Dati bibliografici
Autore: Luigi Pietrobono
Tratto da: Giornale Dantesco
Volume: 25
Anno: 1922
Pagine: 206-210
Il Croce confessa d'essere rimasto un po' meravigliato, perché, «avendo rimeditata e definita la natura non estetica dell'allegoria, e da essa dedotte le ragioni per le quali l’allegorismo è necessariamente estraneo alla poesia di Dante come a ogni altra poesia, s'è udito da più parti rispondere: che la allegoria è una formo. cli espressione pari alle altre tutte, e che può essere, come le altre tutte, adoperata ora bene e ora. male, secondo la capacità e la disposizione felice o infelice del poeta». E certo, se, come egli ritiene, l'allegoria (parlo specialmente di quella di Dante) fosse davvero un «fare a nascondino», un « proporre e sciogliere indovinelli», una «criptografia», non ci sarebbe nulla da ridire: quello che s'è sentito rispondere egli avrebbe tutto il diritto di non considerarlo nemmeno come un'obiezione, e a noi non resterebbe che accettare, sia pure a malincuore, le conseguenze del suo ragionamento, in ogni sua parte tirato a fil di logica dal principio alla fine. Ma credo ci siano buoni motivi per dubitare che l'allegoria dantesca consista veramente in un atto pratico per cui «tali personaggi, tali azioni, tali parole della poesia debbano stare anche a significare un certo fatto che è accaduto o accadrà, o una verità religiosa, o un giudizio morale o altro che sia». Per Dante quelle immagini, quei personaggi, quelle parole non stanno, secondo me, a significare anche un'altra cosa, ma solamente, e propriamente quello che significano. L'allegoria di Dante, voglio dire, non è della stessa specie di quelle con cui nell'antichità greca si cercò di giustificare la poesia di Omero e nel medio evo quella, di Virgilio; e nemmeno si deve confondere 'con quello che fece egli medesimo nel Convivio, dove si studiò di tirare a un senso morale le canzoni d'amore composte per la Donna Gentile: non consiste insomma· in una soprastruttura elle il Poeta abbia imposta alle sue creazioni fantastiche, ma è la sua stessa creazione fantastica, la sua forma d'espressione; non l'iponoia dei filosofi, ma l' inverso dei retori. Perciò tra «l’immaginazione affettiva» dell'ode di Orazio: O navis, referent, e le allegorie di Dante non riesco a vedere nessuna differenza, per il fatto che non mi pare ci sia.
Ma poiché l'affermare non basta, mi proverò a dimostrarlo nei limiti assai modesti che mi consente la mia poca filosofia.
Anche Dante ha ragionato intorno all’allegoria e distinto nelle scritture il senso litterale, l'allegorico, il morale e l'anagogico; ma del litterale ha scritto chiaramente elle «sempre dee andare innanzi: si come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed impossibile intendere a li altri, e massimamente (il corsivo è mio) a lo allegorico». E n' ha soggiunta Ia ragione: «È impossibile, però elle in ciascuna cosa che ba dentro e di fuori è impossibile venire a I dentro, se prima non si viene al di fuori».
Ora, se non prendo abbaglio, affermando che il senso allegorico è inchiuso nella sentenza del litterale, Dante non fa di quello qualcosa di aggiunto, di estraneo e quindi di superfluo; dichiara al contrario che non si può e non si deve dividere dalla lettera, che dalla lettera prende il suo valore, s'immedesima con essa, è il di dentro che non può stare senza il di fuori, la forma senza la quale non si concepisce la materia: in breve, fa, una cosa sola con l'espressione. Onde per lui quel terzo caso che, al parere del Croce, si dimostra apertamente contradittorio, quello cioè «in cui si abbia bensì allegoria, ma tradotta compiutamente in immagini, e tale che non rimanga fuori della poesia... e non la distrugga o impedisca..., ma cooperi con essa e in essa»; per Dante quel terzo caso sarebbe proprio l'ordinario, il solo anzi che sia ammesso. Contro di lui a nulla vale il primo corno del dilemma: «se l'allegoria c'è, essa è sempre, per definizione, fuori e contra la poesia»; perché per Dante l'allegoria, proprio per definizione, è inchiusa nel senso letterale, è dentro la poesia. Nè molto più temibile gli apparirebbe il secondo: «e se invece (l'allegoria) è davvero dentro la poesia, fusa e identificata con lei, vuol dire che allegoria non c'è, ma unicamente immagine poetica»; perché anche qui gli sarebbe facile rispondere, distinguendo: L'allegoria non c'è, se la definite come criptogramma, senso sovrapposto o neoplasma; ma se per essa intendete il subietto , il dentro la materia, allora l'allegoria non è possibile eliminarla, per la semplice ragione ch'è impossibile togliere alla forma il suo contenuto.
Vero è che mi si potrebbe opporre l'autorità stessa di Dante e dire che egli distingueva, molto nettamente il senso allegorico dal letterale, citando i versi notissimi, dove invita il lettore d'intelletto sano a, mirare «la, dottrina, che s'asconde - sotto il velame de li versi strani», o gli altri in cui li esorta ad aguzzar bene gli occhi al vero. Ma distinguerli, come tutti sanno, non significa separarli. Chi distingue, unifica e non divide. Con quelle parole Dante non poteva voler dire: - Non bada te alla lettera o al velo, e ingegnatevi d'indovinare il senso nascosto sotto i miei versi. - Purtroppo non sono stati e non sono pochi coloro che le hanno intese e continuano a intenderle a codesta maniera. Ma è evidente che il Poeta vuol che alla dottrina, al vero il lettore deve giungere attraverso il velo, con l'aiuto del senso letterale, per mezzo di esso, cercando d'intenderlo in ogni suo particolare. Attribuirgli un'altra intenzione equivarrebbe a farlo parlare come chi dicesse: - Dentro questo scrigno io ho nascosto un tesoro, ma, se lo volete trovare, non pensate ad aprirlo, bensì cercate altrove. - O il vero è espresso in quei versi, o non c'è. In una poesia è impossibile trovare ciò che il poeta non ha detto; perché ciò che non è espresso, non si trova nemmeno nelle sciarade, nemmeno negli indovinelli. Chi, parlando, si propone di dir cose diverse da quelle che sono nelle sue parole [MANCA] cose non le dice affatto; e sarebbe curioso tendesse d'esser capito. Tanto è vero che anche gl' interpreti delle allegorie di Omero, o dell’Eneide dovettero muovere dal presupposto che i sensi, i quali loro andavano faticosamente appostando in quelle opere, in quei versi e in quelle parole c'erano veramente, ma significati in modo che ci voleva un acume e una preparazione speciale per saperceli scoprire. Tempo perso e spreco vano d’ingegno: senza dubbio. Ma perché? Perché quei significati non c'erano.
Ben altro è il caso cli Dante. Nella Commedia con quelle figure, con quei fatti e con quei simboli egli ha inteso di esprimere un suo pensiero: esprimerlo, non nasconderlo. L'ha espresso? Qui sta il problema. Se i suoi simboli sono indecifrabili e l'arrivare a spiegarli con certezza è un'«impresa affatto disperata, perpetuamente congetturale», la colpa non è degli interpreti, ma, sua, che non s'è spiegato, non ha fatto quello che voleva, è fallito all'intento. E ben gli sta se di quando in quando sorgano uomini che, riconosciuta questa deficienza, non si fanno riguardo di gittar a mare tutta la pesante zavorra delle sue allegorie, non si curano di approfondire l'idea che dovrebbe palpitare, e non palpita, nella, Commedia, reputano inutile occuparsi della sua architettura, e si studiano di salvare da tanta ruina solo i pezzi che sono salvabili, i frammenti cli poesia, che per buona sorte vi s’incontrano in gran numero. È il miglior servizio che si possa rendere a lui e alla nostra letteratura.
Ma, se Dante invece si fosse espresso chiaramente, e il non intenderlo dipendesse da noi? Anche in questo caso bisognerebbe far gettito delle sue allegorie, e respingerle senz'altro come vacuità poetica o bruttezza, essendo già dimostrato che dov’è poesia non è allegoria, e viceversa?
Come s'è visto, per noi la dimostrazione del Croce investe solo l'allegoria come criptografia o iponoia, e non quella dantesca. Qui aggiungiamo: per noi e per lui.
Fra le molte belle pagine del suo libro, La poesia di Dante, arrivato davanti la figura di Gerione, egli ne scrive una che in parte ci giova riportare. «Gerione, egli dice, è la maggiore incarnazione di quello che in Dante abbiamo chiamato senso possente della vitalità, della immediata e sensibile vitalità, della vitalità organica, configurata, in esseri enormi e mostruosi. Dovrebbe, Gerione, allegorizzare la frode, e questa volta il preciso significato allegorico è certo, perché l'autore stesso dichiara il suo concetto; ma nessun poetico lettore vorrà, mai inserire sull'immagine di Gerione quella della Frode e intorbidarla, o fiaccarla con quella inserzione, tanto la rappresentazione della fiera terribile, del mostro ripugnante e grandioso soverchia il concetto e vale per sé, tanto è studiata in ogni sua parte e in ogni suo moto, e, si direbbe, amata». Ma è inutile continui, perché gli studiosi di Dante quella pagina l'hanno già letta e ammirata ciascuno per conto suo. Qui mi sia permesso di domandare in quali de' due casi possibili, ragionati dal Croce, s' ha da mettere il caso di Gerione. Nel primo, «in cui l'allegoria sia congiunta ab extra con una poesia, con una vera e compiuta poesia», no di certo; perché qui il concetto non solo non è aggiunto ab extra; ma è esso il germe da cui nasce la figura. A quel punto dell’Inferno, data la legge con cui il Poeta l'ha costruito, un mostro che simboleggiasse la frode ci voleva, era indispensabile, come il tema alla sinfonia. Dante non ce l’ha messo, perché in quel momento abbia avuta l'intuizione di quella figura possente e sentita la volontà di ritrarla con le sue parole; ma perché così richiedevano le ragioni della sua arte.
Se oggi noi quel mostro lo seguiamo, ammirando, in tutte le sue mosse e non chiediamo altro; se non chiediamo perfino come mai, con Dante sulla groppa, possa scendere così sicuro nell'aria, come i pesci nell'acqua, nonostante la fisica che ci grida esser questa una cosa inconcepibile; tanto meglio: noi non possiamo che rallegrarci e godere del dono che il Poeta ci ha fatto. Ma diremo perciò che la rappresentazione supera il concetto? toglieremo a Gerione la sua origine intellettuale? riusciremo a staccarlo dalla Commedia, e a dargli un valore per sé? Ne dubito. Nella sua formidabile potenza esso ci sta davanti con lo stigma che incancellabilmente gli ha impresso il pensiero allegorizzante del Poeta. Si scelgano pure i lettori più poetici che si conoscano; con quella faccia farisaica di uom giusto, emanante col suo silenzio una segreta paura; con quel suo fusto di serpente pieno di nodi e di rotelle; con quella coda, biforcuta, levata sempre a ferire alla schiena; con quelle sue branche leonine, esso ci dice che s'ha a fare con uno di quegli esseri mostruosi, assurdi ma belli, balzati nella fantasia del popolo o d’un artista, perché figurino un'idea. La rappresentazione non supera, il concetto, ma l'incarna, lo traduce in un'immagine altamente poetica. Chi infatti rilegga attentamente la pagina del Croce, si spiegherà pure per qual ragione egli non ha tenuto nessun conto dell’allegoria. Si è commosso, e giustamente, nel veder Gerione «moversi e discendere, lento e grave per l'aria, con le grosse e faticose membra, eppur sicuro e a, suo modo agile e snello»; ma di quelle membra egli ha dimenticato l'immagine precisa e in esse non ha veduto che la immediata e sensibile vitalità, la vitalità organica, e non ha badato ad altro. Per qual ragione, se non per questa, che l'allegoria è tradotta compiutamente in immagine? e Dante ha dato col fatto un esempio di quel terzo caso che non si vorrebbe nemmeno ammettere tra le cose possibili? Salvo non si debba alle tante disgrazie del Poeta aggiungere anche questa: che ha scelte parole e immagini per manifestare il suo pensiero, e gli è accaduto, contro ogni sua aspettazione, di combinar soltanto crittogrammi indecifrabili: si è messo a scolpire Gerione per farne l'incarnazione vivente della frode, e ne ha fatto una figura bellissima, che guai a sciuparla, con l'inserzione di quella sua idea.
Il vero si è che le allegorie di Dante sono proprio altra cosa dall’iponoia dei filosofi, e si risolvono in una forma, più o meno felice, di espressione. Onde il Croce non ha una, ma mille ragioni di scrivere: «È sofisma che, per intendere certi luoghi poetici, sia necessario far precedere la spiegazione allegorica, laddove ciò che deve precedere è la conoscenza degli elementi di linguaggio, di vivo linguaggio, che in quei luoghi si atteggiano in nuova sintesi» . Non so se pensatamente, ma è un fatto che il critico qui è in perfetto accordo con il suo poeta, allegorizzante: «Il senso litterale sempre dee andare innanzi, si come quello ne la cui sentenza li altri sono inchinai», e con quanti si pongono a interpretare le allegorie dantesche, come Dante voleva che fossero interpretate, movendo cioè dalla lettera, e non dipartendosi mai da essa. Si tratta di spiegare il linguaggio del Poeta: non altro. Perché, intesa che sia la lettera, è inteso anche il pensiero che si suol chiamare nascosto, e invece, o è palese nella sua espressione o non c'è affatto. Per provarlo, prendiamo qualche esempio di quelli indicati dal Croce, come saggi del secondo caso in cui l'allegoria non lascia sussistere la poesia, e cominciamo dal più tristamente famoso, dal «pié fermo».
Detto come, uscito della selva, egli si volse a riguardarla, Dante ci fa sapere che «posato un poco il corpo lasso», riprese via per la piaggia diserta - «sì che il pié fermo sempre era 'l più basso». La maniera con cui si esprime è alquanto oscura; ma il lettore non deve renderla, più oscura andando dietro alle fantasie e agli arzigogoli dei commentatori. Li metta gabatamente da parte e si sforzi di penetrare il senso giusto di tutte le parole, servendosi degli elementi fornitigli dal Poeta. Il quale era uscito da poco da una selva, selvaggia, che lo aveva, fatto quasi morir di paura, e si sentiva assai stanco. In tali condizioni, egli racconta, mi rimisi in via, attraverso la piaggia diserta, - in qual modo? - così che poggiavo sempre la persona sul piede ch’era più basso, più vicino al basso loco della selva. È proprio un discorso da cui sia impossibile ricavare il senso? Sarà, per chi non bada che il sempre, una volta che ci si rappresenta andante, non può voler significare che il piede gli era rimasto addirittura attaccato alla terra, ma che di fermar a terra la pianta del piede più basso gli accadeva quasi di continuo; come quando diciamo che in Italia fa sempre bel tempo, o che uno brontola sempre, studia sempre, e simili. Ancora più lontano andrà chi vi introduce l'idea stranissima che la piaggia diserta si slargava in un piano perfetto. Dove mai le piagge dei monti sono pianure a puntino livellate? E perché a chi vi dice di camminare così che, ossia a un certo modo, si vuol far dire che camminava per un certo luogo, quando il luogo per cui camminava l'ha chiaramente indicato? - per la piaggia diserta.
M’illuderò; ma, preso in se stesso, il verso dice con sufficiente chiarezza che camminava stanco e incerto, si sentiva attratto, nel momento di riprender via, più verso il basso della selva che l'altezza del colle. E non entro a dimostrare come questo significato sia reso certo da moltissimi altri luoghi della Commedia, da tutti quelli cioè in cui ritorna il motivo della piaggia. A me basta affermare che la lettera di quel verso non sopporta un altro senso. Chi davanti un'erta, prima ancora di cominciarla a salire, si ferma quasi sempre sul piede più basso, vuol dire che cli salirla non ha una gran voglia, è tentato più di rimaner lì che affrontare la fatica dell'ascensione. Ora spiegato il senso letterale, è spiegato anche l'allegorico. Il di fuori equi vale al di dentro, che vuol dire: camminavo assai lento verso il bene. Faceva come tutti, quando dalla vita viziosa tornano alla virtuosa, che non riacquistano subito quell'energia di volontà che si richiede, sono sulle prime incerti, ci ripensano e spesso riguardano indietro; sopportano, com'è inevitabile, le conseguenze delle loro colpe, fanno la loro convalescenza.
Altri esempi il critico ravvisa nel Veltro «che non ciberà terra né peltro, ma sapienza e amore e virtude, e avrà nascita tra Feltro e Feltro», e la lupa che «molte genti fe' già viver grame», e il bel fiumicello che si passa «come terra dura», e simili. Ma credo che nessuno senta il bisogno gli si dimostri che qui si tratta di metafore pure e semplici, di modi di dire. Qual lettore infatti nel Veltro, con la iniziale maiuscola, vedrà un cane vero e proprio? e qual altro non tradurrà immediatamente le parole «non ciberà terra né peltro» nelle altre: non sarà cupido di ricchezze; e non capirà che, quando un fiumicello si passa come terra dura, vuol dire che si passa senz'alcuna difficoltà? Quanto poi all'espressione «tra feltro e feltro», è chiaro che essa doveva essere di necessità circondata di mistero: è una profezia; e nelle profezie mettere i puntini sulle i è pericoloso.
Purtroppo c'è nella Commedia allegorie che, qualora s'argomentasse dai fiumi d’inchiostro versati intorno a loro, s'avrebbero a chiamare e non si potrebbero chiamare altrimenti che criptogrammi, indovinelli, rompicapo o geroglifici; come la selva, la piaggia, il colle, le tre fiere, Medusa, le furie e altrettali. Ma anche qui non si tratta che d'interpretare il linguaggio del Poeta, anche qui basta l’explanatio verborum, se il linguaggio s' intenda nel senso definito dal Croce, qualche cosa di estremamente mobile, perché estremamente vivo, e di quella vita che i vocabolari ignorano, ma risulta dall’insieme dell'opera di cui è parte. Dei motivi ch'egli pone nel primo canto Dante torna a parlare più e più volte nel suo poema, per cui la selva è in relazione con la divina foresta del Purgatorio e con la candida rosa del Paradiso, oltre che con tutto il baratro infernale; le tre fiere riappariscono continuamente lungo il suo viaggio, come riappariscono le piagge e le tre furie, che altro non sono se non una delle tante reincarnazioni del male; il Gorgon, per cui si è invocato perfino un novello Edipo, ha la sua spiegazione nella faccia medusea di Cavalcante, che il Poeta ci presenta subito dopo, facendola sporgere dal mento in su fuori della tomba degli epicurei; ci si mostra, di nuovo in quelle dei tre fiorentini giranti a ruota sotto il fuoco che piove sull'orribil sabbione; in quelle, stravolte, degli indovini che camminano a ritroso con il volto tornato dalle reni; parla in Bertran dal Bornio, fa la sua ultima apparizione in Dite. Per ridire in quanti modi il Poeta varia l' immagine del «pié fermo», bisognerebbe ripercorrere piri che mezza la Commedia e giungere alla luna, che è la piaggia del monte altissimo del Paradiso, dove Dante si volge per vedere quelli che crede «specchiati sembianti» delle anime belle lì relegate per manco di voto, e Beatrice, sorridendo, gli dice che il suo piede non fida ancora sul vero, ma lo «rivolve a vuoto», come al solito, e come faceva appunto sulla «piaggia diserta», davanti la lonza, quando fu per «ritornar più volte volt». E così via.
Dante ha parlato chiaro. Il gran disputare che si è fatto e si fa sopra i suoi simboli dipende dall’averli voluti interpretare uno per uno, separatamente, prima di finir di leggere, e quindi d'intendere tutta la Commedia, con un metodo che non si usa con nessuno, perché non è nemmeno un metodo, ma una stolta pretesa, quella di ridurre in parti un organismo vivo, e poi mettersi a cercare le ragioni e le funzioni di ciascuna. Fuori dell'opera in cui vivono, le parti non hanno più significato: la mano non è più mano e l'occhio non è più occhio, insegna va Aristotele.
Stando così le cose, si veda se sia, lecito concludere che il decifrare l’allegoria di Dante è «un’impresa affatto disperata, perpetuamente congetturale, e, tutt'al più, capace solo cli aspirare a certo maggiore o minore grado di probabilità». Con Dante possiamo, e però dobbiamo, giungere alla certezza. Di un «ben fissato sistema criptografico» non si ha nessun bisogno. Abbiamo quello sicuro che vale per ogni poeta, l'explanatio verborum, e non si dove chieder altro.
Con ciò non voglio dire che la battaglia fortemente combattuta dal Croce, non contro le allegorie che non ci hanno colpa, ma contro Ia grandissima maggioranza degl'interpreti improvvisati, non abbia i suoi meriti. Ne ha molti e grandi. E noi ci aggiungiamo volentieri a coloro che si augurano di vedere, dopo di essa, confusa e sgominata la innumerevole turba, quantunque la speranza che i suoi insegnamenti siano messi in pratica, convien confessarlo, sia, poca.