Canto IX dell'Inferno [Aulo Greco]

Dati bibliografici

Autore: Aulo Greco

Tratto da: Lectura Dantis Neapolitana

Editore: Loffredo, Napoli

Anno: 1981

Pagine: 3-15

Scriba Dei: è questa la missione che Dante ha volontariamente assunta, una missione spirituale e terrena. È disceso all'inferno per volere del cielo, ma il viaggio, deciso da Dio, non è destinato a risvegliare l’interesse o la meraviglia, bensì a correggere gli uomini, tutti gli uomini, ai quali dovrà narrare ciò che ha visto e ciò che ha inteso. La Commedia pertanto per la sua stessa destinazione è un’opera che, nonostante l'alta visione del disegno generale, si va componendo e sviluppando nello stesso momento creativo. I timori ed i rischi del viaggio sono stati già trattati e risolti da Dante nei canti precedenti, le paure e le ansie hanno dato estro a pagine dense di poesia; un momento sublime di trepidazione ha trovato spazio nei canti VIII e IX. Le qualità peculiari della Commedia, le componenti fondamentali risultano più vigorosamente saldate in un contesto che possiede i caratteri che il Poeta illustra, sia pure rapidamente, nelle pagine del Convivio. In sostanza la polisemia dantesca raggiunge ora una felice realizzazione, così traspaiono in modo evidente il senso letterario e quello allegorico, quello morale e quello anagogico. L’avventuroso e vario itinerario si colora di inesauribile attualità, la discesa nel buio cavernoso e tra i rossi fuochi dell’inferno affascina il lettore della prima Cantica, per quella «deformis formositas ac formosa deformitas» di cui parla San Bernardo. L’esperienza della poesia coinvolge e supera le esperienze umane, si immedesima nelle concezioni medioevali, riflette immagini che hanno tanto campo nelle sculture delle chiese romaniche, assorbe la totalità della dottrina filosofica, tramanda le condizioni civili e politiche del tempo, rinnova le speranze e denuncia le calamità spirituali e materiali. Ecco che il nobile ideale raggiunge i vertici più alti, al pari della Summa di San Tommaso, distinguendosi da essa per il colore espressivo del linguaggio, per la esasperata attenzione alla realtà, come per la completezza enciclopedica intenta a trattare insieme la materia terrestre e quella celeste.
Dante aveva raccontato di essere fortemente incerto nell’impresa: «Io non Enea, io non Paolo sono» , solo la volontà divina lo aveva spinto a scegliere la sua alta missione. Eppure i timori, le perplessità resisteranno a lungo, non solamente nell’Inferno, nel cui II canto il Poeta ricorda le parole di Beatrice rivolte a Virgilio: «Temer si dée di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male / De l’altre no, ché non son paurose». Se riflettiamo su questo avvertimento, e pensiamo alla tensione lirica del canto IX, ne avvertiamo immediatamente l’intensità drammatica, il che ci consente di stare dalla parte di coloro i quali si premurano di avvertire il lettore di non cadere nell'errore di leggere la Commedia per episodi, ma piuttosto di tener presente la forte unità. D’altra parte il Poeta avanzando nella composizione dell’opera dimostra via via una maggiore maturità artistica, una più forte capacità espressiva, una più sapiente esposizione dottrinale.
Ha scritto un grande dantista, il Pietrobono, a proposito della cultura del Novecento che «il Novecento, lo so, proclama che la miglior tradizione consista nel non averne nessuna. A costo d’essere relegati subito fra i sorpassati, confessiamo che un simile principio non ci trova disposti ad accoglierlo. Il presente, lo voglia o non lo voglia, altro non è che una continuazione, e quindi uno svolgimento del passato. Siamo quel che abbiamo avuto la virtù e il potere di farci a grado a grado. Immaginare di staccarci, con un taglio netto e reciso, dal tempo che fu equivarrebbe a supporre che si possa venire alla luce senza né padre né madre» . Un tale discorso può riferirsi giustamente al divino Poeta, nei cui confronti non mancano talvolta coloro che insegnano ai loro scolari che la Commedia non ci dice più nulla, e non merita che si legga. Ora al contrario noi dobbiamo piuttosto domandarci se invece dalla sua lettura possiamo ricevere certe risposte che determinano la nostra stessa esistenza. Pertanto rileggere Dante significa istituire «una ricerca dove l’ansia per la verità risulta profondamente sentita, non costituisce una pura aspirazione teorica, ma chiede una risposta implicitamente gioiosa e sofferta.
Con tali propositi avviamoci dunque insieme con Dante e Virgilio verso la città di Dite, allorché tornano i pericoli morali dopo quelli della selva. Nella seconda metà del canto VIII i poeti avevano tentato di entrare nella «città cha nome Dite». L'opposizione di quei demoni «più di mille» aveva reso vano ogni tentativo, ma il poeta latino, consapevole della missione affidata a Dante aveva rassicurato il pellegrino terrestre che il viaggio sarebbe continuato; avrebbero lasciato i sobborghi della città infernale dove era punita l’incontinenza, per penetrare nel luogo dove si scontavano peccati ben più gravi, e quando i demoni gli avevano chiuso la porta in faccia, egli aveva gridato: «Tu, perch’io m’adiri, Non sbigottir, ch'io vincerò la prova», anticipando così gli avvenimenti che si sarebbero svolti nel nostro canto.
Il primo lettore pubblico di Dante, Boccaccio, afferma che: «Continuasi l’autore in questo canto al precedente in cotal guisa: egli ha dimostrato davanti come Virgilio, essendogli stata serrata la porta della città nel petto, egli tornasse a lui con sospiri e con rammarichii: e dobbiam credere che, per la turbazion presa di ciò, egli altro colore che l’usato avesse nel viso; il qual colore nel principio di questo canto dice l’autore che egli ristrinse dentro, veggendo lui per viltà aver similmente mutato colore. E dividesi il presente canto in cinque parti: nella prima delle quali essendo l’autore per certe parole di Virgilio entrato in pensiero, muove un dubbio a Virgilio e Virgilio gliele solve; nella seconda discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre Furie e udissele gridare; nella terza pone la venuta del Gorgone e come da Virgilio gli fussero gli occhi turati acciocchè non vedesse; nella quarta descrive la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive essere stata la porta della città aperta; nella quinta e ultima pone come nella città entrassero, e quivi vedessero in arche affocate punire gli eresiarche» .
Proprio così avviava la sua lettura il Boccaccio in uno dei primi giorni di novembre del 1373, nella chiesa di Santo Stefano di Badia, di fronte a un pubblico formato in gran parte di gente del popolo, benché non mancassero uomini colti, letterati e teologi. D’altra parte non si può fare a meno di sottolineare l’importanza dei commentatori più antichi, i quali certamente intendevano meglio di noi il senso vero della Commedia, così sinteticamente espresso nella nota epistola a Cangrande, che, a parte la questione dell’attribuzione, riflette chiaramente il pensiero dell’Alighieri a proposito del senso anagogico del Poema: «significatur exitus animae sanctae ab huius corruptionis servitute ad aeternae gloriae libertatem» . In sostanza il lettore della Commedia non deve dimenticare che Dante si presenta qui come uno spettatore il quale partecipa pienamente alla rappresentazione e che quindi fonde nel suo pensiero lettera e moralità, analogia e anagogia. Non si tratta di belle vesti che ricoprono la materia, ma piuttosto di un corpo in cui i vari elementi costituiscono un tutto organico, in un nesso intrinseco che supera il momento episodico:

Quel color che viltà di fuor mi pinse,
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.

Un attento esegeta non può fare a meno di avvertire la tendenza al carattere figurale che qui balza all'improvviso, e fa sì che poeta e lettore partecipino insieme della: stessa impressione. Il colore della pallidezza Dante lo aveva già descritto, quando aveva detto dei dannati: «Ma quell’anime ch’eran lasse e nude, Cangiar colore e dibattieno i denti, Ratto che inteser le parole crude», e ancora appresso: «Or discendiam qua giù nel cieco mondo», cominciò il poeta tutto smorto: «Io sarò primo, e tu sarai secondo». E io, che del color mi fui accorto, Dissi: «Come verrò, se tu paventi, Che suoli al mio dubbiar esser conforto?» Ed elli a me: «L’angoscia de le genti Che son quaggiù, nel viso mi dipigne Quella pietà che tu per tema senti». Si può fare un accostamento fra questi versi e la nostra terzina? Certamente, anzi direi più propriamente un confronto. Il pallore di Virgilio si è trasferito sul volto di Dante, allora il Poeta ha creduto che quel pallore tradisse la paura, Virgilio gli ha spiegato che si trattava di pietà. Ma ora Dante ha veramente paura, al contrario Virgilio corre il rischio di far imporporare di rosso le sue gote per l’ira contro i demoni che vogliono invano, ma nel modo più rozzo e villano, contrastare la volontà divina. Se non che là il dialogo scorre più disteso, chiaro e semplice, sembra in qualche misura frenare l’azione, la parola ritarda il dramma e il dubbio crea di per se stesso l’esitazione, qui invece più icasticamente le immagini si sovrappongono alla parola e la forza dei sentimenti offre rinnovato vigore all’azione. Il rossore di Virgilio dovrebbe esprimere irritazione e forse vergogna, non riuscendo egli ancora a vincere la prova. Ma esso non traspare, poiché il colore dei personaggi si deve automaticamente trasferire sulla scena che non merita altro colore che quello della pallidezza. E il quadro o la rappresentazione si arricchisce di una figurazione nuova, più fortemente incisiva e immediata. Il poeta latino dopo aver frenato il moto interno dell’anima:

Attento si fermò com’uom che ascolta;

La ragione non è riuscita a superare l'ostilità dei demoni, e quindi dirà ancora il Boccaccio che l’aiuto divino deve arrivare di lontano, e perciò farsi sentire, ed allora è necessario tender l'orecchio. Ma anche questo, aggiungeremmo noi, è un atteggiamento plasticamente espresso, che conferisce alla rappresentazione un elemento più efficace. D'altra parte la poesia del canto risulta intensamente drammatica, e si incentra nella parola che con la sua forza semantica accompagna e sublima l’azione. Indubbiamente questo verso in sintesi esprime un'efficacia innegabile, e significa contemporaneamente l’affettuosa sollecitudine del poeta antico, e fa da prologo dopo la didascalica spiegazione derivata da un chiaro raziocinio. Dante doveva assolutamente tendere l’udito, poiché la vista non poteva spingersi oltre:

per l’aere nero e per la nebbia folta.

Ormai il monologo dantesco risulta interrotto, la viltà non ha più posto, anche se la debolezza umana è sempre presente, gli ostacoli reali e metaforici dell'oscurità dell’atmosfera e della nebbia vengono trascurati momentaneamente per un’esigenza dialettica:

«Pur a noi converrà vincer la punga»,

le prime parole dette da Virgilio sono direttamente attinte dal linguaggio militare, l’approfondimento della coscienza del peccato, la presenza della città di Dite con le sue mura e le sue torri, la schiera dei demoni, proterva e ostile, sollecitano un animus militare per vincer la punga, la battaglia (punga è una forma arcaica di pugna, in analogia con spunga per spugna). Mette conto ricordare come la parola latina sia una voce dotta registrabile nella poesia di Jacopone. «L’Inferno è la bestia non doma che pone perfin l’intelligenza al servizio dell’istinto» , è stato detto, ma proprio questo è ciò che Dante vuol fare intendere, nel suo rigoroso ragionamento, aspirando a costruire una «poesia dell’intelligenza», che gli consente continuamentente di sdoppiarsi nei personaggi e nelle situazioni più diverse: il pallore del poeta, l’ira repressa di Virgilio e l’anelito a vincer la punga sono i momenti più avvertibili di un armonico e coerente sviluppo psicologico, che riprende consistenza nella sospensione, quale appunto l’attesa fra fede e speranza, concisamente espressa nelle icastiche parole:

«Se non... Tal ne sofferse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!»,

nelle quali si fondono la promessa di Beatrice, quindi il volere di Dio e l’attesa dell’arrivo del messo celeste. Ma ecco poi che il lavoro di scavo dell’animo umano scopre una nota non meno insistente, l’approfondimento dell’investigazione del faticoso e difficile cammino dell’uomo, con un’indagine acuta e sottile, che il Poeta persegue nel «Io vidi ben», che sottintende una ricerca sistematica e attenta, un segno dell’intelligenza accorta ma sofferente, che esprime insomma tra le sue pieghe più riposte in modo evidente il dubbio e il timore. L’indeterminatezza e le esitazioni si traducono appunto in espressioni verbali collocate una di seguito all’altra, ma non in modo casuale, in una successione di atteggiamenti e di perplessità che conducono all’affermazione finale:

ma non di men paura il suo dir diemme,

si tratta di una paura scaturita dalla lotta incessante tra la fede e il dubbio, realizzata con un perfetto procedimento retorico, che si identifica in una scena non priva di suspance, e che si trasforma in un sentimento meglio definito che non fosse il «se non...» del v. 8. Si passa quindi dal dubbio al timore, e ad un timore tanto grave:

perch'io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.

Ma un discorso del genere, così denso e affinato, rivela decisamente le orme del processo stilistico del parlato, particolare al dialogo comico, con le spezzature e le pause, le reticenze, le negazioni e le affermazioni, che rispondono ad un preciso ritmo verbale. Così mentre riviviamo la sublimazione di un tono discorsivo, ci accorgiamo che l’eloquio procede volontariamente con un lessico aspro, ma efficace. Eppure qualche critico ha osservato che questo principio del canto, dove la scena è chiaramente dominata dalla dialettica «è stanco e non ben congegnato», osservazione che a tutta prima sembrerebbe ricca di suggestione se non si tenesse conto degli archetipi linguistici e delle movenze sintattiche, che si realizzano in quella stretta unità articolata in un parlato vigoroso e robusto, denso di scarna, ma forte concisione ed incisività. Quindi alla descrizione dei sentimenti fa seguito la domanda porta con estrema circospezione e delicatezza:

«In questo fondo della triste conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?»

L’ultimo verso della terzina completa il riferimento alle anime del Limbo, la cui pena, a pensarci bene, è una qualità puramente umana e riflette lo spirito del Poeta, quale può essere per un uomo, un uomo di forte tempra morale, proprio come Dante, e come egli giudica che sia pure Virgilio. «La speranza cionca», ma nel canto IV aveva detto «sol di tanto offesi, Che sanza speme vivemo in disio». Direi che se lì siamo di fronte alla sofferenza scaturita dall’inappagabilità del desiderio, qui invece diveniamo testimoni della disperazione; forse è proprio il clima più drammatico e intensamente doloroso che rende più aspra e insanabile la pena, lì in certa misura il tono dell’idillio, qui invece una nota più decisamente tragica: cionca sta per tronca, mutilata, monca, così spiega il Buti, che non ha speranza di grazia , ma meglio il Boccaccio: «mozza e separata da sè la speranza» , e quindi assente qualunque traccia di «disio».
Ma poi le esigenze del canto richiamano alla mente del Poeta la conoscenza della cultura classica assunta paradigmaticamente per offrire corposità alla scena, tramite l’apporto di due poeti, Virgilio e Lucano, in tal modo si vengono a fondere fantasia e realtà allorché si ricordano le qualità magiche di Eritone. Dante, mescolando qui in un unico racconto la testimonianza dell’Eneide sulla Sibilla, guida di Enea, scesa nell’Ade con l’aiuto di Ecate «ipsa deum poenas docuit perque... duxit», e il racconto di Lucano a proposito della maga Tessala Eritone, che fece tornare sulla terra un soldato morto combattendo, per rivelare a Pompeo l’esito della battaglia di Farsalo, inventa una discesa di Virgilio all’inferno, in seguito agli scongiuri di Eritone per trarre «uno spirto dal cerchio di Giuda». Questa figura mitologica si inserisce pure nel disegno della costruzione dantesca, è il personaggio che Lucano dice fera, effera e tristis , che Dante definisce cruda come Manto. Ma oltre alla simmetria antitetica, come avverte il Porena, la fantasia del viaggio virgiliano e di quella attuale, fra quello intrapreso vinto dagli esorcismi di una maga e questo per la preghiera di una santa pietosa, bisogna distinguere almeno due cose, la prima che il primo viaggio era stato necessario per conoscere il futuro di un avvenimento prossimo, la seconda che questo ha per oggetto la purificazione dell’uomo. Ma ora anche Dante vorrebbe conoscere che cosa avverrà di lui, se la sua speranza non sarà cionca. D'altra parte se egli ha presente alla memoria l’Eneide, conosce pure la Bibbia, che nel Libro dei Re ricorda che Saul evocò per mezzo della maga Endor l’anima di Samuele per conoscere l’esito della battaglia contro i Filistei . Qui invece l’Alighieri preferisce servirsi del mito pagano, perché Eritone risponde meglio ai suoi propositi, essa è scesa realmente nell’Ade, e poi qui appare come la prima figura mitologica cruda, quindi terribile e terrificante, preannuncia con il suo arrivo l’apparizione delle altre non meno feroci e crudeli. Da poco tempo il corpo di Salomone era stato privato dell’anima quando accadde l’avvenimento, ora invece il tempo è lontano, e Se la guida ben sa che il volere divino è sicuro, il vivo Dante, il cui spirito è gravato ancora dal peso della carne, resta incerto e dubbioso, egli non possiede una fede abbastanza salda. Di qui deriva la preferenza per un racconto fantastico attribuito a Virgilio, per un episodio accaduto per forza di magia per rafforzare l’animo titubante del discepolo, in un’occasione in cui non Sono le forze magiche a recare soccorso, ma Dio stesso. E prosegue il racconto di Virgilio per aiutare il disviluppamento dell’anima dell’Alighieri dai timori e dalle debolezze derivanti dalla condizione di essere vivente. La descrizione serve a confermare nel pellegrino la verità di una narrazione sempre più immaginaria e fantastica, come tutto il viaggio. La Giudecca è:

‘l più basso loco e ’l più oscuro,
e 'l più lontan dal ciel che tutto gira:

e poi ancora parole di conforto e di incoraggiamento per l’anima turbata e inquieta:

ben so il cammin; però ti fa sicuro.
Questa palude che ’l gran puzzo spira,
cigne dintorno la città dolente,
u’ non potemo intrare omai sanz’ira».

È un racconto in cui la pietà filiale viene manifestata con parole piane e suasive, dove la realtà del terribile e prossimo momento viene celata, tuttavia quel «però ti fa securo» richiama immediatamente alla mente di Dante l'impegno della sua missione; lo scriba Dei deve essere pronto a sostenere una lunga guerra, di cui si è già parlato nel I canto; l’anima in questa sua pratica di esaltante devotio deve essere consapevole del disegno. Così mentre il poeta latino sviluppa un discorso quasi preordinato, che non pare affatto ozioso quando si pensi alla sua funzione meditativa, in pace con tutta la situazione dantesca, ecco che altre e più terribili figure del mondo antico si presentano alla mente di Dante, che ne realizza plasticamente le immagini e i gesti. AI pensiero della Città dolente, alla minaccia dell’ira succede la visione che allontana d’improvviso l’attenzione del pellegrino, per cui egli riesce appena a notare come un arido cronista:

E altro disse, ma non l'ho a mente;

a far quasi meglio intendere l'immediato apparire delle Furie. - Si riprende qui, osserva giustamente il Momigliano - il motivo interrotto nel canto VII . Lo stile agitato da scatti, urti, sibili rende le immagini parossistiche delle Furie e si riallaccia vagamente alla pittura delle mura di Dite: «E io: Maestro, già le sue meschite Là entro certe ne la valle cerno, Vermiglie come se di foco uscite Fossero». Ed egli disse: «Il foco eterno Ch’entro l’affoca le dimostra rosse». Ed è noto che nella descrizione delle Erinni il Poeta ha attinto da varie fonti classiche, Virgilio, Ovidio e in particolar modo Stazio. Ma indubbiamente la storia leggendaria delle tre sorelle nate dalla Notte e da Acheronte aveva impressionato le menti dell’età medioevale, una testimonianza efficace è conservata anche nelle arti figurative, come ad esempio nel famoso mosaico pavimentato di Pantaleone, composto nel XII secolo nel duomo di Otranto, dove, come è stato osservato, le tre divinità infernali sono anguicrinite, sanguinanti, dritte, cinte da idre fra un groviglio di serpentelli e di ceraste intorno alle tempie. Le figlie dell'Erebo furono

[...]

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’'asconde
sotto il velame de li versi strani.

È il richiamo alla luce della ragione, poiché il senso va oltre il comune significato letterale. Ma poco spazio resta alla meditazione, poiché il quadro già muta e la scena si arricchisce di luce nuova con l’inserimento dei fenomeni naturali che richiamano l’attenzione del pellegrino, il quale fruisce del messaggio non attraverso gli occhi, che debbono rimanere chiusi, ma attraverso l’udito. La musica di una drammatica sinfonia colpisce la fantasia del viandante per mezzo della commistione di suoni rapida e varia:

E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento
per cui tremavano amendue le sponde,

non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva, e sanz’alcun rattento

li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,

Alla natura deforme delle immagini demoniache corrisponde allora la grande tempesta, che della natura possiede i caratteri autentici, ma nello sprigionamento selvaggio delle sue forze indica l’impronta dell’ira divina, pure essendo di monito per la futura salvezza. La scena è solenne e maestosa, paurosa la descrizione fisica del fenomeno, lo sconvolgimento delle acque, lo scontro delle onde contro le opposte rive, il vento che si fa via via più impetuoso per il riscaldarsi dell’aria, che nel crescere in volume si scontra con le colonne più fredde, la rovina della foresta, la fuga degli esseri animati. Un’azione che si svolge secondo ben note gradazioni retoriche, e con il rispetto della scenografia procede rapida e incalzante, al pari delle agitazioni e dei turbamenti nel viaggio di redenzione, nella guerra sempre più dura e difficile contro il male, con una pausa che è pure un’intrusione necessaria, l’arrivo del messo celeste. Solo in quel momento Dante può tornare ad usare la vista e appuntarla dove «quel fummo è più acerbo», in parallelo con la fantastica e pur naturale descrizione della tempesta, scaturita dalle sensazioni dell’udito, si distende ora alla vista dell’arrivo del messo del cielo, con una similitudine di pari forza che denuncia smarri- mento e timore e si svolge in modo più determinato e preciso. Come gli animali e i pastori fuggono di fronte allo scatenarsi furioso degli elementi naturali, anche le anime distrutte fuggono all’arrivo del rappresentante della giustizia divina. Qui l'angelo, il cui muoversi «con le piante sciutte» sulla palude Stige, il cui gesto di menar la sinistra avanti spesso, per cui «sol di angoscia parea lasso», possiede - avverte acutamente il Momigliano - «la significazione insanabile e isolante dei gesti dei profeti e delle sibille di Michelangelo». Angoscia sta qui nel significato di molestia, fatica spesa nel rimuover «l’aere grasso» per uno abituato non già all’aria grave della palude, ma alla pura atmosfera celeste.
Ma l’immagine acquista maggiore incisività dal silenzio e dal rapido procedere, dallo stupito atteggiamento del Poeta, dalla sua intelligente curiosità, espressa in modo conciso e fuggevole, con un gesto, un cenno appena: «E volsimi al maestro», parole che bene si inseriscono nell’azione drammatica e hanno la funzione di una didascalia, cui Virgilio risponde pure in silenzio con un altro gesto altrettanto eloquente «e quei fe? segno Ch’i stessi quieto ed inchinassi ad esso». La parola allora lascia lo spazio, ogni spazio all’azione, il cammino dell’angelo, la fuga delle anime, i gesti d’intesa tra i poeti. Sono circa venti versi nei quali il colloquio non ha più posto, e soltanto dopo un’azione motoria e gestuale giova la comprensione della lettera:

Ben m’accorsi ch’elli era dal Ciel messo.

Ma ciò che soprattutto colpisce la fantasia del Poeta è il di lui disdegno:

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

L’angelo in quanto messaggero divino era una figura dell'Antico Testamento, gli angeli avevano accompagnato gli ebrei nel loro viaggio. Qui il disdegno mette in luce la loro alta missione, l’angelo si misura con la ragione umana, che le è naturalmente inferiore, come lo è di fronte ai misteri divini. Virgilio aveva tentato di parlare e spiegarsi con i demoni, la ragione umana aveva fatto il suo tentativo, ma l’angelo per la sua divina natura non apre un colloquio con il male (ben diverso sarà il suo atteggiamento e la sua funzione nel Purgatorio); il male sentendo la sua inferiorità, fugge di fronte a lui, si abbatte e si arrende, apre immediatamente la porta della fortezza, in modo che il volere divino si compia e quindi l’itinerario dell'anima proceda verso Dio. L’angelo arriva alla porta di Dite e l’apre con la «verghetta», il segno del suo comando.
Ma Stazio, il poeta antico, fa che Mercurio plachi con la verga l’ira di Cerbero:

Venne a la porta, e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

Dice Dante, così come nel canto I, ad un certo momento i dubbi e D ansie vengono meno; ma mentre potremmo affermare che in quel luogo DI vittoria sembra scaturire dalla forza della ragione, qui in modo diverso è la volontà di Dio che si realizza per mezzo dell’azione del messo e coincide con il suo fine. Ed ecco la forte reprimenda dell’angelo, che si svolge simmetricamente con i gesti, e nel crescer del discorso ripete in certa misura l’azione scenica:

«O cacciati del Ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s'alletta?

Perché recalcitrate a quella voglia
a cui il fin non può mai esser mozzo,
e che più volte v'ha cresciuta doglia?

Che giova ne le fata dar di cozzo?

Pure al messo dai commentatori è stata attribuita una funzione di carattere politico, si è addirittura pensato ad Arrigo VII, ma vero è che tutto il canto sotto i suoi «velami» ricopre verità essenzialmente morali, un senso profondamente religioso, avvertito da quasi tutti gli esegeti per la sua stessa funzione strutturale. Ma allora il messo non nasconde sensi arcani, semmai si deve osservare il carattere della sua eloquenza, che rompe il silenzio, e come un oratore sacro conserva la sua superiorità di fronte agli ascoltatori, vivificando la scenografia. Qui il discorso dantesco, mescolando insieme elementi cristiani e pagani, esemplari quelle «fata», riesce più incisivo e pittoresco dei colloqui del I canto, poiché la parola si fa più frequentemente azione e scena. Tre sono le domande che l’angelo ha rivolto ai demoni con un procedimento preciso e incalzante, la prima delle quali risponde ad una tecnica rispettosa delle norme della retorica medioevale di cui possiede i caratteri e i meccanismi più perfetti. «I cacciati del Cielo» non ricordano o poco sanno della favola di Ercole e di Cerbero, tuttavia il richiamo rappresenta qui essenzialmente un ulteriore atto di omaggio all’autore dell’Eneide, il cui libro insieme con quelli della Bibbia si dovevano trovare sullo scrittoio del Poeta offrendo utili modelli alla cultura medioevale. Ma appena l’angelo ha terminato di parlare sembra che egli riprenda la sua dignità di fronte alla palese bassezza dei demoni. Eppure l’azione non gli concede molto tempo, si riaccende di nuova materia, egli non si preoccupa di rivolgere la parola a Dante o a Virgilio, che sono ben consapevoli del loro compito, e riprende la strada fangosa: «E non fe’ motto a noi». Ma la completezza della rappresentazione esige pure che nello svolgimento dell’azione egli esprima in modo efficace i motivi dei gesti e degli atteggiamenti, tale è infatti il:

sembiante
d'om cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante;

D'altra parte le «parole sante» hanno recato giovamento e conforto, è un risultato tanto efficace che i poeti possono ormai entrare senza alcuna guerra. Dante può finalmente procedere nel suo viaggio e osservare la mitica e dolorosa Città di Dite, come pure:

La condizion che tal fortezza serra.

Eppure, a ben riflettere, questa città fortificata non possiede né le strade né i vicoli dell'’amata e lontana Firenze, è solamente una distesa di squallida campagna, di Firenze semmai ricorda appena la pianura che si stendeva fuori del cerchio delle nuove mura, costruite durante la gioventù del Poeta. E la campagna si distendeva oltre le rosse mura ormai piena forse per lui di «duolo e di tormento rio». Di qui nasce una nuova similitudine, che ben risponde al confronto, con l'aspetto solitario e tremendo della scena, prima densa e affollata. Eppure in questa solitudine non esiste la pace dei morti, poiché «il modo vera più amaro», e di conseguenza il ricordo dei sepolcri romani di Arles, resi famosi nel Medioevo da una leggenda che narrava che contenessero i resti dei cavalieri morti a Roncisvalle e ad Aliscans, e della necropoli di Pola risulta soltanto un elemento topografico. Il Rodano stagna e rallenta il corso formando una palude, le acque dell'Adriatico segnano i confini d’Italia poiché bagnano le terre dell'Istria. E sono infatti riferimenti che richiamano l’aspetto fisico dell'invenzione infernale, sia per il carattere paludoso della foce del fiume, sia per la forza delle onde che battono le rive del mare. Ma la solitudine viene resa ancor più desolante, ché è:

piena di duolo e di tormento rio.

Gli avelli sono arroventati dal fuoco più del ferro, sono scoperchiati, al silenzio dei cimiteri fanno riscontro «i duri lamenti» dei miseri tormentati. Ed alla legittima domanda di Dante, Virgilio risponde che vi si trovano «gli eresiarche». Si sta ora scrivendo un breve prologo alle grandi pagine di poesia del canto seguente. Il Poeta si accinge a svolgere un argomento che ha toccato profondamente la sua coscienza e gli ha concesso insieme di confermare la sua ortodossia e di distribuire le pene infernali collocando gli eretici dopo gli incontinenti, ma prima dei violenti. Come è ben noto, l'eresia traeva la sua origine dall’erronea interpretazione della Sacra Scrittura, peccato che più tardi il Poeta identificherà allegoricamente nella «volpe, che d’ogni pasto parea digiuna». Il fenomeno era molto diffuso nell’epoca, il fuoco che tormenta i peccatori riproduce l’idea del rogo, la gravità della pena dei dannati può essere misurata con l'intensità del calore. Tuttavia il discorso procede come un freddo rendiconto, che nella solitudine del paesaggio riceve per noi un efficace commento dalle parole di Benvenuto da Imola: «Sunt mortui quantum ad fidem, et viventes sepulti, quia eorum vitium occultant nec audent propalare» .

Date: 2022-01-09