Dati bibliografici
Autore: Zygmunt G. Baranski
Tratto da: Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri
Editore: Liguori, Napoli
Anno: 2000
Pagine: 103-126
Tra le maggiori conquiste della critica dantesca moderna è l'aver dimostrato la novità formale e stilistica della Commedia nei confronti della letteratura classica e medievale. Qui però nasce subito una certa perplessità, provocata dal fatto che tale novitas sia stata poco, o per niente, percepita dai lettori trecenteschi. Con l'eccezione di Guido da Pisa e di Benvenuto , i commentatori cercano, in verità con scarso successo, di ridurre, e quindi di spiegare, lo sperimentalismo del poema dantesco in termini tradizionali. Inoltre, dato che «La causa finale della presente opera [la Commedia]», per dirla col Boccaccio, «è: rimuovere quegli, che nella presente vita vivono, dallo stato della miseria allo stato della felicità» , il fatto che, proprio grazie alle sue innovazioni retoriche, il poema sia stato letto in modi parziali ed inadeguati, particolarmente da quel pubblico contemporaneo a cui Dante si rivolgeva, deve per forza revocare in dubbio la sua efficacia come opera didattica e di riforma. L'originalità formale della Commedia - uno dei fondamenti su cui Dante costruiva il racconto e il messaggio straordinari del poema -, paradossalmente, da questa prospettiva, si erige come una imponente barriera di fronte al desiderio del poeta di contribuire alla salvezza dell'umanità.
Non vorrei far pensare con questa affermazione che Dante non fosse conscio di tali possibili fraintendimenti esegetici inerenti nelle tensioni fra il livello poetico e quello ideologico della Commedia. Tutt'altro. Il poema, di fatto, come era comune in altri testi medievali, è strapieno di contrassegni di carattere tecnico con cui Dante voleva illustrare la sua novità. Come ha detto benissimo, più di sessant'anni fa, Gianfranco Contini, «una costante della personalità dantesca è questo perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia» . Basta ricordare l'emblematica apertura del canto degli indovini:
Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch'è d'i sommersi.
(Inf XX, 1-3)
Qui e altrove, Dante suggerisce la distanza che separa il proprio uso della terminologia che egli adopera per descrivere la poesia della Commedia, dalle applicazioni che se ne facevano sia nei manuali retorici sia in altri testi. Basta pensare, per esempio, alla differenza che corre tra l'uso dantesco di canzone e quello comune . In modo simile, come molti studiosi da tempo hanno stabilito , Dante, attraverso tutta una serie di strategie poetiche ed ideologiche, mostra nei modi in cui organizza la Commedia le differenze tra il suo poema e le altre tradizioni letterarie. In particolare, egli assorbe ed oltrepassa queste esperienze artistiche nelle singolari strutture della sua comedia, per mettere a fuoco le loro inadeguatezze come forme con cui parlare di «ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII, 87). Basta, di nuovo, pensare a Inferno XX e ai modi in cui Dante si misura con le tragedie classiche . In fin dei conti, la poetica a cui lo stile "comico" si avvicina di più è quella del sermo humilis biblico, che il Medioevo credeva abbracciasse ogni stile . Benché Dante mirasse a smontare il sistema di convenientiae su cui si reggevano la retorica e la letteratura del suo mondo, come si può riconoscere dagli esempi citati sopra, egli decise di far ciò entro i parametri della tradizione e non fuori di questa, per garantire che il lettore potesse seguire la sua operazione; ed in questo la Bibbia e, in particolare, la riflessione critica attorno il libro sacro gli furono di fondamentale aiuto. Dante pensava di poter contare sulla memoria tecnico-letteraria del suo pubblico per far capire le direzioni originali in cui si muoveva la Commedia , Ma è proprio a questo punto che il poeta sembra non aver successo nel suo tentativo di "parlare" del suo poema ai suoi contemporanei. Ciò non dovrebbe sorprendere, poiché il "lettore ideale" teorizzato da Dante era, in fin dei conti, egli stesso o, più precisamente, un lettore, che avesse le sue stesse conoscenze culturali . In mancanza, inevitabilmente, di un tale lettore-commentatore, la reazione trecentesca alla forma della Commedia fu di carattere molto tradizionale, quando non del tutto assente.
In modo più specifico, si può fare un discorso simile per l'allegoria del poema. Benché i commentatori, come era loro dovere di esegeti, si siano dedicati ad interpretare la Commedia allegoricamente, e i loro contributi siano importantissimi sotto molti singoli aspetti, normalmente essi non hanno avanzato proposte troppo audaci nello spiegare i modi in cui l'allegoria dantesca funziona come struttura che organizza il testo nel suo complesso e che, quindi, offre le chiavi per la sua interpretazione e definizione globali. Come nei confronti dello stile "comico", i commentatori si muovono con prudenza e reagiscono tradizionalmente di fronte all'allegoria della Commedia . Dunque, con la solita eccezione di Guido da Pisa e di Benvenuto, leggono il poema, come qualsiasi altro testo non sacro , in termini di un'esegesi morale, offuscando così ulteriormente la sua novità. Il Buti è tipico di tale approccio: «e però esporremo prima la lettera et appresso secondo l'allegoria o vero moralità, secondo ch'io crederò che sia stata l'intenzione dell'autore» . Ma, a mio parere, è proprio «l'intenzione» dantesca che il commentatore e i suoi contemporanei non sembrano aver colto, non riuscendo a captare gli indizi esegetici che il poeta ha lasciato tra le terzine del suo poema. In particolare, preme fissare le sue qualità allegoriche, poiché l'allegoria, dato che nel Medioevo fu utilizzata sia come forma strutturale sia come forma esegetica, è proprio il punto dove la poesia e l'ideologia della Commedia si sovrappongono nel modo più stretto e definiscono non solo i suoi tratti testuali, ma anche il suo carattere semiotico, eroe, la sua identità segnica. Perciò, tra l'altro, dati i rapporti strettissimi nella cultura medievale tra segni, interpretazione e salvezza , una spiegazione del suo statuto allegorico ci aiuterà a capire con più precisione perché Dante abbia deciso di annunciare il bisogno di riformare la società, in un testo la cui accessibilità, e quindi interpretabilità, a prima vista può apparire così precaria.
I termini in cui sto discutendo questi problemi potranno sembrare curiosi, dato che molti valenti studiosi hanno già dimostrato la centralità dell'allegoria per il poema - posizione che rispecchia l'importanza cruciale di questa nel mondo medievale , particolarmente come mezzo attraverso il quale riconoscere e decifrare il carattere fondamentalmente semiotico del creato e della storia, e quindi dei rapporti tra Dio e l'umanità. Però, se confrontiamo fra loro le proposte presentate da questi critici, nasce subito il dubbio su quale sia veramente il tipo di allegoria che Dante scelse per la Commedia. Per esempio, lo spazio fra il figuralismo di Auerbach e l'esegesi morale di Singleton è notevole, malgrado la loro comune ascendenza biblica . Per non parlare, poi, delle dispute se la littera della Commedia - punto da cui deve partire qualsiasi discorso sull'allegoria - sia storia o finzione, sia il resoconto di una visione o una dichiarazione profetica ; questioni che si complicano ancora di più alla luce dei dibattiti sui rapporti tra questo livello letterale e il suo sovrasenso (o i suoi sovrasensi). Inoltre, i dantisti hanno normalmente limitato le implicazioni del carattere allegorico della Commedia (qualunque sia la loro interpretazione di questo) a problemi connessi con la dimensione strettamente letteraria del testo. Non si sono posti il problema dei rapporti del poema col simbolismo medievale in senso lato, come se l'allegoria non costituisse parte integrale di questo aspetto cruciale della forma mentis medievale (come è stato già chiarito nei capitoli precedenti). Di conseguenza, gli studiosi hanno sottovalutato, per non dire ignorato, l'identità semiotica della Commedia: segno in un universo di segni. In più, è importante ricordare che questi segni - secondo opinioni correnti all'epoca - si distinguevano in base alla loro semanticità, e si organizzavano in una gerarchia divinamente calibrata che si fondava sulla natura dei loro rapporti col Creatore e su quelli col mondo. Per esempio, una fictio poetica era considerata connotativamente meno rivelatrice di una visio miracolosa - fatto, chiaramente, di un certo peso se si vuole arrivare ad una precisa valutazione di un poema che aveva l'ambizione di svolgere per l'umanità un ruolo salvifico e di riforma. Si potrebbe obiettare che non c'è ragione per cui ci debbano essere dei problemi e delle perplessità per ciò che riguarda il carattere allegorico della Commedia; Dante ha fissato, e quanto chiaramente, la definizione dell'allegoria del suo capolavoro nella prosa didascalica dell'Epistola a Cangrande. Vorrei però lasciar da parte questo testo. Non tanto perché la sua attribuzione a Dante non mi convinca - come base dei miei dubbi offrirei, per esempio, il conservatorismo delle sue spiegazioni retoriche che vanno tanto ovviamente contro le pratiche della Commedia -, ma piuttosto per ragioni più semplici e meno controverse . Anche se l'Epistola a Cangrande fosse dantesca, ciò non cambierebbe il fatto fondamentale che Dante cominciò a scrivere la Commedia senza potersi appoggiare sul suo sussidio esplicativo. Perciò bisogna, a mio avviso, cercare nel poema soltanto la chiarificazione della sua costituzione allegorica: un modo di lettura critica che è stato adottato solo di recente . Come per gli altri aspetti tecnico-letterari della Commedia, anche per l'allegoria certe risposte emergono dalla tensione che Dante istituisce tra le forme del suo poema e le lezioni provenienti dalla tradizione. È questo rapporto che qui mi propongo di approfondire - anche se solo in modo schematico - per tracciare un'analisi di alcuni degli accenni, che Dante ha introdotto nell'intelaiatura della Commedia, per il suo "lettore ideale", sul tipo di allegoria che caratterizza e conviene ad un poema «al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 2) e che, perciò, determina la sua costituzione semiotica e stabilisce la sua collocazione nel creato e nella storia.
Esiste uno spazio testuale privilegiato per un'indagine di questo tipo. Uno dei pilastri della tradizione classica e medievale è l’exordium, quale summa ideologica e stilistica messa in capo ad un testo. Attraverso questa sintesi l'autore delimita il proprio componimento e ne offre le chiavi di lettura . Anche per la Commedia si è soliti sottolineare che il primo canto dell'Inferno compie tale funzione proemiale ; inoltre, si aggiunge spesso che Inferno II ha sia il ruolo convenzionale di invocazione sia quello più raro di proemium a una singola parte del poema. Benché questi giudizi generali siano giusti, il rapporto tra Inferno I e il resto della Commedia non mi pare che sia stato indagato con cura; in verità, si nota una dicotomia nella critica. Sulla scia del famoso giudizio crociane , si indica la diversità di quella «selva che non è selva» dalla materia degli altri canti della Commedia. A causa di ciò che si considera un'eccessiva pesantezza allegorica, qualcuno ha persino suggerito che sarebbe utile se si potesse calare un «sipario» dopo i primi due canti : In base a tali osservazioni, è difficile capire in che modo Inferno I possa funzionare da exordium. Un aiuto, in questo caso, ci viene dai commenti trecenteschi, i quali non sembrano percepire uno sfasamento tonale nello svilupparsi della Commedia. Per loro, un tale problema non esiste, e il poema si organizza retoricamente senza sorprese:
E questa [cantica] prima si divide in due parti, perché prima si pone il proemio, ove l'autore propone la materia di che dee trattare facendo li uditori docili, e la invocazione delle muse; nella seconda si pone il trattato et incomincia quivi: per me si va ec., che è il principio del terzo canto. E la prima si divide in due, perché nella prima pone il proemio; nella seconda pone la invocazione e comincia nel secondo canto.
La coerenza della Commedia è così garantita dalla sua struttura; e in questo caso mi pare che i commentatori abbiano centrato il problema meglio della critica moderna. Se, nel poema, come ho già proposto, Dante porta avanti il suo discorso metaletterario sempre con un occhio alla tradizione, è probabile che egli abbia racchiuso le chiarificazioni del suo sperimentalismo in quei luoghi del testo dove un lettore medievale sarebbe andato a cercarle, e che non abbia voluto separare proprio tali zone dal resto della Commedia. Anche per Dante, pare logico che Inferno I sia una parte integrante del poema. Asserire questo non elimina però la difficoltà che neanche i commentatori hanno stabilito i modi in cui il primo canto funziona come proemio della Commedia. In quanto prima presentazione del poema, Inferno I dovrebbe almeno stabilire l'originalità dell'opera, i suoi rapporti con la tradizione, i mezzi con i quali bisogna interpretarla, il suo genere, i suoi temi dominanti e la sua identità semiotica. Tutti questi aspetti si possono far convergere nella nozione di quella allegoria, quale elemento esegetico formale e, perciò, struttura portante della Commedia, di cui Dante, a mio parere, ha certamente lasciato più di una traccia nel primo dell'Inferno.
Accanto a questa ipotesi di lavoro, ne vorrei proporre un'altra, la quale è un corollario inevitabile della prima; cioè, vedere se sia possibile avvicinarsi, con tutte le debite riserve, ad Inferno I con gli occhi di quel "lettore ideale" che per la prima volta si trova con un manoscritto della Commedia tra le mani, e che, mentre legge tenta di capire che tipo di testo gli stia davanti. Immediatamente, il poema dantesco si presenta come narratio in versi, rivendicando così il diritto della poesia a quella forma narrativa che, per secoli, tra tutte, fu considerata la più appropriata ad essa , ma che nel Medioevo veniva sempre di più associata alla prosa: «quicquid redactum est sive inverttum ad volgare prosaycum, suum est: videlicet Biblia cum Troianorum Romanorumque gestibus compilata et Arturi regis ambages pulcerrime et quamplures alie ystorie ac doctrine» (DVE I, x, 2) . Stabilita la narratività della Commedia, sorge la questione dello statuto ontologico di questo racconto. Benché al Medioevo mancasse una terminologia retorica costante, la divisione della forma narrativa in historia, argumentum e fabula ebbe una diffusione pressappoco universale . In pratica, però, come con la tripartizione della rota Vergilii, che spesso si riduceva ad un sistema binario di "stile alto" e di "stile basso", anche per la narratio normalmente si compiva una distinzione tra tipi di racconto "vero" e di racconto "fittizio" . Fra parentesi: questa tendenza alla bipolarità retorica fa sorgere qualche dubbio sulla validità di quegli studi che fissano il mondo medievale esclusivamente in modelli ternari. Tornando al proemio dell'Inferno, questo sembrerebbe, a prima vista, inserirsi tra le fabulae, poiché i suoi parenti più prossimi sarebbero i viaggi allegorici didattico-morali, sia quelli latini della scuola di Chartres sia quelli in volgare, tipo il Roman de la Rose e il Tesoretto; Dante stesso, al verso 91, chiama la sua visita all'oltretomba con questa designazione («A te convien tenere altro viaggio»). Si riconoscono ovvi contatti tra la Commedia e queste opere: l'uso di figure allegoriche e ipostasi di vizi e di virtù; la presenza centrale di un io narratore e protagonista, che raccoglie in sé sia una biografia individuale sia la funzione di un personaggio rappresentativo; e la descrizione di mondi con fini simbolici . In particolare, l'incipit dantesco si localizza in quell'ambiente toscano a cui fa capo l'opera di Brunetto, la quale inserisce elementi autobiografici e di storia laica in una struttura da fabula . L'apparizione di Virgilio e il suo discorso politico (vv. 93-111) sono anticipati dagli incontri del viaggiatore brunettiano con Ovidio (vv. 2357-93) e con Tolomeo (vv. 2911-44), e dal proemio fiorentino del Tesoretto (vv. 113-90). Questa prima impressione è però messa in crisi dall'atmosfera religiosa che pervade Inferno I: non solo il numero imponente di echi biblici, agostiniani, e vittorini da cui nascono il lessico e la sintassi dantesca , ma anche, al livello delle macrostrutture, alle quali desidero qui limitare la mia esposizione, si notano caratteristiche che imitano i modelli standard delle visioni d'oltretomba, le quali ebbero una grandissima fortuna dal dodicesimo secolo in poi . In particolare, fanno parte delle visioni l'intervento - per usare un termine della moderna narratologia - di un Adiuvante «accompagnatore e protettore» che è pure un Docente, e l'uso della prima persona che garantisce la veridicità del racconto ; elemento quest'ultimo che inserirebbe, perciò, la Commedia tra le historiae. Reso perplesso dai segnali contraddittori che gli vengono da questo testo che sembra voler creare una nuova forma ibrida, il nostro "lettore" decide di rileggersi con più cura, il proemio della Commedia, tentando, in particolare, di vedere come questo si organizza.
Inferno I si segmenta in una serie di blocchi narrativi. Il primo abbraccia i 63 versi iniziali, cioè, va fino all'arrivo di Virgilio, ed è dominato da un allegorismo di stampo tradizionale, che travolge il racconto e presenta invece quasi un ambiente da "psicomachia": l'appariscente convenzionalismo allegorico della selva, delle fiere, e del viaggiatore smarrito è fin troppo noto per dover essere qui rispiegato. In effetti, l'apertura della Commedia sembra quasi tornare a forme arcaiche che hanno la loro fonte in Prudenzio. Ha tutta l'aria di una «bella menzogna» (Conv. II, i, 3) che crea un mondo fittizio di parole dietro a cui si intravedono senza troppa difficoltà delle verità morali, in cui risiede il valore effettivo del componimento. Una tale interpretazione della letteratura profana era comunissima. Apparteneva al sistema dell'allegoria in verbis, ciò che, nel Convivio, Dante chiama «allegoria dei poeti», la quale riconosceva un rapporto del tutto traslato tra il senso simbolico di un testo letterario e le cose descritte da questo. Perciò, per il Medioevo, i significati allegorici che queste medesime cose avevano nel mondo, cioè i significati dati loro da Dio, il quale univa in un singolo rapporto essenziale ogni res e i suoi signa, erano, in generale, completamente diversi dal loro simbolismo letterario, il quale era frutto di un collegamento di tipo arbitrario. Inoltre, l'insufficienza del comunicare umano era confermata dal fatto che gli uomini maneggiavano le parole in modi che si adattavano solo più o meno alle cose, e perciò non riuscivano ad esprimere le verità più alte. Come ho già accennato, il sistema semiotico letterario umano funzionava in opposizione a quello delle due scritture divine: la Bibbia e il creato. Per il lettore trecentesco, da un lato, il libro umano era ristretto ad un'allegoria che era unicamente in verbis, cioè «operante sul piano della semantica del linguaggio artistico», e che si risolveva in due sensi - quello litteralis e quello allegoricus. Dall'altro lato, Iddio restringeva in un singolo nodo indispensabile verbum, res e signum nelle Sacre Scritture, e faceva coesistere res e signum nel mondo, per rivelare così agli uomini attraverso una serie di realtà immediatamente percepibili (verba-res o res sole) le realtà trascendenti dei «misteri spirituali» (signa). Questa allegoria in factis, cioè la dantesca «allegoria dei teologi», «operante sul piano della semantica del reale», era dotata di quattro sensi: un livello letterale che era sempre storico, e da cui partono i tre sovrasensi: l'allegorico, il morale, e l'anagogico , In questa prospettiva esegetica, direi, la prima parte di Inferno I, e, per estensione, tutto il poema, non possono non presentarsi come finzione, le cui vere qualità saranno da ricercarsi non nella lettera, ma nella lezione morale che ne scaturisce. Però, verso la metà del canto, Dante, come poi farà altrove allo stesso punto in altri canti, d'un tratto cambia la direzione della sua narrativa, segnalando questa svolta con una terzina di transizione, altro stratagemma che diverrà luogo comune della Commedia:
Quando vidi costui nel gran diserto
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certol»
(vv. 64-66)
Virgilio subito risponde al pellegrino in tono rassicurante, aprendo il suo discorso con una formula che è ora diventata quasi proverbiale: «Non omo, omo già fui» (v. 67), e poi procede per altri otto versi (vv. 68-75) con un'auto-presentazione la cui precisione storica non può non. colpire dopo il tono astratto del dramma allegorico. La ripetizione di omo, che al livello del racconto riafferma che Virgilio non è più vivo, finisce, però, col sottolineare la sua concretezza ed il suo statuto reale. Inoltre, è stato dimostrato che «la biografia virgiliana di Dante sembra [...] sorretta da una fonte ben raccomandabile [la vita di Donato], lontanissima dalle fantasie cui è talora [nel Medioevo] ridotta la memoria di Virgilio» - un'ulteriore prova del desiderio dantesco di storicizzare queste terzine.
Coll'arrivo di Virgilio, non solo figura storica ma, nei panni dell'Adiuvante, anche personaggio della visione d'oltretomba, si può riconoscere il momento nel testo in cui la fabula del viaggio allegorico si scontra colla historia. Dante, però, non sviluppa questo incontro dialetticamente, né cerca di preservare l'equilibrio dei due elementi. Virgilio fa seguire alla sua biografia una terzina in cui si riferisce agli eventi a cui abbiamo assistito nei primi 63 versi:
«Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?»
(vv. 76- 78)
Ciò che colpisce è che, in queste due domande, Virgilio tratta il viaggiatore e le sue avventure come se facessero parte di quella stessa realtà storica che egli ha appena presentato nelle tre terzine precedenti. A questo punto critico, quando il nostro "lettore ideale" non sa più bene se ha a che fare con personificazioni considerate come esseri vivi o con simboli dotati di una realtà storica, e si aspetta ulteriori chiarificazioni, Dante introduce una pausa nel discorso di Virgilio - un'altra tattica che il poeta adopererà di nuovo nella Commedia con degli effetti similmente drammatici. Dante passa la parola al pellegrino, il quale, però, lungi dal sostenere la sua condizione simbolica, prima riconferma lo statuto storico di Virgilio nominandolo (vv. 79-82), e poi, anche lui, offre dei dati autobiografici, la cui veridicità è sottolineata dalla loro immedesimazione proprio con la figura, indubbiamente storica, di Virgilio (per esempio, «T'u se' lo mio maestro e 'I mio autore», v. 85; e cfr. vv. 83-87). Non solo: anche il pellegrino, ora pure lui figura reale, si riferisce agli eventi a cui ha partecipato nei dintorni del «colle» e ne parla come di esperienza vissuta alla pari della sua carriera poetica:
«[…] tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
(vv. 86-90)
È ovvio che, alla luce delle glosse fatte ai primi 63 versi nella prospettiva della historia dell'incontro tra Virgilio e Dante-personaggio, anche la «selva», il «monte» e le tre fiere non sono delle invenzioni poetiche, benché continuino sempre a mantenere quei contatti con la letteratura che ho già notato, ma delle entità fisicamente reali. E Virgilio rende ciò indubbio, quando passa ad analizzare la lupa in rapporto alla storia di Italia (vv. 94-111). Perciò, arrivati alla sconfitta futura della bestia magra, Inferno I e, così, anche la Commedia, hanno cambiato carattere in modo veramente sorprendente. Non ci troviamo più nel regno della fabula; siamo passati nel mondo della historia, e, in particolare, della historia profana. Nella Summa Theologica di Alessandro di Hales, per esempio, troviamo una precisa definizione del valore di questo tipo di storia attraverso il solito confronto tra l'umano e il divino:
aliter est historia in sacra Scriptura, aliter in aliis. In aliis enim historia significatione sermonum exprimit «singularia gesta» hominum; nec est intentio significationis interioris, et ideo, quia singularium actuum et temporalium est, omnis talis historia est eorum quae «nunquarn intelliguntur». In sacra vero Scriptura ponitur historia non ea intentione seu fine ut significentur singulares actus hominum significatione sermonum, sed ut significentur universales actus et conditiones pertinentes ad informationem hominum et contemplationem divinorum mysteriorum significatione rerum.
Alessandro ci può anche indicare come è lecito interpretare la storia singularis che stiamo leggendo. Data la ricchezza di indizi, particolarmente simbolici, visionari, e profetici (il veltro), che Dante ha introdotto fino a questo punto, pare molto improbabile che questa storia sia una di quelle «quae "nunquam intelliguntur”». Di fatto l'esegesi morale della storia profana era solidamente stabilita ; E le parole stesse di Alessandro lasciano aperta la possibilità di una lettura allegorica dei «gesta horninum». Egli adopera la frase «significatione sermonum», col valore di allegoria in verbis, come si può constatare dall'uso contrastivo che egli fa più oltre di «significatione rerum»: frase che, in base alla spiegazione che egli ne dà, si collega apertamente colla formula tradizionale di allegoria in factis. Benché lo statuto ontologico della lettera del poema si sia modificato, dandole perciò maggiore importanza come testimone poetico veritiero in diretta concorrenza con la prosa, il suo statuto allegorico è rimasto immutato.
Il canto però non è ancora finito. Virgilio procede con le sue spiegazioni (vv. 112-29):
«Ond' io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno» [...]
(vv. 112-14)
e, di nuovo, la narratio dantesca prende una direzione imprevista. Sia le biografie personali dei due poeti, sia gli avvenimenti veri accaduti nel «loco selvaggio», sia la storia d'Italia sono tutti ora inseriti nelle strutture della storia universale. Dante-personaggio può solo sfuggire ai suoi problemi apprezzando il proprio e il loro posto negli schemi divini (vv. 114-24), mentre Virgilio si definisce non solo in termini umani (vv. 67-75), ma anche escatologici (vv. 124-29). Da questo punto di vista, la Commedia, nel suo proemium, annuncia che riferisce una storia in cui le cose, le persone, e gli eventi, a cominciare dalla «selva», dal viaggiatore, e dalle sue avventure, hanno la stessa verità dei fatti raccontati nella Bibbia . Dante non racconta una historia come, per esempio, quella scritta da Livio, ma una historia in cui «significentur universales actus et conditiones pertinentes ad informationem hominum et contemplationem divinorum mysteriorum significatione rerum». Perciò, è molto suggestivo che Virgilio, dall'interno del racconto, commenti i signa delle res che lo circondano cogli strumenti dell'allegoria in factis, come dobbiamo fare anche noi quando leggiamo le vicende riportate dal poema. Il loro senso allegoricus, che rivela la «redemptio facta per Christum», non solo rivela questo implicitamente quale presupposto senza cui il viaggio annunciato da Virgilio non può accadere, ma sia il poeta classico, nelle vesti di "redentore" («[…] e io sarò tua guida, / e trarrotti di qui per loco etterno», vv. 113-14), sia il pellegrino che, come dichiara Virgilio, viaggerà dall'Inferno al Paradiso (vv. 114-23), ripetono l'esempio di Cristo. Il senso anagogicus degli eventi, che presenta l'«exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem», si trova, come spiega Virgilio, nella struttura esemplare del percorso di Dante-personaggio dalla «selva» del peccato alla «città» celeste (vv. 91-93, 112-24). Inoltre, in modo più specifico, quel Virgilio mantovano, non solo nel testo ma anche nella realtà, prefigura ed è completato da quella «ombra» di Virgilio bandita dalla presenza divina, che serve da exemplum di tutte le anime «[who] are fulfilling or reaping the results of their earthly lìvess» .
Finalmente, il senso moralis, cioè, la «conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratiee» , benché non sia presentato direttamente, è implicito nelle scelte fatte dal pellegrino, il quale, grazie alla sua condizione "biblica", mantiene la propria individualità ed è un personaggio rappresentativo autorevolissimo. Tale lettura del primo canto trova sostegno nei richiami all'Esodo che vi si riconoscono, i quali poi si dilatano per tutto il poema . Altri elementi confermano l'ascendenza biblica di Inferno I. Per esempio, i modi in cui Dante spiega il vero significato di un episodio con un altro, imitano le tecniche della «testimonianza» o del «passo parallelo»: «A "testimony" is a "parallel passage", which [the commentator] adduces in accordance with the old rule that one passage in Scripture must be interpreted by comparison with others» ; mentre la prefazione metodologica con cui Agostino apre il commento al Genesi, si potrebbe applicare senza troppa difficoltà al nostro canto: «In libris autem omnibus sanctis intueri oportet, quse ibi seterna intimeritur, quse facta narrentur, quse futura prsenuntientur, quse agenda prtecipianrur vel admoneanture» ; e il fatto che Dante fa precedere la storia profana a quella sacra ricorda un passo di Ugo di San Vittore, nel quale si dimostra che, a volte, per arrivare all'esegesi corretta della Bibbia, bisogna prima ricorrere alla storia umana .
Dante accumula le prove del rapporto fondamentale tra il libro sacro e il suo poema. I prestiti linguistici di derivazione biblica di cui Inferno I è pieno, non solo confermano questo al livello macroscopico, ma, come ha indicato Lucia Battaglia Ricci, garantiscono la storicità proprio di quelle "astrazioni allegoriche" descritte nei primi 63 versi, dato che esse calcano brani della storia d'Israele; per esempio, la presentazione del «colle» si lega ai passi sul Monte Carmelo . Il viaggiatore si troverebbe dunque nella Terra Santa, il che suggerirebbe che Dante ponesse la porta dell'Inferno nei suoi dintorni; ipotesi non del tutto da scartare, se ricordiamo che Cristo, morto in Gerusalemme, vi discese nello stesso Venerdì Santo.
Chiaramente, una delle ragioni principali per cui Dante ricorre alla Bibbia è quella di stabilire la verità del suo racconto. Sulla scia degli scritti di San Tommaso, la «lettera» sacra ridiventò cruciale, mentre quella poetica fu ulteriormente sminuita . Allo stesso tempo, benché la Bibbia fosse chiaramente opera ispirata, molti esegeti riconoscevano e lodavano gli scrittori umani delle Sacre Scritture, la cui bravura artistica si poteva vedere in come manipolavano la «lettera» . Allora, per Dante, la storicità di stampo biblico di cui voleva che godesse la «lettera» della Commedia, era un presupposto basilare senza il quale non solo il suo messaggio profetico e morale avrebbe perso di forza, ma anche il suo genio artistico sarebbe stato negato, poiché sarebbe stato apprezzato soltanto il senso allegorico della sua «bella menzogna» . Per questo, come ho già detto, Dante rischiò tanto, sperimentando con una forma letteraria del tutto nuova. E gli altri echi testuali in Inferno I hanno, tra l'altro, proprio la mira di ribadire il valore letterale del poema. Perciò, i prestiti agostiniani, particolarmente quelli dalle Confessioni, la cui veridicità non era messa in sospetto, basta pensare alle parole di Dante nel Convivio , contribuiscono a creare l'atmosfera storica della Commedia. In modo simile, Dante rende le tre fiere più realistiche evocando i loro attributi fisici e i loro effetti con dati reperiti nei bestiari e in descrizioni scientifiche ; l'autopresentazione di Virgilio si ispira alle sue vitae , mentre quella del pellegrino ha dei contatti con la tradizione delle razos e vidas provenzali ; inoltre, gli echi dai romans cavallereschi portano con sé la forza veritiera della prosa . L'uso, ripetuto tre volte, del verbo dire per parlare del proprio poetare (vv. 4, 9, 10) è tecnico. Dante lo adopera in opposizione a raccontare I contare con cui era solito designare lo svolgimento delle fabulae . Introducendo queste tradizioni, e le altre di cui ho parlato prima, nel suo poema, Dante le risistematizza rispetto ai rinvii biblici che vi si trovano dimostrando le loro insufficienze nei riguardi del testo biblico, e perciò anche come possibili modelli della Commedia, la quale, come nessun altro testo, partecipa alla forma biblica non solo allegoricamente, ma, incorporando nelle sue pagine molte tradizioni letterarie diverse, pure stilisticamente. Benché esistano altri scrittori, tutti ricordati nelle strutture del primo canto, da Agostino a Prudenzio, e da Alano di Lilla ai visionari, che credevano di partecipare con le loro opere al processo di Redenzione , solo Dante insiste così energicamente sia sui suoi debiti con la Bibbia sia sulla storicità della «lettera» del suo testo. Ed è importante notare la presenza notevole di scrittori apertamente allegorici tra questi poeti "religiosi", in quanto Dante, attraverso il paragone implicito che emerge tra le loro opere e la sua, sottolinea quanto sia eccezionale l'allegoria della Commedia. Nel mondo dantesco di rapporti testuali, che culmina nella Sacra Scrittura, solo un altro poema, come la Commedia, trae vantaggio dall'accostamento alla Bibbia. L'Eneide, che fino ad allora era stata trattata come fabula e, perciò, interpretata in chiave etica e filosofica (basta pensare a Bernardo Silvestre), è considerata da Dante, in modo del tutto nuovo , come historia nel momento in cui gli eventi che essa narra («quella umile Italia», ecc.) sono inseriti nella stessa struttura storica di quelli biblici. Dante, forse il più grande sincretista del Medioevo, continua ad innovare facendo combaciare storia profana e storia sacra: questa era la base senza cui non poteva costruire la sua visione politica.
La distanza che, malgrado i loro elementi in comune, separa Inferno I dai viaggi allegorici da cui siamo partiti è imponente. Questi non negano mai la loro fictio: Brunetto usa la storia contemporanea solo come punto di partenza per nascondersi subito nella foresta simbolica, mentre Dante segue la via opposta. Malgrado tutti i rinvii scritturali, Dante, ovviamente, non pensava al suo poema come ad una nuova "Bibbia", in maniera paragonabile a quella in cui considerava la Commedia una nuova "Eneide". Il suo fu piuttosto un atto di debita e rispettosa imitatio nei riguardi di quello che per lui era il testo supremo. Seguendo l'esempio della Bibbia, Dante riuscì non solo ad indicare a tutti gli uomini la via della salvezza in conformità alla volontà divina, ma anche a sfuggire egli stesso, come poeta, alle insidie delle convenientiae retoriche. Ma Dante volle anche far vedere che egli, come uomo, non poteva raggiungere quella sintesi perfetta di verba, res e signa che contraddistingue la scrittura divina. Perciò, egli non si limitò ad imitare solo la forma biblica; ma, nel tentativo di adeguare la debole parola umana alle verità divine di cui era stato fatto portatore, e per sottolineare il carattere umano della sua poesia, egli assimilò qualsiasi testo scritto «per trattar del ben» (v. 8) nel modo più efficace; così, assieme all'allegoria biblica, come abbiamo visto, egli unì altre tradizioni allegoriche, per creare, anche per l'allegoria, uno stile "comico". Nello spazio tra il verbum divino e quello dantesco, non solo si trova la differenza tra la Bibbia e la Commedia, ma anche il luogo in cui Dante rivendica il proprio genio poetico. Per ricorrere alle famose parole di Singleton, il poeta ci fa apprezzare sia «the fiction of the Divine Comedy» in senso artistico; sia il fatto che, ideologicamente, «the fiction of the Divine Comedy is that it is not a fiction» . In quel magnifico proemium che è Inferno I, Dante stabilisce la coerenza unitaria di tutta la Commedia. Da un lato, ci offre, coll'aiuto di quel sorprendente esegeta pagano che è Virgilio, la chiave di lettura dei fatti li riportati; dall'altro, mette in evidenza che questi fatti sono riportati in una forma testuale la quale, malgrado le sue ascendenze scritturali, è, in fin dei conti, il frutto di una mente umana, e che, quindi, dev'essere misurata rispetto alla tradizione letteraria. Perciò, da questo punto di vista, gli echi letterari che si sentono in Inferno I sono tanto importanti quanto quelli biblici, per apprezzare l'intera portata della Commedia.
Allo stesso tempo, in Inferno I, lo scopo di Dante non è unicamente quello di stabilire i parametri letterari della sua opera e la storicità del suo racconto. Nel chiarire la natura dell'allegoria della Commedia, il poeta allarga la portata del suo discorso. Particolarmente, e in consonanza con i tentativi di non lasciar dubbi circa la veridicità della littera del «sacrato poema», egli sottolinea il fatto che la Commedia non può essere giudicata esclusivamente in termini artistici. Date le origini divine del viaggio e dati i debiti del poema verso il fare del Deus artifex, e perciò verso l'allegoria in factis, la Commedia trascende il mondo dei libri per misurarsi con il creato, «volume» che lega «ciò che per l'universo si squaderna» (Par. XXXIII, 86-87), coi miracoli e coi mirabilia - tutti segni, come pure il «sacro poema» stesso, della presenza di Dio nel tempo. In più, fissando il carattere fondamentalmente semiotico della Commedia, Dante fissa pure l'importanza chiave dell'esegesi come mezzo con cui leggere la sua opera per arrivare ai suoi sovrasensi divini. Dunque, non sorprende che sia l'azione descritta nel primo canto - in particolare gli atteggiamenti ermeneutici del «maestro» (v. 85) -, sia i modi in cui il testo è organizzato mettano a fuoco la centralità dell'interpretazione allegorica come mezzo conoscitivo. Le implicazioni ideologiche di questa scelta alla luce di quei conflitti intellettuali di cui si è già parlato in questo libro, e di cui si parlerà ancora, sono indubbie. Dante indica le sue simpatie per la tradizione neo-platonica, che nella sua mente si associa strettamente con la Bibbia, con la poesia e con la loro interpretazione, a scapito del razionalismo aristotelico il quale, suggestivamente, non trova spazio in Inferno I .
Ciò che emerge da una lettura di Inferno I è il carattere ibrido della Commedia - fatto che offre una spiegazione del perché Dante abbia legato il primo riferimento al titolo e al genere della sua «comedia» all'apparizione del mostro triforme Gerione . Tale ibridismo non è solo da associare col ben noto plurilinguismo della Commedia, anche se questo è indubbiamente il suo tratto più vistoso, ma è pure da ricercarsi nell'ambizione dantesca di far giudicare il suo poema rispetto a quell'universo di segni divini, umani, bestiali e naturali che costituivano l'immagine di base che il Medioevo aveva del reale. Andare oltre la sfera letteraria offriva il mezzo grazie al quale Dante poteva rivendicare per la Commedia quel ruolo attivo nella storia che, normalmente, era al di là delle possibilità di un libro scritto da un autore umano. Offriva pure il modo - come si è spiegato nel secondo capitolo - per suggerire la posizione privilegiata che la poesia e, specificamente, la Commedia potevano legittimamente aspirare ad avere nella vita dell'umanità. I debiti che Dante ha nei riguardi della Bibbia e della sua allegoria sono enormi. Nessun scrittore umano poteva donare al poeta la possibilità di travalicare i confini della letteratura e, quindi, di intervenire in maniera diretta nella storia provvidenziale. Allo stesso tempo, come si è già accennato, senza l'esempio concreto di questi altri autori, egli non avrebbe mai potuto comporre la Commedia. Alludendo a loro e alle loro opere, Dante ci ricorda, sì, i limiti della scrittura umana, ma anche i suoi tantissimi pregi. Inoltre, la presenza continua della letteratura nelle terzine della Commedia dimostra che occorre considerare con grande cautela e accuratezza i modi in cui l'allegoria in factis funziona nel poema. Essa non va estesa indiscriminatamente all'opera nella sua totalità, ma solo a quelle parti che descrivono direttamente il viaggio. Per esempio, è chiaro che non bisogna applicarla alle res che Dante evoca con quel suo uso massiccio di metafore, similitudini e di altri tipi di immagine, che appartengono chiaramente al campo retorico-letterario dell'allegoria in verbis.
Nella Commedia, e con Inferno I in testa, Dante dimostra come un poema possa diventare «sacrato» e possa veramente essere il frutto di un atto creativo «al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2). In un mondo in cui Dio era considerato forza attiva e onnipresente, l'idea che, miracolosamente, un individuo fosse chiamato a rivelare la volontà divina, cioè da funzionare da vestigium sacro, non era un fatto controverso. Dio, come tutta la storia testimoniava, aveva fatto ricorso ai signa più svariati per comunicare con le sue creature. Con la Commedia, Dante si pone energicamente sulla scia di questa ricca corrente simbolistica, anche se poi, nel foggiare il proprio signum poetico, egli riesce a rinnovare la tradizione, tanto quella semiotica quanto quella letteraria, in modi inaspettati. Nondimeno, è cruciale riconoscere che lo sperimentalismo dantesco non oltrepassa mai i limiti della convenienza teologica. Egli riesce a compiere la sua operazione nella Commedia entro una struttura ideologica la cui ortodossia è la sua migliore difesa. La vertiginosa audacia e sottigliezza dell'Alighieri, veramente unica nella storia della cultura occidentale, ci toglie ancora oggi il fiato; e non stupisce che i lettori trecenteschi abbiano preferito rimuovere ciò che Dante e la Commedia suggerivano.