e questa continuazione della sua personalità nella grandezza terrena e nella disperata inanità fanno parte senza dubbio del giudizio da Dio scagliato su di lui. Cavalcante palesa la stessa sconfortata inanità di questa continuazione del proprio essere terreno; mai davvero durante la sua vita ha sentito tanto forte come adesso la fede nello spirito dell’uomo, l’amore per la dolce luce e per il figlio Guido, e mai ha reso l’espressione di questi sentimenti in modo tanto pungente quanto adesso che tutto è diventato vano.
Si deve inoltre considerare che per le anime dei morti il viaggio di Dante costituisce per l’eternità l’unica e ultima occasione di parlare a un vivo, circostanza che spinge molti all’espressione pit intensa e che nell’immutabilità della loro sorte eterna introduce un attimo di drammatica storicità. Della particolare condizione degli abitatori dell'Inferno fa parte infine anche il particolare limite, più o meno ristretto o ampio, delle loro cognizioni: essi hanno perduto la vista di Dio che è stata impartita in gradi diversi a tutti gli esseri sulla terra, in Purgatorio e in Paradiso, e con essa hanno perduto ogni speranza; conoscono il passato e il futuro del corso terreno, e con ciò la vanità della loro forma personale ad essi conservata senza che possa sfociare nella comunione divina, e hanno un interesse veemente per la condizione attuale delle cose terrene, che è loro celata. (Commoventissimo è a questo riguardo, accanto a Cavalcante e a molti altri, Guido da Montefeltro nel canto XXVII, che parla faticosamente attraverso la punta della fiamma che avvolge il suo capo e la cui lunga, lamentosa invocazione, impregnata di ricordi e d’accuse, perché Virgilio voglia fermarsi e parlargli, culmina nelle parole del verso 28: «dimmi se i Romagnuoli han pace o guerra»).
Dante ha dunque portato nel suo aldilà la storicità terrena; i suoi morti sono, si, sottratti all'attualità terrena e ai suoi mutamenti, ma il ricordo e l’acutissima partecipazione li commuove ancor tanto che ne è piena tutta la regione ultraterrena. Questo avviene meno nel Purgatorio e nel Paradiso, perché lo sguardo non è, come nell’Inferno, rivolto soltanto indietro alla vita terrena, ma invece avanti e verso l’alto, cosicché esso, pit in alto saliamo, tanto più chiaramente ricollega l’esistenza terrena alla sua mèta celeste; però è sempre conservata l’esistenza terrena, perché essa costituisce dovunque il fondamento del giudizio divino e con ciò della condizione eterna in cui l’anima si trova. E dovunque una tale condizione non consiste soltanto nell’esser collocati in un determinato gruppo di penitenti o di beati, bensì in un’accentuazione consapevole dell’essenza ter- rena d’un tempo e del luogo particolare che le è riserva- to nel piano divino. Proprio nella completa estrinsecazione del loro già terreno carattere nel luogo definitivamente assegnato consiste il giudizio divino. E dovunque le anime hanno libertà sufficiente per far nota la loro singola peculiare personalità, qualche volta con sforzo e con fatica, perché la loro punizione o la loro espiazione o perfino lo splendore della loro beatitudine rende difficile il mostrarsi e il parlare, che però, superando l’ostacolo, erompono tanto più efficacemente.
Questi pensieri si trovano in quella pagina di Hegel cui ho accennato più sopra, e che è stata la base d’un mio studio sul realismo di Dante, pubblicato nel 1929 (Dante als Dichter der irdischen Welt). In questo frattempo mi sono chiesto su quale concezione del divenire e della storia riposi questo realismo dantesco proiettato nell’immutabile eternità, sperando di ritrovare qualche cosa di più penetrante circa le basi dello stile illustre dantesco, dato che questo consiste per l’appunto nella classificazione del caratteristico individuale, talvolta orribile, repellente, grottesco e triviale, entro la dignità del giudizio divino che trascende ogni più eccelsa statura umana. Evidentemente la sua concezione dell’accadere, della storia non è identica a quella generalmente diffusa nel mondo moderno; in verità egli non lo vede solamente come evoluzione terrena, come sistema d’avvenimenti sulla terra, bensì in continua correlazione con un piano divino, che è la mèta a cui continuamente volge l’accadere umano. Ciò non è da intendersi soltanto nel senso che la società umana nel suo insieme si avvicini con un moto progressivo alla fine del mondo e al- avvento del regno di Dio, col che tutto l’accadere avrebbe un andamento orizzontale diretto al futuro, ma anche nel senso d’un continuo collegamento con il piano divino, indipendentemente da ogni moto progressivo, di ciascun avvenimento e di ogni fenomeno terrestre, sicché ogni fenomeno terrestre, tramite un gran numero di fili verticali, è immediatamente riferito al piano di salvezza della provvidenza. Tutta la creazione è infatti una continua moltiplicazione e irradiazione del moto amoroso divino («non è se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro sire», Par., XIII, 53-54), e questo moto amoroso è senza tempo e in ogni momento si manifesta in tutti i fenomeni. La mèta della via di salvazione, la candida rosa nell’Empireo, la comunità degli eletti nella visione di Dio non più velata, è non soltanto sicura speranza per l’avvenire, bensì è già compiuta in Dio dal tempo dei tempi e prefigurata per gli uomini così come Cristo in Adamo. Senza tempo o in ogni momento avviene in Paradiso il trionfo di Cristo e l’incoronazione di Maria, e in ogni momento l’anima che non diresse il suo amore a un falso scopo, va al suo amato Cristo, che a lei si promise col suo sangue.
Nella Commedia molte sono le apparizioni fenomeniche terrene il cui riferimento al piano divino di salvazione è anche teoricamente ben precisato; fra di esse la più importante dal punto di vista storico-politico, e nello stesso tempo la pit stupefacente per un osservatore moderno, è la monarchia universale di Roma, la quale, secondo la concezione dantesca, è il preannuncio concreto e terreno del regno di Dio. Già il viaggio di Enea agli Inferi è permesso in vista della vittoria terrena e spirituale di Roma (Inf., 11, 13 sgg.); Roma è destinata fin dall’origine al dominio universale; Cristo appare quando il tempo è compiuto, quando cioè il mondo abitato è riunito nella pace sotto il dominio d’Augusto; Bruto e Cassio, gli uccisori di Cesare, espiano la loro colpa accanto a Giuda nella bocca di Lucifero; il terzo Cesare, Tiberio, quale legittimo giudice dell’uomo Cristo, è il vendicatore del peccato originale; Tito è il legittimo esecutore della vendetta sopra gli Ebrei; l’aquila romana è l’uccello di Dio, e il Paradiso viene una volta chiamato «quella Roma onde Cristo è Romano» (cfr. Par., VI; Purg., XXI, 82 sgg.; Inf., XXXIV, 61 sgg.; Purg., XXXII, 102; ecc., e anche molti passi del De monarchia); e inoltre la parte di Virgilio nel poema può intendersi solamente partendo da tale presupposto. Tutto questo ci richiama alla figura della Gerusalemme terrena e ce- leste, ed è pensato in maniera del tutto figurale. Cosi come nel metodo interpretativo giudaico-cristiano usato conseguentemente da Paolo e dai Padri della Chiesa per il Vecchio Testamento, Adamo è una figura di Cristo ed Eva della Chiesa; così come generalmente ogni fenomeno e ogni avvenimento del Vecchio Testamento viene concepito quale figura da realizzare o, come si suol dire, da portare a compimento, con i fenomeni e gli avvenimenti dell’incarnazione di Cristo, così qui l’Impero uni- versale di Roma appare come la figura terrena del compimento celeste nel regno di Dio. Nel mio saggio Figura2 ho dimostrato sufficientemente, così spero, che la Commedia si fonda ovunque su una concezione figurale. Riguardo a tre dei più importanti personaggi che appaiono in essa, Catone Uticense, Virgilio e Beatrice, ho cercato di provare che la loro apparizione nell’aldilà è un compimento della loro apparizione sulla terra, e che questa è invece una figura di quella dell’aldilà; e ho messo in rilievo come la struttura figurale assicuri ai due poli, tanto alla figura quanto al compimento, il carattere storico e concreto della realtà — diversamente da quanto avviene per le forme simboliche e allegoriche; cosicché figura e compimento si corrispondono senza però che il significato di ciascuna ne escluda la realtà; un avvenimento di significato figurale conserva il suo significato letterale e storico, non diventa un puro simbolo, rimane avvenimento. Già i Padri della Chiesa, specialmente Tertulliano, Girolamo e Agostino, hanno difeso vittoriosamente il realismo figurale, cioè la conservazione del carattere storico e reale delle figure contro correnti spiritualistico- allegoriche.
Tali correnti che, per così dire, svuotano il carattere reale dell’accadere e in esso vedono soltanto simboli e significato extrastorici, hanno defluito dalla tarda antichità anche nel Medioevo; il simbolismo e l’allegorismo medievale è spesso, come si sa, oltremodo astratto, e anche nella Commedia se ne trovano molte tracce. Ma di gran lunga prevalente nella vita cristiana dell’alto Medioevo è il realismo figurale, che s'incontra nella sua più piena fioritura nelle prediche, nella pittura, nella scultura e nei misteri sacri, ed esso domina anche la concezione di Dante. L’aldilà è, come già abbiamo detto più sopra, l’atto realizzato del piano divino; in rapporto a esso i fenomeni terreni sono figurali, potenziali e bisognosi di compimento. Ciò vale anche per le singole anime dei defunti; soltanto nell’aldilà esse conquistano il compimento, la vera realtà della loro persona; il loro apparire sulla terra fu soltanto la figura di questo compimento, e nel compimento stesso esse trovano castigo, espiazione o premio. L’idea della provvisorietà della persona umana sulla terra e del suo bisogno di completamento nell’aldilà, corrisponde anche all’antropologia tomistica, ammesso che colga nel segno ciò che di questa ha scritto E. Gilson: «une sorte de marge nous tient quelque peu en decà de notre propre définition; aucun de nous ne réalise plénièrement l’essence humaine ni méme la notion complète de sa propre individualité»3. Le anime nell’aldilà dantesco conquistano per l’appunto «la notion complète de leur propre individualité» mediante il giudizio divino, e cioè come realtà in atto, cosa che corrisponde tanto al principio figurale quanto al concetto formale aristotelico-tomistico. Il rapporto di figura realizzata in cui stanno i morti di Dante col loro proprio passato terreno, viene chiarito nel modo migliore in quei casi in cui non si realizza soltanto il carattere, ma anche una significazione già riconoscibile nella figura terrena, come per esempio nel caso di Catone Uticense, che realizza la sua parte di tutore della libertà politica in terra, che era solo figurale, quale tutore della libertà eterna degli eletti ai piedi del Purgatorio (Purg., 1, 71 sgg.: «libertà va cercando»; e cfr. « rchiv. Roman.», XXII, 478-81). Qui l’interpretazione figurale scioglie l’enigma dell’apparizione di Catone in un luogo dove si è stupiti di trovare un pagano. Una tale riprova può certo aversi solo di rado; però nei casi in cui essa ci viene fornita è riconoscibile la fondamentale concezione dantesca dell’individuo sulla terra e nell’aldilà. Il carattere e la funzione dell’uomo hanno il loro posto prestabilito nell’ordine divino, quale sulla terra è figurato e nell’aldilà è realizzato.
Figura e compimento hanno ambedue, come dicemmo, essenza di fenomeni e di avvenimenti storico-reali; il compimento la comporta in grado ancor più alto e intenso, perché di fronte alla figura è forma perfectior. Con ciò si spiega il prepotente realismo dell’aldilà dantesco. Dicendo «si spiega», naturalmente non dimentichiamo il genio del poeta, che fu capace di darci tali creazioni (per esprimerci con le parole degli antichi commentatori che distinguevano fra «causa efficiens», «materialis», «formalis» e «finalis» del poema: «causa efficiens in hoc opere, velut in domo facienda aedificator, est Dantes Allegherii de Florentia, gloriosus theologus, philosophus et poeta» — così Pietro Alighieri, e similmente anche Jacopo della Lana), ma spieghiamo con la concezione figurale il modo speciale in cui prese forma il suo genio realistico: essa permette d’intendere come l’aldilà sia eterno e nondimeno fenomeno, senza mutamento e senza tempo e nondimeno pieno di, storia. Essa permette anche di chiarire come questo realismo dell’aldilà si distingua da ogni altro puramente terreno. Nell’aldilà l’uomo non è più irretito nelle azioni e nei traffici terreni, come in ogni semplice imitazione delle vicende umane; è chiuso invece in una condizione eterna che è la somma e la risultante di tutte le sue azioni, e che a lui nello stesso tempo palesa quello che fu decisivo per la sua vita e per il suo carattere. Con ciò la sua memoria, anche se con dolore e senza frutto per il dannato dell’Inferno, viene condotta sulla strada che svela tutto quello che fu decisivo nella sua vita. È in tale condizione che i defunti si palesano a Dante ancor vivente; è cessata l’ansietà per il futuro ancora celato, che è propria d’ogni condizione terrena e d’ogni sua imitazione artistica, specialmente di quella seria e drammatica. Solo Dante può sentire quell’ansietà nella Commedia. I molti drammi compiuti si riuniscono tutti in un unico grande dramma in cui si tratta di lui stesso e dell’umanità, e tutti sono soltanto «exempla» per l’acquisto o la perdita della beatitudine eterna. Ma le passioni, gli affanni e le gioie sono rimaste e trovano espressione nella condizione, nei gesti e nelle parole dei trapassati. Davanti a Dante tutti quei drammi vengono recitati ancora una volta con straordinaria condensazione, talora in poche righe come quello di Pia de’ Tolomei (Purg., V, 130), e in essi si dispiega, apparentemente sparsa e spezzata, e pur sempre dentro un piano, la storia fiorentina, l’italiana e l’universale. Ansietà e svolgimento, le due note fondamentali dell’accadere terreno, hanno cessato di essere, e tuttavia le onde della storia battono fino nell’aldilà, in parte come ricordo del passato terreno, in parte come partecipazione al terreno presente, in parte come ansia per il terreno futuro, ma ovunque come, in senso figurale, temporalità contenuta nell’eternità senza tempo. Ogni trapassato sente la propria condizione nell’aldilà come l’ultimo atto in corso ancora e per sempre del suo dramma terreno.
Nel primo canto del poema, Dante dice a Virgilio: «tu se? solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore» (vv. 86-87). E questo è certamente giusto, e in verità molto più per la Commedia che per le opere precedenti e per le canzoni. Egli deve a Virgilio il motivo del viaggio agli Inferi, un grandissimo numero di motivi particolari, molte risorse linguistiche. Perfino la svolta nella sua concezione dello stile rispetto al trattato De vulgari eloquentia, che lo portò dalla poesia lirico-filosofica al grande epos, e con ciò alla grande rappresentazione del destino umano, non può essersi compiuta senza il modello degli antichi e soprattutto di Virgilio. Primo fra coloro che sono a noi noti, ebbe un immediato adito alla poesia di Virgilio; il suo senso dello stile e la sua concezione del sublime si formarono pit su Virgilio che sulla teoria medievale; per mezzo suo poté evadere dalla cornice ancor troppo ristretta della «suprema constructio» provenzale e italiana del suo tempo. Però, mentre procedeva all’alta opera che sta sotto il segno di Virgilio, lo sopraffaceva l’altra tradizione, pit presente e più viva; il suo alto poema diventò di stile misto e figurale proprio per via della concezione figurale; divenne una commedia e divenne, anche per il suo concetto stilistico, cristiana.
Dopo tutto quello che abbiamo detto a questo proposito nel corso della nostra interpretazione, non occorrono nuove spiegazioni sul come e sul perché la rappresentazione in stile misto di tutto l’accadere terreno, senza limitazioni estetiche nell’argomento o nell’espressione, sia, quale opera sublimemente figurale, di spirito e d’origine cristiana. In ciò rientra anche l’unità di tutto il poema che, riunendo in un unico cielo e in un’unica terra una quantità di materie e di azioni, stabilisce una coerenza universale: «il poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra». E d’altro lato fu Dante il primo che senti e attuò la particolare gravitas dello stile illustre degli antichi e che anzi la spinse più avanti ancora. Per quanto triviale, grottesco, orrido e beffardo sia quello che dice, il tono rimane tuttavia illustre; il realismo della Commedia, come quello del teatro cristiano, non potrebbe mai cadere nel buffonesco plateale e servire da sollazzo popolaresco. L’altezza del tono di Dante è impensabile in precedenti opere epiche del Medioevo, ed essa è, come si può rilevare da molti esempi, foggiata su antichi modelli (un bell’esempio è la sua formula di accorata invocazione con «se», derivata dalla formula con «sic» del latino classico4). La poesia pre-dantesca, specialmente quella cristiana, nelle lingue volgari, nonostante l’influsso della retorica scolastica di cui si è così spesso parlato negli ultimi tempi, è, per quanto si riferisce alla questione stilistica, abbastanza ingenua; ma Dante, quantunque tragga il suo materiale dalla lingua volgare più viva, e talvolta perfino dalla più bassa, ha perduto l’ingenuità e costringe ogni espressione nella gravità del suo tono e, se canta il divino ordine universale, impiega pet tal compito costruzioni e connessioni sintattiche che dominano gigantesche masse di pensiero e complessi di eventi (un esempio per tutti è Inf., II, 13-36). Nell’antichità qualche cosa di simile non s’era ancora visto in poesia. È lo stile di Dante ancora un sermo remissus et humilis, come lo chiama egli stesso, e come deve essere lo stile cristiano anche negli argomenti sublimi? Forse si potrebbe rispondere affermativamente: anche i Padri della Chiesa e perfino sant’Agostino non hanno disdegnato l’arte consapevole dell’eloquenza; la questione è di sapere a che cosa e a quale intenzione servono gli strumenti dell’arte.
Nel nostro passo vi sono due dannati, i quali vengono introdotti in stile illustre, e la cui personalità terrena è conservata con piena realtà nella loro dimora ultraterrena. Farinata è, come sempre, grande e superbo, e Cavalcante ama la luce del mondo e suo figlio non meno, anzi, nel suo dubbio, pit caldamente che in terra. Così ha voluto Dio, e così tutto questo s’inserisce nel realismo figurale della tradizione cristiana. Ma mai prima esso fu spinto tanto lontano; mai, forse nemmeno nell’antichità, è stata impiegata tanta arte e tanta potenza espressiva per raggiungere una tale intensità, quasi dolorosa, di rappresentazione della forma terrena dell’essere umano. Ciò è consentito a Dante appunto dalla indistruttibilità cristiana dell’uomo totale, e proprio per averla espressa con tanta potenza e con tale realtà, e gli apri la strada all’autonomia dell’essenza terrena; egli creò nel mezzo dell’aldilà un mondo di personaggi e di passioni terrene, che esce dalla cornice e diventa indipendente. La figura supera il compimento o, meglio, il compimento serve a dare ancor maggiore rilievo alla figura. Si ammira Farinata e si piange con Cavalcante; quello che più ci commuove non è che Dio li abbia dannati, ma che l’uno sia incrollabile e che l’altro provi un così acuto rimpianto del figlio e della dolce luce. La terribile condizione dei dannati serve soltanto quale mezzo per accrescere l’effetto di questi sentimenti del tutto terreni. Però il problema, a quanto mi sembra, è veduto in modo troppo ristretto quando ci si ferma, come molti hanno fatto, solo al senso di ammirazione o di pietà che nasce in Dante. L'essenziale, secondo noi, non è limitato all’Inferno né d’altra parte alla simpatia o all’ammirazione di Dante: ovunque si hanno esempi in cui l’effetto del personaggio terreno e della sorte terrena supera quello della condizione eterna o l’ha posto al suo servizio. Nobili dannati, come Francesca da Rimini, Farinata, Brunetto Latini o Pier della Vigna, sono esempi validi anche per il mio concetto; ma, a parer mio, si erra nel porre l’accento, se si tiene conto soltanto di essi, poiché per una dottrina della salvazione, che fa dipendere il destino eterno dalla grazia e dal pentimento, tali personaggi sono indispensabili nell’Inferno quanto i pagani virtuosi nel Limbo. Però, non appena ci si chieda come mai Dante per primo abbia così fortemente sentito la tragicità di tali personaggi e l’abbia espressa in tutta la sua forza, subito il cerchio delle osservazioni si allarga, poiché Dante ha trattato con ugual potenza tutte le cose terrene da lui toccate. Cavalcante non è grande, e Dante tratta persone come il goloso Ciacco o il furioso Filippo Argenti o con pietoso disprezzo o con aborrimento; ciò non impedisce che anche in questi casi l’immagine delle passioni terrene, nel loro compimento del tutto individuale nell’aldilà, sorpassi di gran lunga quella della punizione collettiva, e che questa molto spesso serva soltanto all’efficacia di quella. E ciò vale perfino per gli eletti nel Purgatorio e nel Paradiso: per Casella che canta una canzone di Dante, e i suoi ascoltatori (Purg., II), per Buonconte, che racconta la sua morte e ciò che avvenne del suo corpo (Purg., V), per Stazio che s’inginocchia davanti al suo maestro Virgilio (Purg., XXI), per Carlo Martello, il giovane re di Ungheria, che in maniera così affascinante svela il suo affetto per Dante (Par., VIII); vale per Cacciaguida, il fiero e patriarcale antenato di Dante, dal cuore colmo di storia fiorentina (Par., XV-XVII), e perfino per l’apostolo Pietro (Par., XXVII), e per quanti ancora dispiegano dinanzi a noi un mondo di vita storico-terrena, un mondo di azioni, sentimenti, aspirazioni e passioni terrene quali in tal misura e di tal forza difficilmente la scena terrestre potrebbe offrire. Senza dubbio tutti costoro sono profondamente inseriti nell’ordine divino e senza dubbio un grande poeta cristiano ha il diritto di conservare l'umanità terrena nell’aldilà, la figura nel compimento, e di completarla secondo le sue forze. Ma la grande arte di Dante si spinge tanto oltre che l’effetto si riversa nel terrestre e il personaggio nel suo compimento afferra troppo gli ascoltatori; l’aldilà diventa teatro dell’uomo e delle sue passioni. Si pensi alla precedente arte figurale, ai misteri, all’arte plastica religiosa, che non si arrischiarono affatto, o soltanto con estrema delicatezza, oltre i soggetti offerti immediatamente dalla storia biblica e cominciarono a imitare la realtà e l’individuo solo per vivificare le storie bibliche; e si consideri poi Dante, il quale nella cornice figurale dà vita a tutta la storia del mondo e, dentro a questa, a quella d’ogni uomo nel quale s'imbatte. Questa è fin dal principio l’esigenza dell’interpretazione ebraico-cristiana della storia, ed essa pretende a un valore universale; ma la vitalità immessa in quell’interpretazione è così grande che le sue manifestazioni si conquistano un posto nell’animo dell’ascoltatore anche indipendentemente da ogni interpretazione. Chiunque oda il grido di Cavalcante: «non fiere li occhi suoi il dolce lome?» o chiunque legga il verso dolce e incantevolmente femmineo pronunciato da Pia de’ Tolomei («e riposato della lunga via», Purg., V, 131), con cui prega Dante di rammentarla sulla terra, sente in sé un impulso che si volge agli uomini piuttosto che all’ordine divino dove essi hanno trovato il loro compimento; e ci si rende conto della loro condizione eterna nell’ordine divino solo in quanto essa è un teatro che con la sua irrevocabilità aumenta ancora l’effetto di questa umanità conservata in tutta la sua forza. Si perviene a un’esperienza immediata della vita, che sopraffà tutto il resto, a una rappresentazione dell’uomo tanto varia e ampia quanto profonda, a un’illuminazione dei suoi impulsi e delle sue passioni che porta a una partecipazione calorosa e senza riserve e perfino all’ammirazione della loro molteplicità e grandezza. E in questa immediata e ammirata partecipazione alla vita dell’uomo, l’indistruttibilità dell’uomo storico e individuale, stabilita dentro l’ordine divino, si dirige contro quello stesso ordine divino, lo fa suo servo e l’eclissa. L’immagine dell’uomo si pone davanti all'immagine di Dio. L’opera di Dante ha realizzato l’essenza figurale-cristiana dell’uomo e nel realizzarla l’ha distrutta. La potente cornice s’infranse per la strapotenza delle immagini che essa incluse. I rozzi disordini, a cui condusse il buffonesco realismo dei misteri dell’alto Medioevo, sono, per l’esistenza d’una concezione figurale-cristiana dell’accadere, di gran lunga meno pericolosi dell’alto stile d’un così grande poeta, in cui gli uomini vedono e riconoscono se stessi. In questa realizzazione la figura diventa indipendente, sicché nell’Inferno ci sono ancora grandi anime, e nel Purgatorio alcune anime per la dolcezza d’una poesia, d’un’opera umana, dimenticano per alcuni istanti la via della purificazione. E in conseguenza delle speciali condizioni del compimento di sé nell’aldilà, la persona umana si afferma ancor più potente, più concreta e singolare che nell’antica poesia; poiché del compimento di sé, che comprende tutta la vita trascorsa sia obiettivamente che nel ricordo, fa parte uno svolgimento storico individuale, di volta in volta una particolare storia, il cui risultato a dir vero appare a noi già «finito», ma i cui stadi in molti casi vengono rappresentati diffusamente; mai esso ci rimane del tutto celato, e noi riusciamo a cogliere, molto più esattamente di quanto la poesia antica avesse saputo fare, il divenire immanente nell’essere senza tempo.

Notes
1
Ora bisogna qui notare che come in questo libro c’è ogni genere di filosofia, come s’è detto, cosi c'è ogni genere di poesia. Onde chi volesse guardare attentamente, qui c'è tragedia, satira e commedia. Tragedia, poi- ché descrive gesta di pontefici, re, baroni e altri magnati e nobili, come appare chiaro in tutto il libro. Satira, cioè rimproverante: e infatti rimprovera mirabilmente e coraggiosamente ogni genere di vizi, senza risparmia- re la dignità: il potere o la nobiltà di alcuno. Perciò a maggior ragione potrebbe avere il titolo di Satira che non di tragedia o commedia. Certo si può anche dire che sia una commedia, giacché secondo Isidoro la commedia comincia dal triste e finisce nel lieto: proprio come questo libro comincia da una materia triste, cioè dall’Inferno, e termina lietamente, cioè col Paradiso, ovverosia con l’essenza divina. Ma tu dirai forse, o lettore: perché mi vuoi di nuovo battezzare il libro, una volta che l’autore gli ha messo il nome di Commedia? Rispondo che l’autore ha voluto chiamare il suo libro Commedia dallo stile basso e popolare, poiché in effetti è umile dal punto di vista linguistico, benché nel suo genere sia sublime ed eccellente... (BENVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA, Comentum super D. A. Co- ani curante Jacopo Philippo Lacaita, tomus I, Florentiae 1887, D. 19).
2
Cfr. nota a p. 83.
3
Le thomisme, 3* ed., Paris 1927, p. 300.
4
Cfr., a questo proposito, G. Bonfante in «Publications of the Mod. Lang. Assoc.», LVII, 930.
Date: 2021-12-23