Dati bibliografici
Autore: Vittorio Cozzoli
Tratto da: Lectura Dantis 2002-2009 omaggio a Vincenzo Placella per i suoi settanta anni
Editore: Università degli Studi di Napoli L'"Orientale"
Anno: 2011
Pagine: 817-845
Inizio questo mio contributo allo studio della polisemia dantesca, o meglio, 'secondo Dante', con una speranza: che la presente Leciura Dantis, promossa dall'Università "L'Orientale", sia posta sotto il segno, così propizio e liberatorio, dell'«oriental zaffiro» (Purg. I, 13), pietra capace di liberare l'allegoria propria di Dante dai vari «Aegypti» ideologici e metodologici, in cui essa ancora si trova, tenendo in esilio la parte più significativa e bella del suo messaggio.
Perciò l'allegoria secondo Dante risulta ancora così: o come 'prigioniera', cioè impedita dal dire ciò per cui è stata da Dante scritta col proprio sistema polisemico; o come 'ridotta' e perciò riduttiva rispetto alla pienezza della sua unitaria significazione; o come 'equivocata', intendendola i più secondo gli statuti della Retorica, classica o medievale, ma non certo secondo la dichiarata 'intentio auctoris', che la connota spiritualmente, cioè portatrice di una significazione apocalittica, profetica; o 'forzata' su devianti percorsi esoterici o pseudoesoterici, e comunque eterodossi, perciò forzata a restituirsi secondo una dottrina che non è certo quella di Dante. Il quale, ricordiamolo, altro intende col suo «muovemi desiderio di dottrina dare la quale altri veramente dare non può» (Cv. I, i).
Può affermare questo perché la conoscenza della realtà 'altra', da cui l'allegorico, gli viene, in primis, non da studi filosofici e teologici (di cui, a posteriori - soprattutto nel Convivio - si servirà per comunicare razionalmente con gli uomini), ma da diretta esperienza dovuta alla sua «spezial» condizione e ai numerosi episodi carismatici, di cui dà ampia testimonianza, a partire dalla «vita nova» carismatica. Farà tornare l'attenzione su questa personale condizione «spezial» nel II del Convivio, dove spiega «la novitade de la mia condizione» (Cv. II, vi) e lo «spezial pensiero a quello atto» (Cv. vii), idoneo cioè a 'portarlo su' (anagogicamente per via mistica) in cielo, là dove sa che vive Beatrice. Non ha dubbi né sulla realtà del «cielo» (lo spirito) né su quella del trovarsi lì la Beatrice. Di questo è così certo da esprimersi con queste sconcertanti parole: «perché io era certo, e sono, per sua graziosa revelazione» (Cv. II, vii). Certo, sconcertante per la nostra ragione, ma egli sa cosa sta dicendo, e perché.
Noi possiamo non credergli litteraliter ma solo allegorice, ma non possiamo non tenere conto del fatto che Dante non procede nel1' allegorico se prima non ha dato fondamento alla propria allegoria per mezzo della 'lettera'. E della 'lettera' ha una concezione che si fonda su una concezione della Storia diversa dalla nostra attuale.
Egli può «dottrina dare la quale altri veramente dare non può», in quanto la conoscenza di questa «dottrina», racchiusa nell'unità del proprio sistema polisemico e da esso protetta, non gli viene, in radice, dagli studi filosofici e teologici, cioè da fonti esterne, più o meno iniziatiche, ma, come vedremo seguendolo nell'autotestimonianza (litteraliter et allegorice), da un'assai speciale condizione personale e da episodi carismatici straordinari, senza i quali non sarebbe stata possibile l'autotestimonianza circa la significazione 'anagogica'.
Da qui vengono il suo incessante bisogno di autotestimoniarla e la cura particolare nel guidare i lettori a rettamente intendere, secondo l'intelligenza di ciascuno, il proprio detto. Sapeva, infatti, che solo da qui sarebbe venuto il corretto accessus alla propria opera.
Ecco: l'autotestimonianza di Dante persona diviene autoaccessus alla significazione piena della propria opera, l'unico accesso da lui proposto e difeso.
In Dante la coerenza tra vita e opera trova nell'improvviso «apparuit iam beatitudo vestra» (V.N. II) il proprio fondamento. Unico è il fondamento della vita e dell'opera, unificati dal proprio sistema polisemico.
Solo per questa via è possibile intendere l'allegoria dantesca 'secondo Dante'. Questa via consente di giungere, per quanto possibile a ciascuno, al significato pieno dell'opera di Dante, intesa nella sua unità. È questo, perciò, ciò che più deve stare a cuore ai suoi lettori, specialisti e non.
Bisogna infatti riconoscere, non certo per provocazione ma per doverosa e scientifica constatazione, che la parte più bella e significativa dell'opera di Dante, cioè l'allegoria intesa nella sua polisemica pienezza, è ancora tenuta in esilio da troppa dantologia, a causa di motivazioni che, pur andatesi alternando lungo i secoli, tuttavia persistono.
Non sempre, o assai raramente, la dantologia opera 'secondo Dante', cioè nel rispetto della intentio aucioris, cioè ancora nella pienezza della sua polisemia, che verticalmente vede salire la propria significazione, coerentemente, su su fino all'anagogico.
Così, perché questo accada per ogni lettore di Dante, occorre che la polisemia dantesca, la sua allegoria, riceva il proprio liberatorio dal polisemico versetto del Salmo CXIII «In exitu Israel de Aegypto». Non deve suscitare scandalo l'affermare che, nonostante fiumi di dantologico inchiostro, Dante ancora attende di tornare «in patria», pienamente riconosciuto, cioè come 'Dante anagogico'. Ritorno, questo, da leggersi sia storicamente che allegoricamente.
Questa seconda accezione del rientrare «in patria», come poeta, secondo la pienezza della sua allegoria, indica la speranza di essere letto fino in fondo, cioè fino all'ultima sua significazione, che è anagogica, spirituale, realmente apocalittica e profetica. Se questo non viene riconosciuto, ciò significa prolungare l'esilio di Dante.
Forse non tutti ancora intendono il motivo più profondo che indusse Dante, malignamente condannato e (duplicemente) tenuto fuori dalla sua «patria», a rispondere con queste parole all'amico fiorentino: «Non è questa, padre, la via del ritorno in patria; ma se prima o poi da altri se ne trovi un'altra che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; chè se per nessuna siffatta s'entra a Firenze, non entrerò mai [...]» (Ep. XII, 4).
In discussione Dante qui non pone solo sé come 'guelfo bianco', ma soprattutto come poeta polisemico (non inteso come tale né allora né ancora oggi), cioè riconosciuto nella propria missione scrittoria verso una «patria» che non poteva essere riduttivamente intesa come solo la Firenze storico-culturale. È per questo che si augura l'arrivo del giorno tanto sperato: «Se mai continga», per cui, finalmente, «con altra voce ornai, con altro vello/ ritornerò poeta» (Par. XXV, 1, 7-8).
Ciò significherà l'avvenuto riconoscimento della propria scrittura apocalitticamente e profeticamente polisemica, con la sua sconcertante perenne attualità di significato.
«Patria», dunque, significa non solo la Firenze terrena (Roma è di ulteriore complessità) e la Gerusalemme celeste, ma anche e soprattutto la dantologia, la 'comunità dei lettori', soprattutto a partire dagli esegeti, coloro che dovrebbero sentire più di altri, la necessità filologica di leggere Dante 'secondo Dante'.
Non è il caso, tra esperti, di ricostruire la polisemia dantesca per mezzo dei luoghi in cui egli stesso si preoccupa di fissarla. Sono tutti ben noti, fondandosi su Cv. II, i e su Ep. XIII, 7. Il problema urgente è però un altro: indicare il fondamento del sistema polisemico dantesco, della sua particolare polisemia, da cui emerga la novitas dell'allegoria secondo Dante. Lo dice anche nella Canzone prima del Convivio: «Io vi dirò del cor la novitade» (v. 10); del «cor», la cui realtà in altro luogo spiegherà per vie spirituali e non, come saremmo tentati noi di fare, per vie psicologiche di anima, cioè romantico-sentimentali, o meglio, stilnovistico-cortesi.
Vorrei insistere su questo punto perché per Dante qui si trova il problema fondante, e non per il solo Convivio, la propria allegoria, a partire dall'autocommento, che avrà questa funzione. «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce» (Cv. I, xiii). Assai importante è quest'affermazione, poiché sottolinea un problema che deve essere stato 'movitore' di Dante: ri-novare con un «nuovo» lume l'«usato», divenuto il solito. Non è solo una questione di linguaggio che si fa vecchio per trita e ritrita ripetizione di formule che più non sono sentite come vive e operanti spiritualmente, ma occorre 'apocalitticamente' riproporre la realtà 'altra' (l'anima divinizzata, la realtà beatrice, gli spiriti puri e gli incarnati divenuti disincarnati, Dio), cioè la sostanza stessa dell'allegoria affidata alla testimonianza di Dante, e non più di un teologo o di un filosofo. Le loro formulazioni si erano sclerotizzate, non vibravano più, erano ripetute con autorità, ma non entravano nel «cor» degli uomini. Ecco il perché, così necessario, della funzione 'volgare' della lingua, in modo che i più degli uomini non restino esclusi dalla conoscenza delle verità più necessarie all'uomo. È da qui che viene la polisemia dantesca, in modo che, con l'aiuto dell'autocommento, giunga a mostrare la parte più 'nuova' della propria opera.
Dante sa bene che non bastano le tradizionali, classiche, allegorie, fattesi 'vecchie', 'usate', 'solite', ormai incapaci di parlare della realtà 'altra' agli uomini. E vede bene i limiti dei poteri retorici posti di fronte a questa impresa. Tuttavia, per mezzo di un 'nuovo' incipit, porta all'explicit quanto proposto; cosa, questa, che vale anche per l'interrotto Convivio. La sua preoccupazione derivava dal fatto che non era stata intesa, nella sua realtà, l'allegoria della «vita nova» e ora vuole procedere secondo ragione, cioè secondo una più virile esperienza spirituale. Sapeva bene quale fosse la differenza fra «la mia diversitade» e la naturale condizione dei comuni uomini. Perciò: «Però si mosse la Ragione a comandare che l'uomo avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che 'ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire ne faccia da quello che lungamente è usato'» (Cv. I, x). Cosa che vale anche per noi, dovendo passare dall'usato Dante al rinnovato per mezzo di Dante stesso.
E la res nova di Dante è Beatrice, proiezione in una donna della 'realtà beatrice', l'anima divinizzata, lo spirito. Sembrerebbe scandaloso e provocatorio affermarlo, ma fino ad oggi ancora in esilio rimane questa allegoria 'secondo Dante', che la vuole piena, percorsa fino in fondo, cioè fino all'ultima significazione sua, che è anagogica.
Due note, a questo proposito. La prima è data dalla constatazione che non esiste un commento polisemico, uno che aiuti il lettore ad intendere Dante secondo i livelli di significato propri del suo sistema polisemico. Non si trovano, infatti, note che aprano il lettore alla significazione spirituale. La seconda, non però di secondaria importanza, è data dalla constatazione che Dante è l'unico scrittore a servirsi della polisemia biblica, quella degli scrittori ispirati e canonicamente riconosciuti.
Vedremo, a questo proposito, come l'allegoria biblica e quella dantesca finiscano, sia pure attraverso diversi procedimenti, per dire la stessa cosa e per ri-portare il lettore «in patria».
Tornare «in patria» significa in primis per Dante il ritorno dell'uomo in Dio, ma anche essere finalmente accolto nella pienezza del proprio altissimo dire, poetico e profetico, dato che la missione scrittoria affidatagli (col «ritornato di là, fa che tu scrive», Purg. XXXII, 105) è «in pro del mondo che mal vive» (Purg. XXXII, 103).
La definizione di tutta la propria missione scrittoria, cioè di quasi tutte le sue opere, e non della sola Comedìa, è così espressa da Dante, che scrive a Cangrande per affidargli la difesa, anche materiale, della propria opera: «Finis totius et partis esse posset et multiplex, scilicet propinquus et remotus» (Ep. XIII, 15); «multiplex» va inteso in senso polisemico.
Non solo la Comedìa, ma anche il Convivio serve a riportare «in patria», cioè «al suo principio», sé ed il proprio lettore. Si pensi, a questo proposito, al valore di una pagina come quella del libro IV, soprattutto a quel passo che inizia con queste parole: «[...] lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la nostra natura dato, è lo ritornare a lo suo principio» (Cv. IV, xii).
Dice questo non spinto dalla reminiscenza e dai suggerimenti platonici, ma sulla personale reminiscenza della fenomenologica, carismatica personalmente 'patita'. Si tratta di quella che, avendogli rivelato in «vita nova» l'innamorante bellezza dello Spirito, lo richiamava al Dio, che l'aveva creato a propria immagine e somiglianza. Da qui gli viene la conoscenza dell'unità della realtà, che solo la polisemia può tenere unita nelle sue parti, o dimensioni, o livelli di valore e di significato.
Il suo sistema possiede l'unità di statuto del simbolo, in quanto intende riferirsi a quell'unità della realtà che è stata separata dalle conseguenze dell'in exitu dall'Eden di Adamo. A questa realtà, sia pure figuratamente espressa, Dante, e non solo perché cristiano medievale, crede fermamente. La disunione con Dio è la stessa disunione che patisce tra sé e sé. Dall'unità, divenuta dualità, derivano gli opposti, che, a loro volta, si faranno strumento della provvidenziale 'divina pedagogia degli opposti': aldiquà e aldilà, visibile e invisibile, temporale ed eterno, umano e divino; e, ancora, lo scendere e il risalire, e così via.
Dante fa carismatica esperienza del materiale e dello spirituale, dell'aldiquà e dell'aldilà, deIIa verticalità, scendendo nel 'basso' e risalendo a II" alto'.
La divina armonica unità vivente, che Dante ri-troverà ri-entrato nell'Eden, viene ri-conquistata a partire dal «mi ritrovai per una selva oscura», che non può, polisemicamente, essere ridotta al solo stato morale di prigionia del peccato, dato che, spiritualmente intendendo, la parte divina dell'uomo, la realtà beatrice, Io spirito, si trova a vivere dentro un corpo (selva fatta di alberi-istinti) e patisce il suo condizionamento e soprattutto il suo limite, nonché il suo 'buio'.
Ogni figlio di Adamo - e Dante Io conferma con la sua opera, ma soprattutto durante il dialogo con Adamo, nel XXVI del Paradiso, quando lo chiama «Figliuol mio» - eredita un'esperienza di dualità, ma soprattutto di quella 'separazione' che impedisce all'aldiquà-nei-sensi di vedere l'aldilà-dai-sensi. Ne deriva agli uomini la tentazione di intendere l'aldiquà non come una parte della realtà, ma come la stessa totalità.
A Dante è dato - per speciale condizione e per straordinaria serie di episodi carismatici - l'esperienza dell'aldilà. La riceve con l'incipit, (da in-capio) inteso come il 'sono preso dentro di me', cioè in quella parte che è lo spirito, l'anima divinizzata così come vissuta dal primo Adamo.
In questo senso, la realtà "nova" e "novissima" è l'al di là dei sensi, presente ma invisibile da parte di essi e percepibile con altri occhi, quelli dello spirito. Ed è 'in spirito' che Dante vive il proprio «Incipit vita nova».
La cura con cui descrive le fenomenologie mistiche della «vita nova» è tutto ancora da intendere e valorizzare. È per questo che vanno rilette con nuova attenzione le autestimonianze e le autoesegesi di Dante, vero autoaccessus alla sua opera.
Perciò, proprio per questa autotestimonianza si deve saper distinguere l'allegoria dantesca dalla allegoresi dantesca: con la prima si intende il significato che Dante stesso afferma presente nella propria opera e volutamente donato ai suoi lettori; con la seconda si intende ciò che si crede possa aver Dante inteso nel proprio detto.
Anche per questa via va rinnovato l'atteggiamento nei confronti dell'allegoria dantesca: non più solo dipendente dagli statuti retorici, antichi e medievali, ma da ora in poi dalle fenomenologie che gli consentono di avere più diretta esperienza della realtà altra e di darne figurazione, la fictio.
Ecco il sistema polisemico, ecco la sua capacità di strutturare l'unità di quella realtà che 'di là' Dante vede (realtà) e 'di qua' scrive (fictio). Si tratta di qualcosa di più del consueto apporto tra significante e significato. Ora il significante è la fictio, il significato è la realtà.
Sappiamo, però, che, nonostante la straordinarietà delle esperienze, «tanto giù cadde» da aver necessità, per essere salvato, di un nuovo incipit, l'«Incipit comedìa». Il quale è di Dante, suo personale («mi ritrovai»), non sapendo se anche gli altri uomini si ritrovino «per una selva oscura».
Anche l'«Incipit comedìa» è straordinario. Questa straordinarietà, provvidenziale, era tale perché straordinario era stato il suo primo incipit.
Allegorico, dunque, è anche questo secondo incipit, da porre sullo stesso piano carismatico del primo, e dunque non da ridurre a solo incipit retorico. Il primo lo introduceva nella «vita nova», il secondo nella 'novissima', quella finale dei 'novissimi' (morte, giudizio, inferno, paradiso).
Tutto questo è non solo autotestimoniato da Dante, ma fortemente difeso perché non si credesse, né allora né oggi, che il suo fosse solo il frutto creativo di un'esperienza fantastica, poetica, immaginaria.
Egli, tuttavia, ben sapeva che l'esperienza della realtà 'altra', quella dello spirito, può solo indirettamente essere fatta vedere. Essendo immateriale, lo Spirito deve essere in qualche modo 'incarnato', proiettato in figure in modo da poter essere intuito nel suo significato e valore da parte degli uomini (che sono spiriti incarnati).
Quello di cui dà relazione è, infatti, una realtà che, per essere scritta deve farsi fictio; di più, una fictio governata da un sistema polisemico per mezzo del quale i lettori avrebbero misurato non solo la propria personale situazione 'allegorica', ma anche la propria personale capacità di lettura, seguendo il Dante polisemico fin dove fosse stato loro possibile. Certo, Dante non avrebbe difeso la propria esperienza mistico-carismatica e la propria conseguente allegorica polisemia se si fosse trattato di difendere un'opera unicamente letteraria. Se ciò non fosse stato, non avrebbe scritto, con forza autotestimoniante, alcuni passi dell'Epistola XIII a Cangrande, quelli dove più sottolinea la realtà del proprio «altro viaggio». Eccone alcuni: «Ma a noi cui è concesso di conoscere l'ottimo che è in noi (Ep. XIII, 2) [...] Poichè dunque la materia intorno a cui si svolge il presente trattato è straordinaria [...] promette di dire cose tanto ardue tanto sublimi, cioè le condizioni del regno celeste» (Ep. XIII, 19). E dopo aver detto con la sua perifrasi d'essere stato in quel luogo di Paradiso, prosegue dicendo d'aver visto alcune cose che non può ridire chi discende (Ep. XIII, 28).
Sa che non sarà creduto alla lettera e che la realtà dell'esperienza verrà dai più considerata solo poeticamente, per mezzo del ricorso ai topoi consueti per i viaggi nell'aldilà.
Sa che non troverà dantologi disposti a leggere litteraliier il verso «quella matera ond'io son fatto scriba»: «matera» che io - dice Dante - non invento per mezzo di fantasia poetica, ma della quale «son fatto», per missione scrittoria (apocalittica e profetica) «scriba». Termine, quest'ultimo, che non va inteso come riferibile, come nell'antico Egitto, a chi pratica la conoscenza delle cose sacre e difende la sacralità dei misteri; men che meno al semplice trascrittore di cose dettate da altri o, peggio, facente parte dell'ebraica casta degli scribi. Dante allude alla propria missione scrittoria e, senza ulteriormente esplicitarlo, ne dà qua e là testimonianza. Sa di essere uno scrittore altamente, carismaticamente ispirato.
Così come furono chiamati a missione scrittoria i profeti dell'Antico Testamento, Dante, in modo sconcertante quanto autotestimoniato fenomenologicamente, si assimila ai 'profeti' del dopo Cristo, a partire da san Paolo: «me degno a ciò né io né altri crede» (Inf II, 33). Assai interessante è da notarsi il reiterato richiamo a Geremia, a partire proprio dalla «vita nova». Qui per mezzo dell'«apparuit beatitudo vestra» presenta «la gloriosa donna de la mia mente». Non si tratta solo di una donna in carne ed ossa, ma della "donna-domina", che è gloriosa in quanto Spirito nella sua realtà. È per questo che da Geremia viene un'affermazione, che, come scriba, trascrive, ed è oracolo del Signore: «Ormai io, il Signore ho creato una cosa completamente nuova sulla terra: la donna circonderà l'uomo» (Ger. 31, 22).
Solo chi ha intelligenza spirituale comprenderà questa allegoria, che è pienamente dantesca. Ma chi è pronto a credergli? Sa quello che sanno tutti i mistici con missione scrittoria, conosce i loro problemi ed i loro dubbi. E forse è utile ricordare come la stessa Ildegarda di Bingen è invitata ad uscire da tali timori. Così viene detto a lei, fatta scriba: «Non aver paura: dì ciò che senti nello spirito, così come io lo dico per tuo mezzo [...]». Ma Dante è ulteriormente preso dalla propria sconcertante situazione: non è solo ispirato in spirito, ma, ancor più, 'si trova' carismaticamente 'di là'; perciò 'di là' vede e "ritornato di qua" scrive.
Scrivere, perciò, significa mostrare quella immateriale realtà per mezzo di una ficiio che la renda accessibile, sia pure polisemicamente, all'intelligenza degli uomini. La potenza creativa di Dante sta, dall' «incipit vita nova» all' «explicit comedìa», qui.
È, dunque, qui che, con forza altrimenti inconcepibile, è costretto a contrastare a sua volta i contestatori o contrastatori, che non gli credono e cercano di impedire che altri vi credano: «Se poi latrassero contro la disposizione a elevarsi per il peccato di chi parla, leggano Daniele, dove troveranno che anche Nabuccodonosor per volontà divina ha visto alcune cose contro i peccatori, e le dimenticò» (Ep. XIII, 28). E prosegue, dando sostegno alle realtà della propria carismatica esperienza con citazioni da Matteo, da Ezechiele, da Riccardo di San Vittore, da Bernardo, da Agostino, conoscitori esperienziali della realtà mistica, carismaticamente conosciuta.
Dante sa bene quale è la motivazione - o meglio la responsabilità - che lo spinge, in un giorno tra gli ultimi della propria vita, a scrivere a Cangrande, chiedendo di proteggere la propria opera ed in special modo la Comedia, il frutto più alto della propria missione scrittoria. Sa infatti che la polisemia con la quale l'ha scritta, la renderà perennemente contemporanea (apocalitticamente e profeticamente, non certo li tteraliter) attraverso la decodificazione allegorica.
Da qui la preoccupazione di Dante verso «coloro / che questo tempo chiameranno antico» (Par. XVII, 119-120). Sa che ha scritto «in pro del mondo che mal vive» (Purg. XXXII, 103) e che il fine è «rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità» (Ep. XIII, 15).
Dunque, qui si gioca la vera partita filologica intorno a Dante: se compito della filologia è restituire l'esatta lezione di un'opera, rispettando l’intentio auctoris, occorre che la filologia non operi riduttivamente, storicisticamente, ma abbia il coraggio di lasciar dire a Dante, e fino in fondo (anagoge) quanto polisemicamente ha inteso dirci. Ciò significa lasciare che guidi la nostra intelligenza, di livello in livello, nel suo ascendere al Significato dei significati.
Eppure è questo che non viene ancora accettato, riconosciuto, riducendo il commento a note di vario genere, ma mai anagogicamente.
Non si può restare indifferenti constatando come l'autorevole (dantologicamente parlando) Enciclopedia dantesca conceda cinque colonne alla voce 'anafora' e poco più di una alla voce 'anagogico'; e, logica conseguenza, sia pure sconcertante, nessuna alla voce 'anagogia'. E questo nonostante Dante apertamente dichiarasse polisemica la propria opera, come si sa dai luoghi di apposito riferimento presenti nella sua opera.
Non si pone sufficiente attenzione al fatto che Dante, ogni volta che deve riferirsi al proprio sistema polisemico, si serva del versetto del Salmo CXIII «In exitu Israel de Aegypto» (Cv. II, ii; Ep. XIII, 7; Purg. II, 46). Quando sarà tempo, si vedrà quanto "Aegypto" è per Dante il proprio corpo "quel d'Adamo" e, dunque, la "selva" stessa.
Si serve di questo perché gli consente di fare preciso riferimento a quell' «in exitu» che, anagogicamente, si riferisce all'uscita dell'anima dal corpo ed alla sua entrata nella dimensione dello 'spirito': esperienza che i comuni uomini fanno con la morte, mentre alcuni pochi, autenticamente carismatici, la fann o ancora in itinere, viventi questa vita. Di questi è Dante. Questa esperienza, a partire dall' «incipit vita nova», fonda la sua missione scrittoria, che sarà compiuta, per «superinfusa / gratia» (Par. XV, 28-29) con l'«explicit comedìa». Dante appartiene al numero dei «bis unquam» (ibid. 30).
Di questa sconcertante, e in coscienza non meritata condizione carismatica, avrà ben chiara coscienza Dante quando dichiarerà alla sua prima provvidenziale guida, Virgilio:
Ma io, perché venirvi? o chi 'I concede?
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'I crede.
(lnf II, 31-33)
Occorre coraggio ad intendere litteraliter queste parole, che ci aiutano a fare di Dante, più che di altri, uno speciale simile di Paolo: come meglio vedremo, l'esperienza dell'uno e dell'altro fa sì che si unisca il sistema polisemico biblico col sistema polisemico propriamente dantesco.
Entrambi infatti fondano la propria missione ed il proprio messaggio a partire dalla conoscenza reale dell'identità umana, riconducibile al Dio che s'incarna, a Gesù Cristo, colui che, «Via», guida gli uomini alla salvezza, aiutandoli a conoscere la verità circa il loro essere spiriti incarnati, così che l'identità dell'uomo, immutabile, non risulti altro che questa: unità di corpo anima spirito.
Tanto Paolo quanto Dante non sanno se il loro «in exitu» ed il loro trovarsi nella dimensione 'altra' dello Spirito avvenga col corpo o fuori del corpo; la loro coscienza, la sensibile, non lo può avvertire. Dante si limita ad un cenno:
S'i' era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che 'l ciel governi,
tu 'I sai, che col tuo lume mi levasti.
(Par. I, 73-75)
Questa dichiarazione prende ulteriore valore di carismatica straordinaria verità se vista alla luce della «vita nova», perché in quei giorni Dante vive la propria, sconcertante, vocazione mistica e scrittoria. Per mezzo di questa serie di «apparuit» (in sonno e in veglia) conosce la realtà della realtà, nella sua pienezza: fisica, psicologica e spirituale.
La realtà gli appare, dunque e definitivamente, nel suo essere nova e nouissima, cioè prima e ultima - quella oltre la quale nessun'altra è concepibile («Et quia, invento principio seu primo, videlicet Deo, nichil est quod ulterius queratur [...]», Ep. XIII, 33). Questa res nova è la realtà beatrice, proiettata in una donna, Beatrice. La quale veramente era così chiamata dagli uomini, senza però che sapessero cosa in realtà significasse; perciò, giustamente afferma: «[...] li quali non sapevano che si chiamare» (V. N. II). Il suo scopo è risvegliare negli uomini la memoria della 'realtà beatrice' che si trova in ognuno di loro.
Dante riconosce apertamente la straordinarietà della propria condizione e dei carismi in moltissimi passi di tutta la sua opera, a partire dalla Vita Nuova.
Ma come procedere per riconoscere, filologicamente parlando, la realtà di questa esperienza che regge tutta la vita e l'opera di Dante, vista la sua speciale condizione e la serie degli episodi mistici che si ripetono lungo la propria vita ed in particolare quando la missione scrittoria si compie? È mai possibile cercare il documento che confermi una realtà così fisicamente non documentabile? Eppure, senza questo fondo, tutta la polisemia dantesca, nell'autenticità della sua realtà, viene meno.
A me pare, comunque, che per giungere all'intelligenza della polisemia dantesca, occorra seguire il Dante 'secondo Dante', che è l'insostituibile autoaccessus alla propria opera, altrimenti impossibile da cogliere. Da qui, a sostegno e ad illuminazione, l'incessante cura autoesegetica.
Occorre un ri-novamento dell'intelligenza di Dante, da compiersi con Dante, senza il quale non è possibile giungere ad un commento 'novo', quello che, a partire dalla «intelligenza nova» (come si legge nel sonetto finale della Vita Nuova, Oltre la spera che più larga gira), giunge a compimento con la «vista nova» (Par. XXXIII, 114), che conclude la Comedia.
Per giungere ad un commento nuovo, pienamente polisemico, di Dante occorre lavorare, più che sulle fonti esterne e secondarie, sulla persona di Dante, fonte prima del proprio dire intorno ad una realtà che non potrebbe che sfuggire ai soli sensi ed al solo procedere storicamente per mezzo di testimonianze fisiche.
Essendo la realtà piena, per le sue dimensioni visibili ed invisibili, ne viene un'intelligenza che sia in grado di procedere nelle une e nelle altre.
Sarà compito di Dante stesso chiarire il rapporto con la ragione umana, che procede per vie naturali e non soprannaturali (come richiedono le spirituali). Lo farà con queste parole di Virgilio, allegorica proiezione dell'anima naturale dell'uomo: Ed elli a me:
«Quanto ragion qui vede
dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta
pur a Beatrice, ch'è opra di fede.
(Purg. XVIII, 46-48)
Ecco il problema del «da indi in là» onestamente dichiarato: c'è il 'fin qua' possibile all'anima naturale, che si serve, per conoscere, dei sensi del corpo; e c'è il «da indi in là», che appartiene allo spirito, all'anima divinizzata, la cui proiezione è Beatrice, la guida che succederà gerarchicamente a Virgilio.
Il 'di qua' ed il 'di là' danno unitariamente vita alla realtà, ed è questa conoscenza che consente il realismo dantesco. Perciò la realtà non può che essere polisemica.
Non è dunque strano che la polisemia dantesca si relazioni con quella biblica.
Non sempre - lo si è già anticipato - si coglie il fatto che Dante è l'unico scrittore cristiano che intenda e scriva così come gli scrittori divinamente ispirati, i canonici. Anzi, ne ha coscienza tale da porsi profeticamente al servizio di una Chiesa che si andava facendo sempre più tralignante. Egli stesso lo affermava in quella drammatica Epistola ai Cardinali d'Italia, che andrebbe letta all'interno di un'ottica meno ideologico storicistica e più profeticamente spirituale. In essa Dante accennava alla propria missione scrittoria (si rilegga, a questo proposito quanto oracolato nel canto XXXII del Purgatorio) per mezzo di un chiaro riferimento all'«officio» (Purg. X, 55-57), commesso o non commesso.
Il Dante carismatico è al servizio della propria missione scrittoria: questo è il suo «officio commesso», come lo si legge nel XXXII del Purgatorio:
«Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive»
(Purg. XXXII, 100-105)
ed anche qui, nell'Epistola XI: «Sì, è vero, io sono una delle ultime pecorelle dei pascoli di Gesù Cristo; è vero, io non abuso di nessuna autorità pastorale visto che non sono ricco. Ma questo vuol dire che sono quel che sono non grazie alle ricchezza, ma per grazia di Dio e "lo zelo della sua casa mi divora"» (Ep. XI, 5).
Il suo «sono quel che sono [...] per grazia di Dio» ha valore di autotestimonianza della propria condizione carismatica, che, come dice bene san Tommaso nel trattato sui carismi, viene data da Dio a chi vuole, anche se sia peccatore e comunque indegno.
Se lo si ripete è per dare ulteriore conferma del fatto che la conoscenza di Dante viene anche e soprattutto da esperienze 'in spirito', di particolare significazione apocalittica e profetica. Perciò realmente da leggersi polisemicamente.
Tuttavia, pur senza mai contraddire la polisemia biblica, Dante si serve di una propria polisemia. La quale procede non tanto e unicamente dagli statuti della Retorica classica e medievale, quanto da un fondamentale e fondante rispetto della struttura antropologica: l'uomo - unità di corpo anima spirito, come dichiarato da san Paolo - risulta unione di una parte visibile (corpo) e di una invisibile (animaspirito; delle due, come Dante ricorda, «fassì un'alma sola», Purg. xxv, 74).
La struttura dell'universo, quella «che l'universo a Dio fa simigliante» (Par. I, 105), è verticale: si può percorrerla, lungo la scala gerarchica degli esseri. Perciò la si intende tale anche dal punto di vista antropologico: la parte bassa, materiale, il corpo; la parte mediana, psicologica, l'anima; la parte alta (altus è profondo) lo spirito. Tale verticalità può essere intesa anche con altra proiezione: la parte esterna è il corpo; la mediana è l'anima, a fare da ponte; la parte interna è lo spirito. E questo lascia intendere il vero significato (con quanto segue) di: «Ego tanquam centrum circuii ... tu autem non sic» della Vita Nuova (V. N. XI).
La libertà consente all'uomo di scendere o risalire questa scala, cioè compiere un 'viaggio' che conceda di passare dal vivere secondo il corpo (materialmente) al vivere secondo l'anima (psicologicamente), al vivere, infine, secondo lo spirito.
Dante compie questo straordinario «altro viaggio» in modo che l'andata nell'aldilà risulti anagogico-apocalittica ed il ritorno nel!' aldiquà tropologico-profetico.
Così darà ai suoi lettori di ogni tempo, compreso il nostro, l'indicazione del loro proprio «altro viaggio», in modo che, confermato dall'esperienza dell'aldilà di Dante, vedano gli effetti (temporanei o perenni) della loro scelta. Essi potranno comprendere cosa significano, così allegorizzati, il reale 'scendere', il 'ri-salire', infine, il 'volare'.
È quanto realizza lo stesso Dante, seguendo, in sequenza letterale e allegorica, prima Virgilio (discesa nel male e risalita al bene), poi Beatrice (dal paradiso terrestre, che è il proprio della divinizzazione, al celeste, col volo nei cieli del Cielo), infine Bernardo (che prega perché Dante ottenga per mezzo di Maria l'indicibile 'indiazione').
La polisemia dantesca si occupa allegoricamente di queste realtà di cui ha personale carismatica esperienza.
Perciò il sistema polisemico proprio di Dante ha una base storico-letterale, in quanto vive reali accadimenti; da esso si genera (e non forzosamente si sovrappone) una triplice allegoria, che richiede al lettore il «da indi in là», «ch'è opra di fede».
Così egli all'inizio del Convivio (Cv. II, i) ci insegna a distinguere - allo stesso modo di quanto facevano i primi Padri lettori/esegeti della Scrittura - i piani dell'esperienza umana: l'allegorico vero e proprio (Cristo e la sua Chiesa, per cui ogni uomo sceglie, ab eterno e nel tempo, di accettare o rifiutare la salvezza di Cristo); il tropologico o morale (in quanto si comporta compiendo atti pro o contro il bene di sé e degli altri); l'anagogico (in quanto vive, per quanto concesso e possibile, le realtà ultime, quelle dello spirito).
Ma è Dante stesso a precisare, circa l'allegorico: «Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merenda et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxus est» (Ep. XIII, 8). Cioè: se poi l'opera si prende allegoricamente, il soggetto è l'uomo secondo che meritando o demeritando per la libertà d'arbitrio è soggetto alla giustizia del premio e del castigo.
II sistema polisemico dantesco è dunque una scala di successive ulteriori significazioni e richiede un'intelligenza, anche e soprattutto, spirituale. Non può bastare la sola storico-culturale, in quanto la realtà significata richiede successivi passaggi di intelligenza.
Anche per il Dante polisemico vale quello che l'esegesi biblica medievale intendeva leggendo la polisemica Sacra Scrittura.
Essa ben sapeva che anche per l'esegeta ed il lettore 'anagogici' valeva quanto riferito da Giovanni nel suo Vangelo: «Gesù rispose: "Smettetela di protestare tra voi. Nessuno può avvicinarsi a me con fede, se non lo attira il Padre che mi ha mandato"» (Gv 6, 43).
Nel caso di Dante «con fede» indica l'allegorizzato 'per mezzo di Beatrice', «ch'è apra di fede». Dunque non a tutti i lettori è concessa l'intelligenza del «da indi in là», cioè la salita nell' altus della conoscenza dello Spirito. Se è a tutti accessibile il significato storico di quanto Dante riporta dalla Storia, e se a un minor numero di uomini è accessibile il significato dell'allegoria vera e propria o del significato tropologico dei comportamenti da Dante stigmatizzati, a veramente «pochi» (Par. II, 10) è concesso di seguirlo nelle altezze del significato anagogico, quello mistico. In questo egli è autentico mistagogo: conduce nel mistero di Cristo, la sostanza stessa dell'allegoria cristiana, che Dante conferma. È mistagogo in un senso nuovamente iniziatico, non più riconducibile alle iniziazioni misteriche antiche, le greche e le orientali.
Il processo di iniziazione procede anche col passare attraverso i piani dell'allegoria, vissuta in interiore. Tutto quanto Dante dice per sé vale anche per ogni suo lettore, che lo segue lungo la scala della significazione allegorica. Essa ha il proprio fondamento nella persona di Dante. Ciò però non significa che questa scala sia diversa, allegoricamente, da quella di Giacobbe. Qui il problema non è quello storico-filologico delle fonti, ma quello della figurazione di un'esperienza diretta di Dante, cui si assegna un valore didattico secondo lo spirito.
Può essere, perciò, di aiuto, per intendere questo, porre la nostra attenzione al muoversi degli «splender» lungo lo «scaleo» dei Mistici nel XXI del Paradiso. Essendo la realtà dello spirito immateriale, Dante deve trovare la figura idonea per la sua polisemica significazione. Certo, non è facilmente intuibile, senza esperienza spirituale, questo anagogico discendere, così più importante del salire, lungo questa scala. A questo proposito si potrebbe rileggere lo Pseudo-Dionigi che bene illumina circa il processo di anagogica conoscenza compiuto dalle gerarchie angeliche col loro scendere e risalire (C. H. II, 3; III, 2; IV, 2; X, 4).
Dante fa esperienza del discendere e del risalire, capovolgendo il primo nel secondo. Ma sarà nel 'volo' di cielo in cielo che potrà allegorizzare il muoversi proprio dello spirito. Ecco il passo del cielo dei Mistici dove l'allegoria accenna ad un mistero ancor più alto, cioè profondo, quello che passa dalla divinizzazione all'indiazione. Questo discendere è stato preceduto e compiuto da Dio, che, nel Figlio, incarnandosi si fa uomo. Dante lo precisa nell'Epistola V con queste parole: «ad revelationem Spiritus» (Ep. V, 9). Percorrere i gradi di questa scala in discesa è cosa da «splender»:
vid'io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.
Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso.
(Par. XXI, 29-33)
Dante è ormai guidato dal «lume», quello
che ti conduce su per quella scala
u' sanza risalir nessun discende.
(Par. X, 86-87)
Questa scala vale per Giacobbe e vale per Dante e per il lettore che la percorre - salendo nei suoi 'gradi' e scendendo nella sua 'profondità di significato' - imitando Cristo/Scala, che, scendendo e risalendo, ricongiunge il divino all'umano e l'umano al divino.
Il sistema polisemico di Dante offre questa sua speciale scala per permettere al lettore di seguirlo in un «altro viaggio» che riguarda, lo comprenda o non ancora, ogni uomo. E Dante uomo lo sta compiendo col proprio discendere nello smarrimento oppure nella conoscenza della perdizione, e col proprio risalire nella riconquista di tutto sé, corpo anima spirito. Tale riconquista prevede anche questo capovolgimento (si ripensi a quello di Virgilio-Dante sul corpo di Satana al centro della terra): non più l'uomo dipende dal suo corpo, ma, da ora in poi, dal suo spirito, ricostituendo l'originaria struttura antropologica. Perciò il risalire la scala dell'allegoria significa compiere un viaggio dell'intelligenza che si fonda, per quanto Dante esprime, sulla fenomenologia della propria esperienza; su tutte le altre la carismatica.
Perciò, anche per la comprensione del significato spirituale di Dante, vale quanto con prudenza già affermato dagli esegeti biblici medievali.
Henri de Lubac così risolve la questione: «Le cose mistiche stanno al di sopra delle morali, dice sant'Ambrogio, ma prima che si possa raccogliere il frutto delle une è necessario che le altre mettano le foglie».
Tradotto in termini polisemici ciò significa che, prima di arrivare all'intelligenza mistica, l'uomo deve passare attraverso la conquista del retto comportamento morale. Cioè, per Dante, prima di diventare 'Beatrice' (riconquista della parte divina di sé), deve diventare 'Virgilio' (riconquistando l'anima naturale di sé). E così, prima di 'volare' di cielo in cielo con Beatrice, deve imparare, camminando, a guadagnare sé in modo naturale; sia pure intendendo naturale secondo una natura decaduta per colpa di Adamo. Sarà il Dante divenuto infine 'Bernardo' a recuperare il sé carismatico, disponendosi a ricevere la indiazione, l'essere dio in Dio.
Questa conquista di significato è effetto della trasformazione di Dante, o meglio della progressiva riconquista di tutto sé (corpo anima spirito) che avviene attraverso il suo «altro viaggio». Perciò questi livelli non sono conquistabili col solo ausilio degli statuti retorici.
Da qui i modi 'didattici' di cui si servono le guide di Dante portandolo al compimento di tutto sé: argomenti filosofici prima, spiegazioni spirituali poi.
Da questo punto di vista anche le risposte date da Virgilio e Beatrice a Dante sono didatticamente utili a trovare il livello di significato necessario, senza correre il rischio del «trapassar del segno» (Par. XXVI, 117).
Rimangono perciò assai importanti certi luoghi dell'opera di Dante dove egli stesso viene guidato all'intelligenza secondo misura e secondo il bisogno di ciascuno. E questo partendo dal «Non dimandare più che utile ti sia» (V.N. XI) per arrivare al «Più alte cose di te non chiederai» (Cv. III, viii) e al «Non più sapere che sapere si convegna» (ibid. IV, xiii). Ma non dimentichiamo, nel suo fondo anagogico, l'avviso di Virgilio:
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui beli' occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio».
(Inf. X, 130-132)
Occorre, come si capisce, ri-novare, o meglio completare il commento a Dante, aprendolo alla significazione anagogica, in modo da guidare al proprio fine l'intelligenza del lettore, specialmente del 'suo':
Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l'alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l'acqua che ritorna equale.
(Par. II, 10-15)
Perché dunque non si è ancora lavorato in modo da commentare Dante 'secondo Dante', cioè indicando la parte più alta e più bella della sua opera, quella cioè per la quale, fin dal principio ha scritto? Una volta compreso che Beatrice è la proiezione della parte più bella, gloriosa, innamorante, dell'uomo, è logico riconoscere quanto Dante stesso, nell' explicit della Vita Nuova scrive:
Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infine a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso [...].
(Vita Nuova XLII)
È chiaro che lo «studio» implica anche il futuro Convivio quanto la stessa Comedia. Ma arrivare a quest'ultima vorrà dire poter dire di lei con una polisemia strutturata in modo da poter degnamente «trattare di lei», cioè in modo altrimenti allegorico.
E questo significa rimettere in gioco l'esperienza carismatica di Dante, che, unita all'altissima perizia retorica ed alla capacità di creare una fictio mai realizzata da alcun poeta, gli consentirà di compiere la sconcertante, in quanto apocalittica e profetica, sua missione scrittoria.
Purtroppo, fino ad oggi, si è lavorato senza la necessaria ed urgente attenzione alla persona di Dante, che è il fondamento della propria personale allegoria. Si è lavorato sul piano storico-filologico, su quello stilistico e linguistico, come se questi potessero spiegare la struttura della sua polisemia, della sua polisemica allegoria.
Ora la strada da percorrere, realmente nova, va condotta sulla sua persona, che diviene, per evidentissima autotestimonianza (autoesegesi come autoaccessus), la 'via nova' per fondare e commentare nuova-mente la Lectura Dantis.
Perciò, più che indagare gli statuti retorici o le fonti che avrebbero consentito a Dante di utilizzare materiale per la propria scrittura, è giusto indagare le fenomenologie che gli consentirono di avere diretta esperienza della realtà 'altra', quella che dà sostanza alla sua allegoria. La quale, perciò, risulta anche 'altra' rispetto a quella di cui in genere i Poeti ed i Teologi si sono serviti. A queste due Dante, infatti, per necessità aggiunge quella dei Mistici, fondendo il tutto con una potenza creativa forse realmente per noi inconcepibile.
Il fondamento letterale della propria polisemica allegoria è 'storico'. Lo è nel senso che è realmente accaduto a Dante di vivere episodi carismatici che lo portano 'di là'.
Vanno presi anche litteraliter i momenti attraverso i quali è mosso («ab alio movetur») e perciò si muove «di là». Per esempio si rilegga questo dialogo tra uno spirito incarnato (Dante) ed uno disincarnato (Sa pia):
Ed ella a me: "Chi t'ha dunque condotto
qua su tra noi, se giù ritornar credi?".
E io: "Costui ch'è meco e non fa motto.
E vivo sono [...]".
(Purg. XIII, 139-142)
Dante sa bene che ben pochi lo potranno intendere nella pienezza della polisemia e su questa 'via nova' vorranno seguirlo, mettendo la propria intelligenza per l'«alto sale» non solo riguardo al Paradiso, ma anche riguardo alla conoscenza della realtà tutta, la visibile e l'invisibile, la temporale e l'eterna, l'umana e la divina. Ai «Voialtri pochi» non nasconde parole come queste: «a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia» (Cv. II, i).
Si badi bene, non è un caso che esse siano pronunciate appena prima di passare al discorso polisemico, in particolare anagogico.
È per necessità che distingue i «pochi» da coloro che invita a non mettersi con lui «in pélago»: o perché impediti «per difetto di ammaestramento» (Cv. II, v) o perché non ancora giunti ad un livello di spirituale intelligenza; oppure, infine, perché negatori e decisamente contrari a condividere il suo intendimento, a partire dalla concezione della realtà tutta in generale e dell'antropologica in particolare. A costoro, tagliando corto, così si rivolge:
[...] ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte le possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, chè certo io temo d'avere a troppi comunicato lo mio intendimento [...]
(Vita Nuova XIX)
Si esprime così non per esigenze esoteriche, ma perché conosce bene che alla libertà umana è dato poter condurre in opposta, non «diritta parte», l'intelligenza. Cosa questa che può valere anche per quella scelta e praticata dai più attrezzati dantologi.
Tutta la sua opera è posta sotto il segno della 'sua' allegoria, per mezzo della quale coinvolge nel significato dell'«altro viaggio» non solo sé, ma anche i 'suoi' lettori.
Gli è dato, carismaticamente, il modo di raffigurare l'immateriale al-di-là dei sensi, il «da indi in là» rispetto al povero potere delle parole umane.
Così, togliendo dal campo ogni equivoco, rinvia a Dio la soluzione di questa questione: «Che se ciò che s'afferma sembrasse ora sconveniente a qualcuno, ascolti lo Spirito Santo, che dichiara alcuni uomini partecipi della sua amicizia» (Ep. XIII, 3; ma su questa amicizia vedi anche Cv. I, vi). Proprio per questa via, più mistica che filosofica, ad alcuni uomini «optimum quod est in nobis noscere datum est» (Ep. XIII, 2).
Già il Medioevo non era stato in grado di riconoscere Dante come così altamente privilegiato da Dio: né la Chiesa, che lo riteneva nemico politico e dottrinalmente eretico (ma, infine, riconosciuto perfettamente ortodosso da Paolo VI nel suo motu proprio "Altissimi cantus"), né altri contemporanei intellettuali o poeti (vedi prima coloro che risposero al sonetto di Dante col quale s'inaugura, dal punto di vista della scrittura, la «vita nova», e poi, tra numerosi altri, Cecco d'Ascoli). Tanto più incredibile pare oggi sostenere un Dante speciale e carismatico, mistico, che, per mezzo di un sistema polisemico straordinariamente realizzato poeticamente, si fa apocalittico e profetico.
Eppure questa sua condizione carismatica (san Tommaso, nel suo trattato sui carismi, dice che il carisma è un dono concesso da Dio a chi vuole, senza alcun merito da parte di colui che lo riceve) gli concede di 'vedere' quella parte o dimensione dell'unica realtà che ai comuni uomini, per legge di natura (decaduta dall'originario stato a causa del «trapassar del segno» da parte di Adamo), non è concesso conoscere in questa vita.
Tale è la realtà altra (da cui l'alleon dell'allegoria), che possiamo chiamare Spirito. È lo Spirito il fondo-fondamento della realtà e della polisemia dantesca. Ne consegue che il realismo dantesco si fonda non tanto su un ideologico e culturale realismo medievalmente concepito (e modernamente riproposto), quanto invece su una diretta esperienza dell'unità della realtà, la visibile e l'invisibile.
L'unità della realtà, che dà fondamento unitario al proprio sistema polisemico, gli consentirà di trattare unitariamente lettera e allegoria. Così facendo, Dante offre un percorso unitariamente polisemico alla nostra intelligenza della realtà, che, guidata anagogicamente, giunge ali' «ultimo suo» (Par. XXX, 33), oltre il quale altro non v'è da cercare, e perciò da ulteriormente scrivere, come ricorda in conclusione dell'Epistola a Cangrande: «Vedere Te è il fine» (Ep. XIII, 33).
È lo spirito il 'fondo' che dà fondamento ad ogni realtà, a partire, umanamente intendendo, da quella dell'uomo stesso, di cui Dante conosce il 'fondo' per carismatica esperienza; e questo a partire dalla sua infanzia e puerizia. Il 'fondo' è la 'realtà beatrice', proiettato poi in una donna reale, Beatrice, nello stesso tempo riferimento obbligato per la lettera e per l'allegoria.
Il «viaggio» di Dante, sia vita che opera, è posto sotto il segno di Beatrice: l’apparuit, l'innamoramento, le prove, la perdita, lo smarrimento, il ritorno, il rientro in tutto sé e in Dio.
Questo «viaggio», secondo i gradi di successione della polisemia dantesca, validi per ogni uomo in quanto uomo, prevede la riconquista di tutto sé: prima l'anima naturale, proiettata in Virgilio, che è Dante stesso secondo la sua anima naturale; divenuto 'Virgilio', segue Beatrice, proiezione della sua anima divinizzata, lo spirito, in modo da diventare 'Beatrice'; divenuto 'Beatrice', cioè divinizzato, compie infine il suo 'tutto sé', per mezzo di Bernardo, la proiezione della sua condizione mistico-carismatica; divenuto 'Bernardo' ottiene, per mezzo di Maria, l'indicibile grazia ultima dell'indiazione, il divenire dio in Dio.
Dante perciò, ridivenuto uno, mostra la propria identità come unione di Virgilio-Beatrice-Bernardo. In questo senso, mentre ogni uomo secondo natura è 'Virgilio' e 'Beatrice' («fassi un'alma sola», Par. XXV, 74), Dante, in più, rispetto i comuni uomini, ha il dono di una speciale condizione e di episodi carismatici necessari per la propria straordinaria missione scrittoria. Non è un caso che, a partire dalla sconcertante «vita nova», ad ogni episodio carismatico (in somniis e in veglia) segua la conseguente scrittura, che ha come oggetto il manifestarsi della res nova, la realtà sola beatificante.
Ma, come si è detto e come si sa, smarrito tutto questo, Dante dovrà non solo ri-trovare tutto sé (il «mi ritrovai per una selva oscura», lo dichiara apertamente), mari-conquistarsi nella propria totalità.
Questa sarà, in libertà di accettazione («Or va, ch'un sol volere è dambedue», Inf Il, 139), la necessità del proprio viaggio di compimento di salvezza personale per mezzo di fede (il credo nella provvidenzialità della propria condizione e dei carismi ricevuti) e di opere (la propria opera scrittoria vista nella sua profonda unità, dall' «incipit vita nova» all' «explicit comedìa»).
Egli dice quanto a sé («mi ritrovai»), ma lascia al proprio lettore l'invito a guardare in sé, cioè al ri-trovarsi, uscendo dalla prigionialimitazione del corpo-«Aegypto». E anche dell'anima-«Aegypto».
È Dante stesso a spiegare il proprio sistema polisemico, la propria triplice allegoria, ritornando «in patria»: allegoria, che, personalmente realizzata, non contraddice ma conferma quella biblica.
Qui appare, nel suo fondamento, la polisemia, e dunque l'allegoria propriamente dantesca. Si deve cogliere lo sforzo autoesegetico di Dante nel Convivio: sa di quale 'cibo', o 'pane' vive l'uomo, se vuole 'vivere'.
Il suo sforzo autoesegetico (solo lui può, avendone esperienza carismatica, «dottrina dare la quale altri veramente dare non può») non riguarda le sole canzoni ivi proposte, ma l'autentica lettura di tutta la propria poesia, compresa, e non parrebbe, quella, altamente allegorica, delle Rime dell'esilio, duplicemente vissuto, sia come esilio da Firenze sia come 'esilio' da Beatrice. In esse riprende temi propri di quella «vita nuova» che conferma ed alla quale in nulla vuole derogare, anzi, «maggiormente giovare per questa quella» (Cv. I, i).
Si pensi, ritornando per un cenno qui importante, alle Rime del tempo dell'esilio: importante perché richiama la persistenza delle speciali esperienze, da non leggersi secondo la psicologia amorosa, ma secondo la fenomenologia mistico-carismatica, sia pure velata da moduli cortesi. È alla 'donna' allegoricamente intesa, o meglio spiritualmente intesa come proiezione dell'anima-spirito, che Dante fa doloroso riferimento. Eccone un paio di esempi da leggere con attenzione fenomenologica:
De gli occhi de la mia donna si move
un lume sì gentil, che dove appare
si veggion cose ch'uom non pò ritrare
per loro altezza e per lor esser nove:
e de' suoi razzi sovra 'I meo cor piove
tanta paura, che mi fa tremare,
e dicer: "Qui non voglio mai tornare";
ma poscia perdo tutte le mie prove,
e tornomi colà dov'io son vinto,
riconfortando gli occhi pàurusi,
che sentièr prima questo gran valore.
(Rime LXV, 1-11)
Non si possono non cogliere le reiterate prove che il suo corpo- «Aegypto» sostiene, insieme all'anima naturale, per l'improvviso manifestarsi della potenza dello spirito. La natura di questa paura non è da tutti intesa, mancando gli altri di simile esperienza, proprio perché dai più non è intesa in modo autenticamente allegorico (dire di una donna per farne intendere un'altra, altrimenti non intelligibile), questa 'donna', presente in ogni uomo. Allo stesso modo questo «tremare» è riscontrabile anche in altri grandi mistici, come Teresa d'Avila, che non può non farne cenno. Si tratta di prove iniziali ed iniziatiche proprie dell'iter mistico-carismatico.
Ecco l'altro passo, da leggersi secondo la polisemia e l'allegoria propria di Dante:
Lo giorno che costei nel mondo venne,
secondo che si trova
nel libro de la mente che vien meno,
la mia persona pargola sostenne
una passion nuova,
tal ch'io rimasi di paura pieno;
ch'a tutte mie virtù fu posto un freno
subitamente, sì ch'io caddi in terra,
per una luce che nel cor percosse:
e se 'I libro non erra,
lo spirito maggior tremò sì forte,
che parve ben che morte
per lui in questo mondo giunta fosse:
ma or ne incresce a quei che questo mosse.
Quando m'apparve poi la gran bittate
che sì mi fa dolere,
donne gentili a cu'i' ho parlato,
quella virtù che ha più nobilitate,
mirando nel piacere,
s'accorse ben che 'I suo male era nato.
(Rime LXVII, 57-76)
Sono così numerosi i cenni fenomenologici da restare tanto stupiti quanto confermati nella loro natura. Il «sì ch'io caddi in terra», rimanda al «Vidi e caddi bocconi», citati da Dante, proprio per sé, nel1' Epistola XIII. Il rapporto «luce»-«cor» non può essere che riferito alla luce della «gloriosa» Beatrice, cioè alla natura divina (Dio è Luce) dello spirito, la cui «biltate» è talmente innamorante da impedire ogni altro amore secondo i sensi, come da Dante stesso descritto nel II paragrafo della Vita Nuova.
Un altro cenno alla considerazione di 'dolore' e di 'morte' intesi allegoricamente, troviamo in questi versi:
Morte, che fai piacere a questa donna,
per pietà, innanzi che tu mi dis(c)igli,
va da lei, fatti dire
perché m'avvien che la luce di quigli
che mi fan tristo, mi sia così tolta [...]
(Rime LXVIII, 43-47)
Qui più apertamente fa riferimento alla dolorosissima prova della privazione della sua 'Beatrice', prova che è assimilabile alla tremenda esperienza della morte mistica. Al verso 14 Dante scrive, togliendo ogni dubbio: «Per quella moro c'ha nome Beatrice».
La straordinaria esperienza carismatica della 'realtà beatrice' lo induce a così confessare:
Vedete quanto è forte mia ventura,
che fu tra I' altre la mia vita eletta
per dare essemplo altrui [...]
(Rime LXXXIX, 5-7)
Non è chiara la manifestazione della vocazione-elezione ad una specialissima missione scrittoria, tale da richiedere, dopo l'«incipit vita nova», l'«explicit comedìa»?
Sarebbe bello qui continuare nell'indicare che il fondamento della polisemia, dell'allegoria dantesca, rinvia non tanto agli statuti della retorica medievale, quanto invece alle fenomenologie mistico-carismatiche, ma i limiti di tempo e di spazio non lo concedono. Ma, ora si capisce un poco meglio, sempre più si fa urgente non un nuovo commento a Dante, ma un commento 'novo' secondo Dante, il Dante anagogico.
Il fondamento di questa polisemia secondo Dante è, dunque, storico: egli vive reali esperienze, sia in interiore che nell'esteriore. Queste esperienze, per essere comunicate, devono essere fictivarnente figurate, dato che la realtà loro sarebbe inintelligibile e perciò anche, a maggior ragione, incredibile.
Perciò sente la necessità di fondare la propria allegoria sulla lettera, che altro non è che la sua personale, straordinaria, storia. Tuttavia, pur rispettando gli statuti retorici della polisemia, ne fonda una propria, personale, secondo il corpo, secondo l'anima, secondo lo spirito: «Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l'altre, massimamente de l'allegoria, impossibile è prima venire a la conoscenza de l'altre che a la sua» (Cv. II, i). Con questo precisa due cose: la prima è che il fondamento letterale della propria allegoria è nella sua stessa personale, carismatica storia, grazie alla quale ha esperienza della realtà 'altra'; la seconda è che a partire da questo dato di fatto è possibile passare all'intelligenza dei livelli della significazione allegorica, che di questo letterale-storico sono la conseguenza.
Tutto si fonda, perciò, sulla persona di Dante: il rapporto tra la sua vita e la sua opera vive della stessa relazione che intercorre tra 'lettera' e 'allegoria'. Perciò dice bene: prima la sua 'lettera' si fa storia con gli avvenimenti carismatici che sostanziano la «vita nova», poi, portato a compimento la realtà dello «altro viaggio», non ha altro esito che l'«explicit comedìa».
Ecco perché, proseguendo quanto appena detto, esplicita il proprio modo di procedere. Cioè il proprio metodo esegetico risulta coerente alla realtà fenomenologica esperita: «Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere, se prima non è fatto lo fondamento, sì come ne la casa e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che 'l dimostrare sia edificazione di scienza, e la letterale dimostrazione sia fondamento dell'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è a l'altre venire prima che a quella» (Cv. II, i). L'anagogica significazione non va intesa come un sovrasenso, cioè un significato aggiunto a quello letterale, ma in questo incluso: «E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inclusi» (ibid. II, i). Ciò è confermato in modo coerentemente antropologico: il corpo 'contiene' (grossolanamente esprimendoci) lo spirito. Così si viaggia verso il 'centro'.
Dante dà l'autoaccessus alla propria opera ed alla sua intelligenza per mezzo dell'autoesegesi, del commento che solo lui può dare, in quanto lui è l'unico testimone della realtà degli episodi carismatici che lo colpiscono, nonché della propria speciale condizione.
È dunque necessario dare ragione de «lo fondamento». E così decide di procedere:
Io adunque per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la letterale sentenza e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosta veritade, e talvolta de li altri sensi toccherò incidentalmente, come a luogo e a tempo si converrà.
(Cv. II, i)
Questa dichiarazione di metodo esegetico va tenuta presente non solo per le canzoni del Convivio, ma anche, e soprattutto, per il commento polisemico della Comedìa.
E se non ci avesse ricordato la stretta relazione tra il Convivio e la Vita Nuova, forse non intuiremmo la relazione tra la 'realtà beatrice' (Beatrice-Spirito) e la 'realtà razionale' (Donna Gentile-Filosofia). Quest'ultima può dare dimostrazioni ma non produrre visioni intellettuali di altissima verità, come sono quelle carismaticamente date allo Spirito: mai la Gentile potrà sostituire la Beatrice, ma farà bene a mettere le proprie dimostrazioni al servizio di quella donna «che vive in cielo con gli angeli e in terra con la mia anima». Ricordando l'origine mistica delle esperienze, si può comprendere meglio il perché Dante desideri essere inteso dagli Angeli che intendono l'Amore in così sottile intendimento. Perciò la conclusione della canzone, così dice:
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte.
(Voi che 'ntendendo il terzo ciel mooeie, vv. 53-55)
Coloro che l'intenderanno solo come letterale séguito di una storia d'amore in Dante, che lotta tra il ricordo di Beatrice e la consolazione della Gentile, non potranno coglierne la significazione allegorica, che si svolge tutta e sola all'interno di Dante stesso, tra la sua anima ed il suo spirito. Ed è questo il punto: anche l'«incipit comedìa» coinvolge, litteraliter et allegorice, tutto Dante: la «selva» è Dante stesso, proiezione della parte di lui che è il corpo coi suoi istinti. Gli alberi-istinti, se non 'potati', crescono provocando le dovute conseguenze, psicologiche, morali e spirituali. Ecco perché Dante trova la selva «selvaggia aspra e forte». Ma se ora la propria situazione è in così doloroso stato, essa rinvia al suo primo apparire, quando, l' «apparuit» di Beatrice provocò il lamento degli spiriti del corpo, come si legge nel secondo della Vita Nuova. Là si era 'trovato', qui si 'ri-trova' («mi ritrovai») con tutto sé: corpo anima spirito, episodi carismatici.
I fenomeni dello spirito sono sconvolgenti per l'uomo: Dante non solo ne parla a partire dalla Vita Nuova («Ecce deus fortior me qui veniens dominabitur michi» V.N. II), ma continua a dire quale «vertù» abbia Amore sopra di sé.
Si vedano, a questo proposito, diversi passi di un'altra delle Rime, Così nel mio parlar voglio esser aspro, dove si reiterano gli accenni al tremare, al cadere a terra (il «m'ha percosso in terra» richiama il «vidi e caddi bocconi» per conferma autorevole, citato in Ep. XIII), al restare privato del calore sanguigno («ond'io rimango bianco», che richiama il «Questi pare morto» della Vita Nuova). Cose, tutte queste, che pertengono alla fenomenologia mistica dell'«in exitu».
Non sarebbe possibile a Dante tenere uniti tutti questi momenti e tutte queste dimensioni, insieme operanti, se non si servisse di un sistema polisemico come quello di cui si serve, per certi versi parallelo a quello dell'esegesi biblica, della quale si fa in qualche modo traduttore secondo la singolarità della persona carismaticamente dotata. Così procedendo, lascia intendere che non c'è alcuna contraddizione né di mezzi né di fini tra la biblica e la dantesca.
E questo è tanto vero che la dimensione apocalittica e profetica, presenti nella Sacra Scrittura sono presenti nel «sacrato poema», che ancora attende di essere pienamente commentato, secondo un commento 'novo'.
Questo commento ci aiuterà ad intendere cosa è il «viaggio» inteso non solo materialiter ma anche e soprattutto spiritualiter, in modo che il primo ritrovi il proprio rapporto col secondo e insieme procedano all'unico compimento. Non è infatti concepibile, data la struttura antropologica dell'uomo, separare l'uno dall'altro. Sono, come la realtà tutta, una cosa sola. Dante, per mezzo dell'unità della propria opera, lavora «ut unum sint».
Dante sa bene che ben pochi sono disposti a credergli, nonostante l'autotestimonianza e la precisazione mediante l'autoesegesi.
La realtà mistico-esperienziale era argomento pericoloso in età inquisitoriale, soprattutto per un uomo come Dante, docile a Cristo, ma non ugualmente agli uomini della Curia Vaticana («Ma Vaticano e l'altre parti elette / di Roma che son state cimitero / a la milizia che Pietro seguette / tosto libere fien de l'avoltero», Par. IX, 139-142). Egli sa come ci si deve comportare in ambienti colti, detentori di un potere di riconoscimento o di rifiuto del proprio sapere, e soprattutto della 'fonte' prima di questo. Tuttavia egli è necessitato a dare ragione anche del proprio Convivio, sotto allegorica veste razionale, in modo che quella realtà che già a molti apparve in «vita nova» come espressa con un linguaggio «Iabuloso», ora sia «più virilmente trattata». E non certo per riacquistare credito negli ambienti colti.
Trattando la stessa realtà esperita in «vita nova», sente di doverla figurare col l'allegorico banchetto della Sapienza, che pone, di necessità, sullo stesso piano di quelli biblici (Pr IX, 5; Is XXV, 6 e Lv 1-3; Le XXII, 29), nonché di quelli patristici, di cui si potrebbe qui citare, a nome di tutti gli altri, sant' Ambrogio, col suo De Cain et Abel I, 5.
Dante, sapendo, per il suo essere ancora vivente in questa vita, di non poter, se non straordinariamente per modo carismatico, avere accesso alla mensa dei Beati, onestamente dice di sé: «E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata» (Cv. I, i).
Usa il termine «dimostrata» a proposito di quanto dichiarato circa le proprie fenomenologie mistico-carismatiche che gli concessero di 'vedere' quello che ai comuni uomini ed alla loro limitata, sensibile, ragione non è possibile vedere ma solo credere È per questo che collega, necessariamente, la realtà del Convivio a quella della Vita Nuova, essendo comune all'una e all'altra l'esperienza della 'realtà beatrice' e del suo, allora doloroso, rapporto con essa. Le canzoni del Convivio di non altro parlano.
Qui, nell'esperienza speciale, sta il fondamento della polisemia dantesca, e dunque della 'sua' allegoria. Non può perciò non scrivere parole come queste: «E se ne la presente opera, la quale Convivio è nominata, evo' che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella» (Cv. I, i).
Dante è preoccupato per l'accoglienza della propria opera, che pochi intendono pienamente nella sua polisemia. Sa che l'infamia («Movevi timore d'infamia») può svalutare, ben più che la sua persona, la sua opera, che ha per sigillo il «fa che tu scrive». Deve difendere sé per difendere il bonum della propria opera e lo skopos per il quale ha scritto. Sa che la propria straordinaria esperienza gli concede «di dottrina dare la quale altri veramente dare non può». Ri-conosce come lo skopos di tutta l'opera sia stato posto, a fondamento, nell' «Incipit vita nova», che diviene l'incipit stesso della significazione dantesca.
Così, passando al Convivio, cerca, con l'autoesegesi, un approccio diverso per gli uomini, capace di dire le stesse verità della «vita nova», ma in modo razionale, cioè di donare («Lo dono veramente di questo commento è [...]») la opheleia, la spirituale utilità per i suoi lettori, aiutandoli a salire dal significato letterale a quello allegorico, in modo che, di senso in senso, venga compiuta la salita al Significato dei significati. Da qui la dichiarazione: «E voi, a cui utilitade e diletto io scrivo, in quanta cechitade vivete, non levando li occhi suso a queste cose, tenendoli fissi nel fango de la vostra stoltezza» (Cv. III, v). Questa «cechitade» continua oggi in chi non vede come reale l'unità della realtà (la visibile e l'invisibile, la temporale e l'eterna, l'umana e la divina) e della polisemia con la quale Dante parla.
Concludendo: polisemico è, nella sua pienezza, il suo «altro viaggio». La 'lettera' è data dalle reale esperienza; l'allegoria è ciò che agli uomini viene significato per mezzo dei livelli 'altri': l'allegorico vero e proprio (e Dante fa parte della Chiesa, guidata a salvezza da Cristo nella storia, come si legge in Par. XXV, 52-57); il tropologico o morale (la storia dei comportamenti di Dante); l'anagogico o mistico (gli episodi carismatici, la grazia della divinizzazione e della finale indiazione).
Ecco, allora, di nuovo qui ripetuta, la sua speranza per gli uomini che ne hanno inteso il significato: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato sole tramonterà [...] e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce» (Cv. I, xiii). Questo è l'augurio col quale concludo la presente Lectura sul fondamento della polisemia dantesca.