Dati bibliografici
Autore: Luigi Pietrobono
Tratto da: Il Giornale Dantesco
Numero: 40
Anno: 1937
Pagine: 4-5
[…] In un altro punto non convengo con il Moore, in quello che riguarda i quattro sensi delle scritture. Fra la teoria del Convivio e quella dell'Epistola una differenza c'è, ed è inutile negarla. Già fin dal primo capitolo del suo trattato il Poeta dichiara che intende mostrare le sue canzoni «per allegorica esposizione... appresso la litterale istoria ragionata» (I, i, 18); ha in mente cioè di chiarire sopra tutto due dei quattro sensi che ordinariamente si solevano ricercare nelle scritture. Passando poi all'esecuzione del suo disegno, prima riafferma la sua intenzione: «sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica» (II, i, 2); e poi, quasi perché il lettore non lo accusasse d'ignoranza, apre una parentesi ed entra a parlare dei quattro sensi secondo i quali massimamente «le scritture si possono intendere e deonsi esponere» (II, 1, 2); ma per concludere, come aveva cominciato: «Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentalmente, come a luogo e a tempo si converrà» (II, i, 15). Dante insomma si occupa principalmente, anzi quasi esclusivamente di due sensi: del letterale e dell'allegorico, ossia della lettera, fondamento agli altri sensi, e della «veritade ascosa sotto bella menzogna».
L'Epistola al contrario, detto che la Commedia ha più sensi, continua dichiarando che il primo di questi dicitur litteralis, secundus vero allegoricus, sive moralis sive anagogicus: insegna cioè che oltre il letterale ci può essere un senso allegorico, uno morale e uno anagogico. Se non che, venendo a spiegare il senso morale del versetto: In exitu Israel de Egipto, dichiara che se guardiamo all'allegoria per mezzo di esso nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; lo interpreta cioè attenendosi all'insegnamento di San Tommaso e scostandosi da quello di Dante. Nell'art. X della I' Quaestio della Summa Theologica si legge: secundum quod ea, quae sunt veteris legis, significant quae sunt novae legis, est sensus allegoricus; mentre Dante l'allegorico lo fa consistere nel nascondimento di una verità sotto bella menzogna. E si badi bene che il Poeta sa ottimamente che i teologi «questo senso prendono altrimenti»; ma a lui piace prender «lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» (II, I, 4). Non è tutto. Continuando le sue spiegazioni l'Epistola aggiunge che «sebbene codesti sensi mistici si designino con vari nomi, si possono in genere chiamare tutti allegorici, essendo diversi dal senso letterale o storico»; fornisce cioè un'altra prova che l'autore ha presente la dottrina dell'Aquinate, secondo la quale sensus spiritualis trifarium dividitur, in allegorico, morale e anagogico (loc. cit.). Nel Convivio si cercherebbe invano tale riduzione: Dante parla di quattro sensi nettamente distinti senza far mai segno di voler comprendere gli ultimi tre né sotto il genere spiritualis di San Tommaso, né sotto il misticus dell'Epistola (par. 7). Il senso allegorico sta da sè e ha un valore diverso da quello assegnatogli nell'Epistola.
Non è dunque esatto affermare che il Convivio stesso riconosca la doppia divisione come un'alternativa e cominci ponendo questa doppia divisione di letterale e allegorico, e poi distingua l'allegorico in allegorico propriamente detto, in morale e in anagogico. Per Dante i sensi che importano sono il lettorale innanzi tutto e sopra tutto, e poi l'allegorico. Tocca degli altri e li definisce per dar prova del suo sapere e, possiamo soggiungere, della sua indipendenza.
Allora per qual motivo il Poeta, apprestandosi a chiosare il Paradiso, ch'è opera di poesia senza paragone molto più grande delle canzoni conviviali, avrebbe creduto conveniente abbandonare il modo dei poeti e attenersi a quello dei teologi? Per noi, che non crediamo alla genuinità dell'Epistola, la cosa è evidente. Il brav’uomo che mostrò cli volersi accingere all'immane lavoro d'illustrare la terza cantica, non sapeva nulla dei quattro sensi come sono esposti nel Convivio, ma conosceva benissimo la teoria di San Tommaso e di altri teologi, e di questa si servì. Senza volerlo lo concede anche il Moore, sia dove insiste nel rilevare che in fondo i quattro sensi si riducono a due; sia dove conclude: «Nota altresì quanto la descrizione di questi metodi data dall' Aquinate sia applicabile esattamente agli esempi dati di ognuno in questa epistola, così che, se il presente scrittore è «solo riuscito a tracciare tre gradazioni in un senso», San Tommaso «non è riuscito a far nulla di più». Credeva cli chiuder la bocca al D'Ovidio, e non si accorgeva di fornir la dimostrazione che gl'insegnamenti del Convivio su tale materia si differenziano tanto nettamente da quelli dell'Epistola, quanto più da vicino l'epistolografo riproduce le dottrine tomistiche.