Dati bibliografici
Autore: Michele Barbi
Tratto da: Vita di Dante
Editore: Sansoni, Firenze
Anno: 1961
Pagine: 86-90
Dante intese a far opera poetica, ma non a modo nostro, bensì secondo le idee del tempo, che consentivano di pensare a poesia che non escludesse fini pratici d'ammaestramento e d'apostolato. Il concetto che della poesia abbiamo oggi sarà più giusto, e ci porta ad avvertire nel poema parti dove essa erompe, si spande e trionfa, e parti che sono piuttosto eloquenza, o figurazione concettuale, o anche semplicemente struttura: secondo Dante era tutta poesia per l'appropriata elocuzione e figurazione e per il metro; e la diversità di tono più o meno poetico nel senso moderno della parola non porta disarmonia fra le varie parti onde l'opera si compone, perché tutto è ispirato e animato da uno stesso sentimento che tenne per oltre un decennio lo spirito del poeta in uno stato come d'esaltazione e commozione fantastica, e tutto ha quel timbro, quel colorito, quell'accento che suol dirsi dantesco.
Non è già da pensare che per gl'intendimenti pratici a cui l'opera era diretta l'autore si trovasse nella necessità di far prima una specie di costruzione a sé, valendosi del raziocinio e della dottrina in luogo della fantasia e dell'ispirazione, e che soltanto dopo aver fatto il suo massiccio castello pensasse agli adornamenti. Avuta Dante l'idea che ai suoi fini, insieme artistici e pratici, niente più convenisse che una rappresentazione del mondo ultraterreno, il primo schema fu rapidamente fatto, e la creazione cominciò senza preoccupazione di sorta che non fosse rappresentare il suo mondo interiore, assecondando via via l'ispirazione del momento, foss'ella puramente poetica o mossa anche da fini diversi. Grande libertà gli concedeva questo suo iniziale concepimento, ed egli ne approfittò per soddisfare a tutti i suoi bisogni e a tutti i suoi desideri, secondo che questo o quello prevalesse: abbandonarsi all'impeto creativo, quando la fantasia lo trasportasse; cedere all'amore d'ordine e di chiarezza, dove la materia varia e lontana dai concepimenti comuni lo richiedesse; inveire e perorare, quando lo accendesse il sentimento; discutere sottili questioni fisiche e metafisiche, ogni volta che il travaglio del dubbio o la soddisfazione d'averlo chiarito l'agitasse o lo commovesse. Che si sia indugiato su certe figurazioni o costruzioni o discussioni più che al nostro gusto possa piacere; che ci si sia indugiato anche per certi concetti o preconcetti sull'arte, per certi suoi propositi di poeta della rettitudine o di scienziato e per quel suo ingegno «cupido» di sapere; che s'avverta dappertutto una forza di riflessione che organizza, or· dina, sorveglia, è da concedere: ma difficile sarebbe sostenere che insieme non si mantenga quella forza centrale del· l'ispirazione che ravviva della stessa luce, con più o meno d'intensità, ogni punto del poema, e fa sentire in ogni momento l'anima dantesca. Il genio poetico ha tenuto sin da principio, ininterrottamente, la direzione dell’opera, e tutto è nato via via con getto spontaneo dall’intimo del soggetto come Dante lo ha vissuto.
Neppure l'allegoria riesce all'opera poetica così esiziale come si figurano certi critici. A prescindere dalle allegorie o fatte credere da Dante stesso con le sue affermazioni nell'epistola a Cangrande o immaginate dalla sottigliezza degli interpreti, c'è sì un'allegoria pensata nella prima ideazione del poema, ma questa è così generica e leggiera, che non impedì o ingombrò affatto la creazione particolare successiva: si tratta di quel senso parallelo all'azione letterale per cui al viaggio di Dante dalla Selva al Paradiso terrestre dietro a Virgilio e all'ascensione pei cieli sotto la guida di Beatrice corrisponde il cammino dell'umanità verso la felicità terrena e verso la felicità celeste sotto la guida dell'Impero e della Chiesa. La felice tempra dell'ingegno poetico indusse Dante a scegliere per la sua figurazione tali personaggi da esser pienamente giustificato anche nel senso letterale quello che serve all'allegoria; sicché leggendo non abbiamo obbligo delle di pensare a un senso ulteriore a quello della lettera per godere dell'invenzione, e se siamo preparati a cogliere anche un senso più pieno, è tutto un guadagno che facciamo per nostra maggior soddisfazione. Virgilio è già per sé uno spirito che «tutto seppe» e fu cantore dell'Impero e prenunziatore di «nuovo ordine»; Beatrice è spirito beato, a cui tutto è dunque rivelato dalla sua contemplazione in Dio, e fu già in terra guida a D ante ad amar quel bene «di là dal qual non è a che s'aspiri»: per conseguenza tutto quello che fanno nel poema, anche in rapporto al fine allegorico, lo fanno con tale naturalezza e coerenza, che noi possiamo seguire sempre il poeta senza sforzo e senza difficoltà.
Figurazione diversa è quella della Selva: ma qui non abbiamo propriamente una allegoria, sì bene una metafora prolungata, che ha il doppio ufficio di dare al poeta come un punto di partenza materiale alla finzione del suo viaggio per i regni eterni e di significare quello smarrimento morale che rende necessario il suo viaggio. Se a questo smarrimento s'allude poi con frasi varie ( mi smarrii in una valle, di quella vita mi tolse costui, vo su per non esser più cieco ecc.), nessun turbamento viene per ciò alla coerenza della rappresentazione poetica: noi seguiamo senza nessuna difficoltà l'autore secondo che il fantasma poetico ci trae, a quel modo che sin nel parlare quotidiano mescoliamo continuamente espressioni figurate diverse a espressioni proprie; e se gl'interpreti hanno complicato le cose, senza contentarsi del tocco leggiero del poeta e della più evidente significazione delle sue parole, di questo non è da far conto. Così certe figurazioni simboliche sparse per il poema, come quelle delle Furie, del Veglio di Creta, di Gerione, di Catone, del Serpente, possono dar filo da torcere alla sottigliezza dei commentatori, ma ai discreti non è sufficiente quel che dice espressamente il poeta a fare intendere il loro più profondo significato?
Quanto alla figurazione più complessa che abbiamo nel Paradiso terrestre, bisogna considerare l'importanza che nell'azione del poema ha la discesa di Beatrice, la cui glorificazione è sentimento permanente in tutta l'invenzione, e la necessità poetica di destare un'attesa conveniente a un avvenimento così solenne. Certamente tutto ciò vien preparato parato anche col fine di valersene poi a comporre una profezia simbolica; ma intanto l'arte del poeta ci sa condurre nel modo più naturale fin sulla soglia di tale rappresentazione simbolica, e questa procede poi con elementi tanto evidenti, e in modo tanto rapido, ed è così connessa con la missione assegnata a Dante dalla Provvidenza, ossia con l'invenzione stessa del poema nel senso strettamente letterale, e così giustificata dal voler Dio che il poeta conosca per quel mezzo ( tanto solenne quanto conforme alle bibliche rivelazioni) la sua volontà e l'annunzi agli uomini, che cosa più fusa e più armonica con tutta la restante invenzione non si può desiderare. E se alcuno avanzasse sul serio l'accusa d'oscurità, Dante sarebbe il primo a meravigliarsene: tanto è vero che Beatrice non ha da spiegar niente al suo fedele di tutta quella visione; ha solo da dirgli: «hai visto? rivelalo al mondo disviato per suo ammonimento». Ci può essere incertezza sulla significazione del Grifone, del Carro, dell'Aquila, dell'Albero e delle vicende del Carro, se stiamo alla storia e alle idee di Dante invece che ai nostri preconcetti? Quello che più importa è d'aver fisso nella mente che la Commedia non è stata concepita, come spesso si afferma, come un poema allegorico, sibbene come una rivelazione, e che quel viaggio ch'essa descrive non è già immaginato per filare nebbia di sottili concetti, ma perché Dante possa annunziare quello che Dio ha voluto che vedesse e udisse nel suo « fatale andare » per la salvezza dell'umanità traviata: onde l'importanza della lettera nella Commedia, e la gran parte che riuscì ad avervi la pura poesia rispetto alle dottrine e agl'intendimenti pratici.