Dati bibliografici
Aurore: Daniele Maria Pegorari
Tratto da: «Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri»
Numero: III
Anno: 2003
Pagine: 95-105
La recente ristampa della celebre raccolta di Studi su Dante di Erich Auerbach, curata e in parte tradotta da Dante Della Terza nel 1963 per i tipi di Feltrinelli, suggerisce di tornare a fare il punto su un lavoro protratto, come si sa, per circa un quarto di secolo, dal 1929 della monografia berlinese Dante poeta del mondo terreno al 1954 del saggio californiano Gli appelli di Dante al lettore, attraverso il quale la critica dantesca, pur richiamata alla sua rigorosa radice filologica, si apre agli scenari più complessi e straordinari della storia dello stile e della mentalità del genio medievale. Il nuovo taglio ermeneutico, alimentatore dei più grandi risultati cui approderà la dantologia mondiale, e soprattutto anglosassone, durante tutto l’arco del secondo Novecento, si manifesta già nel capitolo introduttivo del suo primo formidabile contributo dantesco, nel quale la fondazione di una poetica del mondo terreno, ovvero la costruzione di una scrittura capace di convocare sul medesimo terreno il complesso delle attività storiche e spirituali dell’uomo, senza mai perdere il contatto con le verità ultime e con la necessità di riconoscere la superiorità della sapienza di Dio sulla saggezza umana, veniva messa in relazione con i suoi sostrati letterari più antichi, individuati nello spazio di mediazione e insieme di superamento del modello epico omerico e di quello tragico sofocleo. Mentre nel primo caso il personaggio è propriamente un eroe, costruttore del proprio destino, e lo sforzo del suo autore è tutto teso verso la caratterizzazione perfetta di ciascun personaggio, al fine di instaurare col lettore un patto di riconoscibilità, talché anche ciò che ci appare modernamente inverosimile è, però, credibile perché necessario e concretamente determinato, nella tragedia greca il «carattere» è, invece, totalmente subordinato al suo «destino» universale, anzi la sua stessa vicenda si svolge senza alcuna pretesa di modificazione di un fato ch’è già previsto e prefissato: la tragedia ha, dunque, il compito precipuo della dimostrazione della volontà superiore e immodificabile degli dei, nonostante e persino contro l’aspirazione degli uomini a conservare uno spazio per la propria individualità.
Se poi nel tempo della sofistica e del pensiero presocratico la letteratura aveva, secondo Auerbach, smarrito l’interesse per l’unità del personaggio, per la sua concretezza e immediatezza, così come avevano accantonato la fiducia in una verità certa e dimostrabile attraverso la parola, le riflessioni sull’arte di Platone e, ancor più, del platonismo ellenistico e latino, nonostante la diffidenza per il carattere imitativo della poesia – che avrebbe necessariamente comportato una sua subordinazione alla filosofia –, si erano di fatto tradotte in una riconsiderazione dell’arte e della scrittura «come gradino alla vera bellezza», copie non del fallace mondo fenomenico, ma dell’«idea immanente», custodita nell’anima dall’artista. Ancora più avanti si sarebbe spinto Aristotele riconoscendo alla poesia, proprio in quanto processo creativo, un vero e proprio statuto filosofico, perché corrispondente alla continua «autorealizzazione dell’essenza nei fenomeni» che costituisce il nucleo del suo pensiero. Quanto, però, al complesso rapporto fra carattere e destino, la tarda antichità si era attestata sulla predicazione stoica ed epicurea dell’autonomia del singolo di fronte ai casi del mondo esterno, il che vuol dire, sul piano della creazione letteraria, l’ipotesi di un personaggio che per sottrarsi al destino rinunci anche ad essere carattere, cioè ad essere determinato dagli affetti e dalle aspirazioni. Una vera e propria ricucitura dello strappo fra personaggio e destino si avrà solo con Virgilio (che non a caso sarà scelto come principale maestro da Dante), autore, tanto con la iv bucolica quanto con l’Eneide, di una sorta di capovolgimento della tradizione greca del personaggio e della virtù, facendo del suo Enea, perdente e senza patria all’inizio della sua avventura, un anti-Ulisse e insieme, sembra di poter dedurre dalle parole di Auerbach, un anti-Edipo, destinato, proprio per via e non a discapito dell’esaltazione delle sue qualità di «carattere», a una sorta di finale vittoria che ne riscatti le sofferenze.
E come tale verrà accolto e commentato il capolavoro virgiliano nel Medioevo cristiano, allorché poté apparire profetico rispetto al modello di uomo rappresentato da Cristo, umile e concretissimo personaggio, perseguitato, processato e infine condannato a morte con l’esecuzione più infamante dell’antichità, ma riscattato non solo dalla Resurrezione, ma dal modo stesso della morte, che ne rivela la vera identità divina («Veramente quest’uomo era Figlio di Dio», esclama smarrito il centurione dinanzi alla croce, secondo Mc 15,39, Mt 27,54 e, con qualche variante testuale, Lc 23,47); in Enea come in Gesù di Nazareth il destino finale non annulla e non prescinde dalla concretezza della storicità dell’uomo, ma fornisce un significato più autentico e rivelatore all’intera vicissitudine umana, rendendola mitica ed esemplare. Il realismo epico e la fatalità tragica si armonizzano in una visione in cui corpo e spirito sono in perfetto equilibrio e si sostanziano reciprocamente.
Se questa è l’eredità che Dante raccoglie dal complesso dell’antichità classica, molto più stringente è il suo rapporto con la più recente poesia profana romanza, cominciando con l’affascinante avventura della lirica provenzale, supremo esempio di una lingua letterariamente giovanissima che si cimenta con la costruzione di una topica e di una poetica intricate e aristocratiche, destinate a restare in parte oscure, in mancanza di quella continuità di tradizione che è essenziale per trasmettere, insieme con le forme, anche gli assetti ideologici che le hanno determinate. La lirica erotica trobadorica si trasmetterà, dunque, solo superficialmente e con vistosi adattamenti a un contesto socio-istituzionale radicalmente diverso, nelle opere dei poeti della Magna Curia e della scuola toscana di Guittone d’Arezzo e Bonagiunta Orbicciani da Lucca, l’iniziatore di quella che forse può essere ricordata come la prima polemica letteraria della nostra storia: si ricorderà, infatti, il suo rimprovero ai più giovani stilnovisti, e a Guido Guinizzelli in particolare, circa la concettosità astrusa e innaturale delle rime d’amore, eccessivamente viziate dai modi retorici trasferiti dalle artes dictaminis alla poesia volgare. Il Guinizzelli, invero, e il secondo Guido poco dopo, si erano affermati con una straordinaria rivoluzione poetica che aveva fatto dell’amore un oggetto di riflessione (in tema di virtù soggettiva e d’indagine della fenomenologia d’amore), prima ancora che un’esperienza esistenziale da affidare al canto e alla perizia dello stile: ma vi erano pervenuti attraverso una costruzione sintattica poco fluente, tesa com’era a inerpicarsi sui sentieri dell’iperbole concettuale o della strenua metaforizzazione, tali da costringere i poeti alla continua ‘ripartenza’ del discorso, attraverso la giustapposizione di membri logico-sintattici slegati e accostati fino al ‘riempimento’ della misura metrica.
È proprio di fronte a questi più recenti esiti che la poesia del giovane Dante manifesta immediatamente la sua novità: non si tratterebbe, secondo Auerbach, di una novità tematica e neanche teorica, almeno fino agli anni della sistemazione della Vita Nuova, bensì di una ben più abile capacità di dominare la materia linguistica, stringendo ciascuna lirica (nella misura preferita del sonetto, che, come ben ha rilevato in tempi più recenti Gorni, è il modulo nascosto di gran parte delle composizioni più lunghe, tanto che lo stesso Auerbach aveva indicato ciascuna stanza di Donne ch’avete intelletto d’amore come “sonetto”) intorno a un solo nucleo tematico – spesso di tono narrativo, come Tanto gentile –, poi elegantemente elaborato con la naturalezza di un discorso in prosa. Si tratta proprio di quella naturalezza frutto, in verità, di artificio e di rigore retorico, che Dante stesso rivendicava per sé nella tarda risposta a Bonagiunta rappresentata dal dialogo con l’anima di questi in Purg. xxiv. L’azione del ‘dittare’ attribuita ad Amore, la sua stessa indicazione come «dittatore» e la reazione del poeta che si limita a ‘notare’ sono tutti termini e concetti che rinviano alla formazione retorico-giuridica e alla professione burocratica, dallo stesso Dante esercitata durante gli anni dell’esilio, ma stanno qui a indicare la nuova direzione della ricerca stilistica dell’autore della Vita Nuova verso uno stile piano e razionale che è parte di quella strategia comunicativa che trova nelle apostrofi, e soprattutto in quelle rivolte al lettore, un ulteriore segno di modernità: e a questo espediente, che supera nettamente i confini del formulario retorico classico e medievale, e toccherebbe semmai i vertici patetici dello scongiuro del par. 208 dell’orazione Sulla corona di Demostene, Auerbach dedicherà proprio il suo ultimo contributo dantesco americano, citato all’inizio.
Per la definizione dell’oggetto della “Commedia” diventa essenziale interrogarsi sulla lunga stagione di sostanziale lontananza di Dante dall’impegno letterario, dal 1293, probabile data finale della sistemazione della Vita Nuova e dell’inizio dei «trenta mesi» di frequentazione delle «disputazioni de li filosofanti» fino al 1303, i cui ultimi mesi sono il terminus post quem dell’inizio del Convivio. Gli studi filosofici presso i francescani di S. Croce e i domenicani di S. Maria Novella (cui fa cenno in Cv ii, xii) e la fiducia nella possibilità di fare della saggezza laica il principio di un’azione di giustizia riformatrice negli ordinamenti comunali per il ripristino dell’equilibrio tra Papato e Impero devono aver ritardato l’impresa del trattato enciclopedico al quale lo scrittore avrebbe voluto affidare la sua missione pedagogica ‘universale’, secondo un’inclinazione che Pasquini (nel commento a Pd ii) avrebbe poi definito «democratica», e la sua fiducia nella facoltà consolatrice della filosofia dinanzi alle avversità della sorte, nel solco tracciato da Boezio e Cicerone, tanto ch’essa si dimostrerebbe in grado di «cacciare e distruggere ogni altro pensiero», compreso quello «del primo amore». Ma evidentemente le mutate condizioni personali, a partire dall’incriminazione nei primi giorni del 1302 e dal fallimento delle sue utopie politiche, fanno avvertire a Dante l’insostenibilità di questo principio, percepito ora come un errore più grave di quello dell’innamoramento per «una gentile donna giovane e bella molto» di cui aveva narrato nei capp. XXXV-XXXVIII della Vita Nuova, che già gli era costato la riprensione da parte di Beatrice, apparsagli in sogno.
Così l’interruzione del Convivio (per ragioni che per Auerbach sono anche legate all’insoddisfazione per la rigidità della struttura del commento ch’egli aveva scelto per il trattato e per l’inefficacia della prosa volgare) si spiega con la necessità d’intraprendere un cammino di ‘ritorno a Beatrice’, i cui fondamenti sono nella stessa curvatura religiosa impressa da Dante allo stilnovo all’altezza della Vita Nuova e il cui punto d’approdo è significato dal rimprovero della donna nel finale di Purg. XXX e dal conseguente pianto di pentimento del pellegrino all’inizio del canto successivo. Opera, dunque, parentetica e destinata alla palinodia, il Convivio è tuttavia l’occasione per una puntualizzazione del significato della scrittura come «polisemos, hoc est plurium sensuum», secondo si legge nell’Epistola a Cangrande, la cui dubbia paternità non impedisce ad Auerbach di considerarla per un verso in linea con la definizione dei «quattro sensi» di Cv II, i, per l’altro uno strumento utile per l’avviamento alla lettura non solo del Paradiso, ma dell’intero poema. Dall’individuazione di una sorta di ‘stratificazione semantica’ quale obiettivo di un’opera che intende assumere i connotati propri della Sacra Scrittura, Auerbach deriva, infatti, l’idea di un triplice «sistema» – fisico, morale e storico-politico – capace di tenere insieme l’ambizioso programma di un’‘enciclopedia’ in versi, non solo più fluente e persino più comunicativa del precedente progetto in prosa (mirabili sono le osservazioni sull’esattezza cristallina degli enunciati della Commedia, perfettamente corrispondenti alla misura endecasillabica), ma soprattutto più rispondente alla necessità di dimostrare l’armonia di una sapienza in sé unitaria e perfetta, le cui relazioni interne sono salvaguardate dai rinvii intratestuali e dalle molteplici simmetrie che fanno della Commedia (sia detto con tutta la prudenza che il caso richiede) un ipertesto ante litteram: intendo un testo che consenta una lettura multipla e non necessariamente o non esclusivamente lineare, come la stessa nozione auerbachiana di lettura figurale (maturata poi in quella singletoniana di visuali retrospettive) sembra consentire e incoraggiare.
L’individuazione di tale «sistema» multiplo è l’approdo più interessante del volume del 1929, dal momento che pare esplicitamente rivolto a rifiutare la lettura decontestualizzante e refrattaria alla comprensione degli elementi strutturali e ideologici tipica dell’estetica crociana, così influente sulla scuola stilistico-filologica tedesca dalla quale lo stesso Auerbach proviene. Illuminante a riguardo è il passo seguente: «i suoi competenti interpreti filosofici ne estraggono le cosiddette bellezze poetiche, e le apprezzano come un fenomeno puramente sensibile, ma lasciano da parte il suo sistema e la sua dottrina, anzi tutto il suo ‘oggetto’ come cosa indifferente, in certo modo bisognosa di benevola giustificazione. Oggetto e dottrina della Commedia non sono una parte accessoria, ma la radice della sua bellezza poetica». Entro questa struttura il filologo tedesco riesce a inserire persuasivamente l’immagine di un ‘personaggio-uomo’ (avrebbe detto Debenedetti) concreto, storico, direttamente preso dalla viva realtà del suo tempo e, insieme, connesso a un destino sovrannaturale in cui il corso degli eventi più non ha luogo: l’uomo di Dante è un’immagine sintetica, non un frammento, l’intera sua storia terrena è significata da un solo gesto o da una sola parola esemplari, non da un episodio casuale.
Comincia ad agire già in questa riflessione sulla relazione fra tempo individuale trascorrente ed eterno presente escatologico un embrione della più nota acquisizione teorico-letteraria di Auerbach, quella figura che stringe in una sintesi significante una bipolarità che nella letteratura antica si manteneva distinta nella più comune nozione di profezia. Se, infatti, la profezia è illuminazione del futuro, che solo ha statuto di rivelazione e dispiegamento di senso, la figura dantesca, maturata attraverso l’esegesi biblica e patristica, è un dato reale cui si riconosce piena consistenza di verità e parimenti è orientata al suo pieno compimento in un tempo futuro che ne fisserà per sempre il valore: ebbene se il luogo precipuo della messa a punto di questa teoria della scrittura sarà la complessa voce Figura, redatta nel 938 per il vol. xxii dell’«Archivum Romanicum» di Bertoni, che segue un metodo storico-linguistico e semantico, giungendo alle pagine più convincenti nei capp. III e IV dedicati all’origine dell’interpretazione figurale nell’abitudine esegetica dei Padri della Chiesa e poi al suo sviluppo nella scrittura medievale e in particolare nell’opera di Dante, la radice di questa concezione ermeneutica è nell’elaborazione del rapporto tra storia e teleologia messa a punto da Auerbach nel volume del 1929. D’altra parte che il poeta intendesse trasformare la concezione figurale (o anagogica, a voler usare il termine che lo stesso Dante aveva proposto, non senza qualche opacità teoretica, tanto nel Convivio quanto nell’Epistola a Cangrande) da metodo interpretativo a prassi compositiva, collocando il suo poema sul piano stesso della Sacra Scrittura, risulta evidente anche nello stesso linguaggio adoperato, quel registro umile o medio ch’egli trovava attestato proprio nella scrittura evangelica e nei Padri della Chiesa.
Punto di partenza delle riflessioni di Auerbach nel saggio Sacrae scripturae sermo humilis del 1941, è quel «dir soave e piano» riferito al linguaggio di Beatrice in Inf. II, 56 in cui sono finalmente correlate la dolcezza dell’espressione (indicata da quella suavitas che già Bernardo di Chiaravalle individuava quale caratteristica del linguaggio della Sacra Scrittura) e la semplicità della sintassi e del lessico che è lo specifico del Nuovo Testamento, cui gli eruditi pagani rimproveravano un sermo piscatorius. Sembra esserne consapevole lo stesso sant’Agostino che, in bilico fra nobilissima formazione retorica latina e folgorazione del nuovo sublime cristiano, riconosce nello stile dimesso del Vangelo la forma più corrispondente alle necessità del racconto dello ‘scandalo’ cristiano, presso un pubblico di semplici e incolti. Dall’educazione al linguaggio di Cristo e degli evangelisti Dante ricava la sua nuova nozione di commedia, non già come opera di contenuto basso o leggero, ma, al contrario, come opera che, mentre fa mostra della propria inferiorità al canone tragico espresso dalla letteratura classica, di fatto lo compie ‘figuralmente’ e lo supera attraverso l’individuazione di un genere letterario nuovo, costituzionalmente ibrido nella sua scommessa di tenere insieme quel «cielo» e quella «terra» che «han posto mano» al «poema sacro», secondo la sua più compiuta definizione nel celebre incipit di Purg. XXV. La messa a punto di uno stile ‘medio’ è, dunque, quanto occorreva a Dante per elaborare un poema che sapesse presentarsi come scrittura dottrinale, sulla base di quella rivendicazione del ruolo di teologo autentico che appare essere, se non altro, il triplice esame sulle virtù teologali nei canti xxiv-xxvi del Paradiso.
Il saggio Figura del 1938 illustra proprio il costituirsi in Dante di quella dimensione scritturale del poema, attraverso una storia di questo termine, a partire dalla sua radice latina e dalla sua individuazione all’interno di una più ampia serie semantica, nella quale ‘figura’ appare il punto d’intersezione fra la sfera della visività e quella della retorica, senza trascurare il confronto con possibili analoghi precedenti della lingua greca. Grazie a questo approccio, che porta Auerbach a misurarsi con una vasta quantità di fonti letterarie, il filologo può seguire il formarsi della differenziazione – in termini di teoria della letteratura e di classificazione retorica – fra l’allegoria (quella che Dante in Cv II, i specifica come allegoria «de li poeti») e la figura, appunto, termine mai così pregnante ove occorra nella Commedia, nel Convivio (per non dire della Vita Nuova e delle Rime) ma corrispondente a quella nozione di «profezia reale» che nel già citato capitolo del Convivio Dante doveva avere in mente quando accenna all’esistenza di un modo allegorico tenuto da «li teologi» e che, quando «per le cose significate» rinvia a «le superne cose de l’etternal gloria», sconfina nel «sovrasenso» detto «anagogico». Dopo aver dimostrato l’uso del termine ‘figura’ come corrispettivo del greco typos, soprattutto nelle lettere paoline in cui eventi dell’Antico Testamento (la peregrinazione nel deserto, la nascita di Isacco e il conseguente allontanamento di Ismaele, le norme rituali previste dalla legge mosaica, gli olocausti, la stessa creazione di Adamo) vengono interpretati come ‘profezie reali’ della Buona Novella, Auerbach passa a considerare l’autonoma creazione da parte di Dante di un’opera in cui non solo si affaccino personaggi ed episodi pagani a figurare realtà spirituali nuove (ed è appena il caso di ricordare, in proposito, il ‘monumentale’ riuso di Virgilio, ma anche quello più concentrato e forse per questo più complesso del Catone purgatoriale), ma addirittura determinate creazioni dantesche siano originalmente pensate per un loro disvelamento progressivo. È il caso, in particolare, di Beatrice, e non solo relativamente alla sua apparizione e alla sua allegorizzazione nella Commedia, ma persino nella sua prima collocazione vitanovistica, laddove la simbologia del ‘nove’ (impostata dai capp. II e III e perfezionata nel XXIX), allusiva di un miracolo (cui rinviano i versi di Tanto gentile), la sua apparizione in visioni (formidabile quella della sua profetica assunzione in cielo del cap. XXIII, con tanto di eclissi solare, terremoto e canto dell’Osanna, che non possono non attivare la memoria della Passione; ma ancor più sofisticata quella del capitolo successivo in cui Beatrice si fa precedere dalla bella Giovanna, come Cristo dal Battista) ne costruiscono progressivamente e inequivocabilmente un’agiografia, in cui ogni gesto compiuto contiene prefigurazioni di significati che si adempiono in un tempo futuro.
Mi pare, però, che non sia stato sufficientemente rilevato che quando Beatrice viene trattata come «figura Christi» – e lo stesso dovrà dirsi di san Francesco, attraverso il ritratto che ne fa san Tommaso nel Canto XI del Paradiso, al quale Auerbach dedica la più completa delle indagini testuali del suo magistero dantesco – il filologo sposta ancora in avanti il concetto di figura. Se, infatti, le letterature pagana ed ebraica possono senz’altro, in una chiave figurale, essere intese come profezie dell’avvento di Cristo e del Regno di Dio, attribuire la stessa funzione ad eventi storicamente successivi all’Incarnazione – come, appunto, le storie di Francesco e Beatrice – comporta una sorta di capovolgimento prospettico, per cui, se da un lato alcuni segni di quelle vite appaiono premonitori dell’alto destino loro assegnato e del valore di exemplum che ad essi è attribuito a tutto vantaggio dei posteri, la rappresentazione della «gentilissima» e del santo d’Assisi come ‘ripetizioni’ di Cristo ha il valore magico di una profezia al contrario, che dal futuro storico, cioè, conduce al passato: se vedo bene le implicazioni teleologiche che l’applicazione del metodo figurale ha in Auerbach, mi pare che ciò sia possibile perché queste nuove figure di Cristo – e con esse tutte quelle che la storia dell’umanità potrà ancora rivelare – mantengono pure una funzione anticipatrice, rispetto tanto al pieno dispiegamento del Tempo di Dio (in cui consiste tutta la storia dell’uomo dopo l’Incarnazione) quanto al secondo e ultimo avvento di Cristo che, così, incornicia e dà adempimento alla Creazione. Credo di dover dire, però, a distanza di oltre quarant’anni dalla prima edizione italiana degli Studi su Dante e più di mezzo secolo dagli Ultimi studi che occupano la sezione conclusiva del volume, che la capacità persuasiva delle osservazioni auerbachiane perde di smalto nel passaggio dalle grandi elaborazioni teoriche degli anni Venti-Trenta (incluso il saggio sul sermo humilis del ’41) alle applicazioni del figuralismo ai singoli luoghi della Commedia, risalenti agli anni Quaranta-Cinquanta.
Il che può considerarsi un curioso paradosso per un critico che deve la sua fama alla robustezza della sua formazione stilistica e della sua professione filologica: eppure delle diverse obiezioni mosse da Auerbach alle interpretazioni più ricorrenti e consolidate di alcuni passi danteschi contenenti citazioni bibliche non ve n’è una, credo, che abbia seriamente messo in discussione il patrimonio esegetico, al punto che quasi non se ne trova traccia nei commenti più completi (per non dire delle edizioni scolastiche) e nella stessa Enciclopedia dantesca, dove, peraltro, la stessa voce Auerbach di Luciana Martinelli è molto contenuta e prudente e la voce Figura di Fernando Salsano non è che un’utile rassegna delle occorrenze del termine nell’opera dantesca (dove esso ha il valore complessivo per nulla problematico di ‘immagine percepita’), mentre all’«interpretazione figurale» è riservato solo un rapido cenno con rinvio all’opera del romanista tedesco. Si direbbe che, profuso un notevole impegno nella considerazione degli aspetti strutturali e della contaminazione delle fonti classiche e scritturali nel poema, dando così un contributo formidabile a un serio ribaltamento dell’intuizionismo estetico di Croce, lo studioso si sia improvvisamente irrigidito al contatto diretto con i testi, concentrandosi su passi molto circostanziati e disdegnando letture complessive dei canti: non è, infatti, una lectura neanche il saggio su san Francesco che pure è quello più esteso dell’ultima stagione.
Basti qui ricordare la posizione assunta a proposito dei vv. 10-32 di Purg. XXX, laddove lo studioso nega che l’invocazione «Veni sponsa de Libano» possa essere rivolta alla stessa Beatrice, alla quale si riferirebbe, invece, il solo saluto cristofanico «Benedictus qui venis», sulla base della considerazione che il lettore medievale avrebbe accettato, sì, di pensare a Beatrice come una figura imitativa di Cristo, a patto, però, di non essere spiazzato dall’appellativo di «sponsa» che gli esegeti del Cantico dei cantici spiegavano come allegoria della Chiesa futura che si avvia alle nozze mistiche con Cristo. Un’obiezione che contrasta con tutta l’evidenza della scena (non è la vicenda di un incontro fra due diverse figure quella che si descrive e i ventiquattro seniori, che, su invito di «un di loro, quasi da ciel messo», rivolgono per tre volte il saluto sponsale, guardano proprio in direzione del carro sul quale sta per apparire, fra un profluvio di fiori, Beatrice) e che non ignora ma sottovaluta quel passo finale di Cv II, xiv in cui Dante stesso aveva interpretato la medesima sposa del Cantico come allegoria della «divina scienza», agevolmente trasferita nella Commedia proprio nella figura di Beatrice, insieme imitatio Christi e allegoria della teologia: il fatto che, a differenza di quanto avviene in questo passo del Convivio, in Purg. XXX Dante non dichiari ‘esplicitamente’ di voler usare quell’appellativo con valore difforme rispetto alla consuetudine esegetica e predicatoria, appare al filologo bizzarramente ostativo, come se non ci avesse insegnato proprio lui, Auerbach, che numerose volte il poeta sottintende la conoscenza delle sue precedenti opere, consegnando ai versi della Commedia una frequentissima funzione ora di adempimento ora di confutazione di segni disseminati tanto nella Vita Nuova quanto nel Convivio. Il fatto è che il Cantico dei cantici con la sua tradizione esegetica è un vero e proprio punto forte della conoscenza biblica e patristica di Auerbach, condizionando la sua interpretazione di alcuni passi, al punto da ipotizzarvi continui riferimenti occulti, limitando l’autonomia di Dante, anche laddove il buon senso suggerirebbe soluzioni più semplici.
È il caso, ancora, di Par. XXVII, 136-138 («Così si fa la pelle bianca nera / nel primo aspetto de la bella figlia / di quel ch’apporta mane e lascia sera»), in cui la più consolidata interpretazione che ne fa una similitudine della corruzione umana nei termini del mutamento della carnagione al contatto diretto con la luce solare (e per effetto, aggiungerei, del passare del tempo, come suggerisce un confronto con la celebre perifrasi di Purg. II, 7-9 e con il carattere dell’invettiva delle terzine immediatamente precedenti), con probabilissima allusione mitologica a Circe, «solis filia» per Virgilio (Eneide vii, 11) e Ovidio (Metamorforsi XIV, 346), quale allegoria degli allettamenti terreni, viene invece sbrigativamente accantonata in favore di una difficile identificazione «de la bella figlia» con la «sposa» del Cantico, al fine di limitare la rampogna alla sola denigratio della Chiesa; ma per far questo diviene necessario fare «de la bella figlia» non l’agente dello scolorimento, bensì il complemento di specificazione della «pelle bianca», costringendo l’ordine sempre controllato e razionale delle parole della Commedia ad una forte e sgradevole anastrofe nel v. 137. Per non dire della immotivata individuazione nel medesimo passo del paragone fra la «sposa» e la «pelle di Salomone» e di qui, attraverso il ricorso al commento allegorico contenuto in un sermone di san Bernardo, la spiegazione dell’intera immagine come oscuramento del cielo! L’incondizionato credito che Auerbach riserva alla patristica lo induce, poi, a seguire lo pseudoEucherio nell’interpretazione della morte di re Saul (1 Sam 31, 1-4) come figura di quella del Messia, introducendo un elemento di contraddizione nella teoria dell’exemplum morale seguita da Dante per le figurazioni del Purgatorio che richiede che Saul nel canto xii sia unicamente esempio di superbia (e di quel tipo di superbia che, proprio come in Ulisse, dopo aver caratterizzato tutta l’azione di governo del re, si ritorce contro lo stesso peccatore, conducendolo alla morte senza l’intervento divino).
Ben diversamente argomentate e, pertanto, più persuasive appaiono le osservazioni condotte a proposito dell’interpretazione del sogno dell’aquila e del ratto di Ganimede in Purg. IX, 13-31 e soprattutto l’ampia analisi dei modelli (più che delle fonti) della preghiera di san Bernardo alla Vergine in Par. XXXIII, 1-39, della quale il critico prende in considerazione esclusivamente le prime sette terzine, mostrando come il poeta abbia tenuto presente non solo tutta la tradizione mariologica (di cui lo stesso Bernardo di Chiaravalle, con i sermones sulla Natività e sull’Assunzione della Beata Vergine Maria, è uno degli autori principali), ma soprattutto l’antico genere degli «elogi», seguendone le trasformazioni dall’antichità classica e giudaica, fino alle dossologie cristiane, nelle due principali varianti medievali, quella più arcaica, prevalentemente astratta e figurale e quella più popolare e realistica, culminata nella lauda jacoponica. La densità e ‘necessità’ dei ventuno versi di questo elogio (pochissimi se si tien conto del fatto ch’essi prendono il posto di un ‘impossibile’ incontro con la Vergine o di un’ingenuamente superflua leggenda mariana) sono un’efficace conferma dell’abilità di Dante di tenere insieme rigore dogmatico e storia dell’umanità in un quadro di definitivo equilibrio e di complicazione. Ed anche Auerbach mi pare raggiunga in queste pagine californiane del ’49 l’esemplare più nitido, completo e maturo del suo metodo di commento alla Commedia: la sua filologia si allontana dall’ecdotica e diviene studio della tradizione dei modelli, attraverso la quale può cogliere la vastità degli echi e delle suggestioni presenti nel capolavoro italiano e insieme segnalarne gli scarti e individuarne gli statuti fondativi della letteratura moderna.