Il canto IX dell’Inferno [Luigi Pietrobono]

Dati bibliografici

Autore: Luigi Pietrobono

Tratto da: Il canto IX dell’Inferno letto da Luigi Pietrobono nella "Casa di Dante" in Roma il 14 gennaio 1951

Editore: Società Editrice Internazionale, Torino

Anno: 1959

Pagine: 5-20

Sono vive nella fantasia le scene così drammatiche alle quali Dante ci fa assistere sin dal suo primo affacciarsi al quinto cerchio. L'inferno, fino a quel punto, per mezzo de’ suoi mostruosi guardiani, aveva bensì opposto qualche resistenza al viaggio de’ nostri poeti; ma Virgilio li aveva presto ridotti al silenzio e disarmati con il suo magico: Vuolsi così. Ora però le cose accennano a metter male. Sulla cima delle torri, dall'una all'altra sponda della palude stigia, sentinelle che con «cenni di castella», annunziano l'appressarsi del nemico; parole oscure di minaccia del navicellaio che viene a traghettarli; scontri e zuffe, dalle quali Dante esce incolume quasi per miracolo; l'apparizione terrificante della città di Dite, «una delle imagini più evidenti, più tragiche e più concise che sieno nella prima cantica», secondo il parere del D'Annunzio; e sopra tutto l'atteggiamento risolutamente ostile de’ più di mille diavoli accorsi a ricacciar indietro l’audace che «senza morte va per lo regno de la morta gente»: tutto dice che l’inferno si appresta a mobilitare le sue forze e che siamo al passo forse più duro della difficile impresa. Noi non ce ne preoccupiamo per ragioni che non hanno bisogno d’esser chiarite; ma, come lettori, abbiamo torto; perché ci mettiamo in condizione di non rivivere appieno i sentimenti del Poeta che, al contrario, teme, dubita, si perde d'animo e, non vedendo altra via di scampo, scongiura il buon duca di tornare indietro e ritrovare le loro orme «insieme ratto».
Quando meno ci si aspettava, vediamo i viatori dell'oltremondo ara dar incontro a una vera e propria sconfitta. Come mai? Non è difficile spiegarselo.
Fin qui a Dante è stato agevole vincere i custodi incontrati di cerchio in cerchio, come quelli che rappresentano le varie forme in cui s'incarna la fiera che simboleggia l’incontinenza e che Dante ha vinto per virtù propria, agli allettamenti e alle seduzioni della lonza anteponendo le bellezze eterne. Ora però siamo venuti al limitare dell’inferno, posto sotto il dominio del leone che, ricordate, dopo un breve assalto sparisce per dar luogo alla lupa, alla fiera più temuta e più temibile, la quale «non lascia altrui passar per la sua via / ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide». Come dunque non deve sorprendere che Virgilio trionfi agevolmente delle resistenze incontrate nei cerchi superiori, così non dobbiamo trovare strano che nella lotta con quei diavoli, figli autentici della lupa, si dimostri sfornito delle virtù necessarie a superarne l'opposizione. Lo aveva già confessato da sè, indirettamente, con l’invitar Dante a tenere altro viaggio e, in maniera più aperta, con il dichiarare che senza il soccorso del cielo non sarebbe stato possibile vincerla — Verrà il Veltro liberatore, aveva annunziato lassù, nella «piaggia diserta»; e: «Già scende un Messo dal cielo», afferma qui, stando similmente sopra «maligne piagge». La situazione, se non m’inganno, è la medesima; e quanto accade davanti la porta di Dite altro non è che una prima variazione del motivo centrale del prologo. Tra i due episodi corre tuttavia una notevole differenza. Dalla vista della lupa, come è noto, usciva una paura che gli fece perdere «la speranza de’ l'altezza». Ma ora, per buona sorte, lo scacco patito per opera di quei maledetti non pare lo abbia scoraggiato fino a tal segno. Certo, al veder il maestro «tornare in volta» con passi rari, «li occhi a la terra e le ciglia rase d’ogni baldanza», Dante impallidisce così che il buon duca, per non finirlo di disanimare, si affretta a ricomporre a sicurezza il proprio volto, diventato rosso dall’ira. Pure quel suo pallore il Poeta vuole si sappia che non fu effetto di disperazione, ma di viltà:

Quel color che viltà di fuor mi pinse

Sembra un'inezia, ma non è. Pensatamente Virgilio, nell’allontanarsi da lui per andar a parlamentare coi diavoli, gli aveva raccomandato di confortare «lo spirito lasso» e cibarlo «di speranza buona», di quella cioè che consiste in «uno attender certo de la gloria futura». Sapeva che, qualora Dante si fosse spogliato di questa virtù, la battaglia sarebbe stata senz’altro perduta. Ma il Poeta, come apprenderemo poi dalle labbra stesse di Beatrice, era, di tutta la Chiesa militante, colui che possedeva la speranza più eroica. Per essa egli supererà ogni ostacolo dalle potenze del male opposto al suo cammino, e si leverà fino a spiccare il volo all’empireo.
In un momento tanto grave, mentre ogni cosa all’in- torno minaccia ruina e morte, l’alunno non perde la fede nella luce che gli arde dentro, e il maestro dà prova d’essere buon cavalcatore dell'appetito «che irascibile e concupiscibile si chiama», restringendo subito al cuore il sangue che l’ira gli aveva fatto salire al viso. Nella certezza che ad aprire quella porta sarebbe venuto un Messo dal cielo, Virgilio

attento si fermò com'uom ch'ascolta;
chè l'occhio nol potea menare a lunga
per l'aere nero e per la nebbia folta.

Lo vediamo fermo in mezzo al fumo che lo circonda e gli leggiamo nell'animo. Prima tenta di spingere lo sguardo quanto può lontano, se veda spuntare il Messo; ma poiché l’aria è oscura e sulla palude grava una fitta nebbia, abbassa il capo per raccoglier meglio i suoni e volge l'orecchio alla parte da cui si aspetta il soccorso. Senonchè sulla palude, poco fa così tempestosa, ora sembra regnare un silenzio di morte. Non un rumore, non un grido. Si argomenta da quella specie d’impazienza che Virgilio si studia invano di dissimulare nelle parole che gli escono dalle labbra:

«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el «se non... Tal ne s'offerse!...
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!».

Il tono del suo parlare è mutato. Poco fa aveva annunziato che, varcata la prima porta infernale, veniva giù di cerchio in cerchio «tal che per lui ne fia la terra aperta»: vedeva cioè scendere per l’erta dell’antidite un possente, che avrebbe senza dubbio spalancata la porta, dai diavoli chiusagli in faccia. Ora quella vittoria, data dianzi come sicura, gli apparisce soltanto possibile, o meglio, come qualcosa che bisogna conquistare a ogni modo:

Pur a noi converrà vincer la punga

Ma non ha finito di dirlo, che un dubbio gli traversa la mente. Sarebbe possibile, qualora continuasse a vedere quel grande scendere al soccorso? Se vogliamo spiegarcelo, bisogna ammettere che Virgilio è soggetto alla medesima legge di Farinata: vede le cose lontane, ma quando si appressano o sono, non le vede più. Perciò dall’esitazione passa al dubbio; se non...; ma non va avanti. Riflette forse che potrebbe finir di avvilire l’alunno, e si riattacca alla rivelazione avuta: Quel grande che non io sono andato a cercare, ma si è offerto da sè alla nostra vista, era veramente tale da vincere l'opposizione dei diavoli, qualunque essa sia: «qual ch'a la difension dentro s’aggiri». Ma non un suono, non un segno che l’aspettato giunga, e Virgilio esce in un atto di impazienza, data la delicatezza della sua condizione, spiegabilissimo:

Oh! Quanto tarda a me ch'altri qui giunga!

In tanta concisione, quanti sentimenti diversi e come veri! Si segue con l’ansia che suscita lo spettacolo di uno sbattuto da un implacabile infuriare di flutti, che ora paiono sommergerlo, ora riportarlo a galla. È chiaro tuttavia che alla piena ricostruzione del dramma in cui Virgilio si dibatte, rimane solo da scoprire che cosa sarebbe venuto appresso a quel suo: «Se non...».
Ma gli studiosi osservano che è una reticenza difficile a determinare nel suo senso preciso. Sarebbe, mi faccio lecito aggiungere, se il Poeta non avesse provveduto lui a commentare il suo silenzio.
Nell'aprile del 1311 Dante, turbato a causa del lungo indugio del suo Arrigo di Lussemburgo a muovere contro Firenze, gl’indirizzò la settima delle epistole pervenute fino a noi, nella quale: «Quando apprendemmo, gli dice, che tu scendevi già l’erta dell’Appennino, i nostri sospiri cessarono, si asciugarono le nostre lacrime. Il signore da tanto tempo invocato, veniva finalmente a renderci giustizia e a disperdere i satelliti di Satana. Ma il nostro sole (o che così ci porti a credere l’ardore del desiderio, o che così sia vera- mente) sembra che tardi a sorgere o sia tornato indietro; per cui, in questo stato d'incertezza, siamo costretti a dubitare e a chiedere: Sei tu colui che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro?»
Come è chiaro la scena del Canto che veniamo illustrando, riproduce esattamente le ansietà e i dubbi che in quell’occasione tormentarono il nostro Poeta, sì che nulla impedisce di compiere la parola tronca di Virgilio con le ipotesi Stesse affacciate da Dante per spiegarsi il ritardo dell’imperatore: Se non mi sono ingannato, se egli non è tornato indietro, se non se ne deve aspettare un altro.
Potete immaginare da ciò, se Dante nei gesti, nelle mosse e nella voce del maestro abbia intuito l'imbarazzo in cui questi si trova. L’ha osservato più attento che mai e, come accade nella paura, ha tirato al senso peggiore il tentativo di ricoprire il significato della parola tronca. I timori, ond’era stato assalito per la piaggia diserta, in parte risorgono, e gli fanno sospettare che Virgilio abbia — nientemeno! — sbagliato strada. Non potendo dirglielo aperto, gira un po’ largo e chiede se, tra i sospesi nel Limbo, qualcuno sia disceso mai nel fondo di quella «trista conca».
Virgilio, è superfluo dirlo, intuisce subito ciò ch’era sottinteso nella domanda e, senz'ombra di risentimento, con un fare dignitoso e nello stesso tempo disinvolto, lo rassicura appieno. Comincia — ed è un tratto di scrupolosa sincerità — col riconoscere che agli abitatori del primo cerchio accade rare volte di fare quel cammino; ma si affretta a soggiungere: Devi non di meno sapere che questa via l'ho percorsa un’altra volta per gli scongiuri della maga Eritone, la quale (come racconta Lucano) richiamava ai loro corpi le anime dei morti da poco, mandandone un’altra al posto di quella evocata. E così fu che mi convenne scendere fino alla Giudecca, il luogo più basso dell'inferno. Sappi inoltre che questa palude circonda all’intorno la città di Dite; sì che qualunque altra via, se ci fosse, dovrebbe di necessità riuscire a quella porta.
Dante non dice se Virgilio abbia chiuso il discorso guardandolo negli occhi con un lieve sorriso; ma noi si può benissimo immaginarlo, senza offenderne il carattere.
Così, in seguito alla resistenza dei diavoli, che impongono una sosta al viaggio, nel Poema s'inserisce molto naturalmente una breve digressione, che ci riporta di nuovo al tempo dell'impresa di Arrigo. Anche allora difatti nacque quistione sulla via che questi doveva tenere per muovere contro Firenze. Chi gliene proponeva una, chi un’altra: «ma Iddio — scrive Dino Compagni — l’ammaestrò; onde egli da Genova andossene a Pisa», per quindi lungo la valle dell'Arno appressarsi alla città ribelle.
Non si creda tuttavia che Dante a far ciò non abbia avuto anche la sua buona ragione artistica. Con il sto quesito impone una pausa nella tempesta dei pensieri turbinanti nel loro animo e fa che l'apparizione clamorosa ed improvvisa delle Furie ci prenda e ci riconduca di colpo nel vivo della battaglia. Credevamo che i diavoli, sbarrata la porta, si fossero ritirati dal combattimento, e preparavano invece l'assalto più fiero. In un punto, tutte e tre insieme, le meschine, le ancelle di Proserpina, moglie di Plutone, come di scatto, dritte in piedi, ecco, si affacciano sulla cima della torre che fiancheggia la porta di Dite. Grondano sangue — è questo il particolare che ci colpisce di più — sono cinte di idre verdissime (serpenti d’acqua velenosi, secondo Plinio, quanto i più velenosi della terra) e per capelli hanno serpentelli e ceraste (serpi, cioè, così dette dai corni dei quali armano il capo). La loro apparizione, convien confessare, non ci atterrisce troppo, sebbene fatta con colori accesi. Meno di tutti se ne sgomenta Virgilio che le conosce bene e ne dice il nome indicando nel tempo stesso il posto che occupano. Siccome è uso del Poeta preporre ad ogni cerchio guardiani o mostri che li personificano, direi che esse rappresentano i tre mali più gravi che restano a visitare: Megera, a sinistra, la matta bestialità punita nel settimo; Aletto, a destra, la frode punita nell’ottavo; Tesifone nel mezzo, il tradimento nell'ultimo. Vedendo che quei due misteriosi pellegrini poco le temono, com'è nella loro natura, si lasciano andare all'ira più pazza: si squarciano il petto con le unghie, si percuotono e gridano così alto che il Poeta per la paura si stringe alle spalle di Virgilio — tra loro e sè ponendo così il riparo della ragione. — Quelle, più infuriate che mai, ricorrono all'ultimo ratio, e tutte insieme, con quei loro occhi di fuoco appuntati su Dante, chiedono ad alte grida: «Venga Medusa; sì ’l farem di smalto». Mal provvedemmo a non prender vendetta di Teseo, quando con Piritoo assaltò l'inferno per rapire Proserpina.
Si sarà notato che sulla interpretazione delle tre Furie mi son regolato al modo di chi, per soddisfare alla curiosità dei lettori, esprime nella forma più spiccia la propria opinione e passa oltre, convinto che le molte e diverse spiegazioni, che se ne son date, non aggiungono né tolgono nulla alla poesia di Dante. Ma qui, con il Gorgon, ci troviamo alle prese con un problema dalla cui soluzione dipende la ricostruzione delle fasi succedutesi nel pensiero di Dante e l’interpretazione di alcuni dei passi più importanti della Commedia.
Quale significato dunque dobbiamo dare a quella testa, separata dal suo principio, che, veduta appena, fa l’uomo di sasso? Andarlo a cercare nei commenti antichi e nuovi sarebbe tempo perso: tanta e tanto grande è la varietà delle opinioni messe in campo.
Domandiamolo al Poeta che non manca mai di dar la spiegazione de’ suoi simboli, e spesso, come qui, per mezzo di immagini, secondo si conviene alla sua arte.
Non mi consta sia stato rilevato da altri, ma entrati che siamo nel cimitero di Dite, ecco che quella testa divisa dal suo principio ha un suo primo riflesso nella faccia pallida e lacrimosa di Cavalcante, uscente fuori dalla tomba «dal mento in su»; attraversando «l’orribile sabbione» dei violenti contro natura, essa riappare nei tre paterini di Firenze, i quali girano a ruota in modo da fare con il collo continuo viaggio opposto a quello dei piedi; nella quarta bolgia ci si rifà presente nella faccia degli indovini, stravolta sulla schiena; nella nona ci colpisce di terrore Bertram dal Bornio, che porta il capo «pesol con mano a guisa di lanterna»; e finalmente la sua ultima apparizione la fa nelle due facce di Lucifero, indipendenti naturalmente dalla linea del busto, la giallognola e la nera, le cui lacrime vanno a cadere sulle spalle.
Consideriamo per qual colpa tutti costoro hanno la faccia così straniata dal resto della persona, e ci persuaderemo che la loro pena è determinata come in tanti altri casi, dalla legge del contrappasso. E la ragione è chiara.
Basta rammentare che la ragione, secondo la teologia di Dante, altro non è che un raggio della mente divina, «di che tutte le cose son ripiene», per capire che perciò appunto quei tali portano la testa più o meno divisa dal busto, perchè separarono il pensiero dalla fonte onde deriva. Soffrono del male che fecero.
Ma, che nel Gorgon Dante abbia veduto la superbia della ragione in quanto, credendo di bastare a se stessa, si stacca da Dio o si ribella alla sua legge, si argomenta pure dai particolari del racconto. Le Furie non hanno finito d’invocare il Gorgon, che Virgilio ordina immediatamente al suo alunno di voltarsi indietro e chiudere, anzi tener chiusi gli occhi. E questo, se non erro, vuol dire che il Gorgon è tal cosa che non bisogna guardare: per vincerlo non c'è che un mezzo: rinunziare deliberatamente a vederlo. In secondo luogo noto che il maestro non solo gli ordina di voltarsi, ma lo volta lui stesso; non solo gli comanda di chiudere gli occhi, ma, non contento che Dante se li sia tappati con le proprie, glieli tappa anche con le sue mani.
Si sarebbe comportato così, qualora avesse saputo che Dante, per sua naturale disposizione, ripugnava a quella vista? Sapeva invece che c’inchinava con impeto, e perciò vuole assicurarsi che nessun raggio di quel volto cada sugli occhi dell'alunno.
Teme forse che quella testa non lo attragga a sè e con il proprio fascino non lo assoggetti di nuovo al suo imperio. Ove questo fosse accaduto, la speranza di veder riaperta quella porta sarebbe svanita per sempre.
È una interpretazione che non si riscontra, forse, in nessun commento e per questo si esiterà ad accettarla non avendo essa ancora avuto il collaudo dei dantisti. Ma non potendo ripercorrere qui la lunga via per cui son giunto a tal conclusione, in cambio di mettere in moto una serie di argomenti, si vada a ricercare, nell'ultimo Canto del Purgatorio, il luogo dove Beatrice, dopo aver accennato ai pensieri vani che hanno fatto alla mente di Dante ciò che l’acqua dell’Elsa agli oggetti che per qualche tempo vi restano immersi, la quale li incrosta di una specie di smalto, continua dicendo: Io vedo te, Dante, nell’intelletto «fatto di pietra ed impetrato, tinto», offuscato in guisa che la luce delle mie parole, anziché illuminarti, ti abbaglia.
Proprio così: fatto di pietra ed impetrato.
Per quanto mi sforzi non riesco a dare a queste parole un significato diverso. E siccome Beatrice non può sbagliare, preferisco ritenere con lei che un tempo (quasi di sicuro quello della sua passione per la donna-pietra) Dante mirò nella faccia del Gorgon.
Ma davanti la porta di Dite, alla minaccia delle Furie, liberamente, per consiglio della stessa ragione impersonata in Virgilio, rinunzia... a che cosa? a vedere. Chiude gli occhi e crede, Nell'ora in cui l'inferno ha scatenato tutti i suoi mostri per sopraffarlo, si ricordò di aver veduta un’altra luce e tornò a sperare nel prossimo risorgimento del mondo, del quale Beatrice era stata mandata a far segno: Incipit vita nova. Una vita novella incomincia. Non è questo l’annunzio che si legge al principio del libro dedicato a dir le lodi della giovinetta, che «non parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo»? Tornò, dico, a credere; ed ecco, il miracolo che colei era venuta di cielo in terra a mostrare, si avvera.
Si noti la grandiosità della rappresentazione. Colei che viene è simile a vento che soffia e le sponde della palude tremano, come al passo dell’Acheronte:

E già venia su per le torbid'onde
un fracasso d'un suon pien di spavento,
per che tremavano amendue le sponde.

Gli studiosi non ristanno dal chiedersi: il Messo chi è? un angelo? Enea? Mercurio? Mosè? lo Spirito Santo? Il Poeta risponde ch’egli è

non altrimenti fatto che d’un vento...

(e io, ricordando che nella Bibbia il vento spesso è sinonimo di forza e di potenza, torno con la memoria ad Arrigo VI, «il vento di Soave», che, al dir del Poeta, generò Federico II, «l'ultima possanza», l’ultimo imperatore dei romani).

Impetuoso per gli avversi ardori

(e mi viene alla mente l’epistola ai fiorentini, dove li ammonisce che la loro resistenza ad altro non servirà, se non a infiammare l’ira del giusto re che si avvicina

che fier (ferisce) la selva;

(e suppongo che il Poeta, meglio che alla «selva selvaggia» o all'«italica selva», allude alla «triste selva» in cui, nel quattordicesimo del Purgatorio, vedremo trasformata Firenze)

e sanz’alcun rattento

e senza che nulla o nessuno possa trattenerlo, perché: «A che cosa vi giova, scriveva ai fiorentini, esservi circondati di fossi, armati di torri e di merli, una volta che l’aquila d'oro trasvola monti e mari?» (fosse, torri e merli che si riscontrano pure in questo cerchio)

li rami schianta, abbatte e porta fuori

e rammento che nell’epistola ad Arrigo diceva: «Per distruggere le male piante poco vale reciderne i rami; bisogna andare alle radici ed estirparle, perché non mettano nuovi rampolli».

dinanzi polveroso va superbo

ma qui se non ricordo nulla, godo della immagine grandiosa che lo rende visibile nella sua corsa da gigante

e fa fuggir le fiere

che ai piedi del monte uscirono incontro a Dante a impedirgli la via

e li pastori

quelli che San Pietro vede «per tutti i paschi — in vesta di pastor lupi rapaci».
In una sola similitudine si risolve una serie intera di quesiti intorno ai quali si son versati fiumi di inchiostro. Il Messo è un angelo, mandato dal cielo a compiere contro i satelliti di Satana l’impresa, che poi il Veltro ripiglierà, nel mondo degli uomini, contro la lupa, finché non «l’avrà rimessa ne lo ’nferno là dove invidia prima dipartilla», vale a dire in Malebolge, dove appunto ritroveremo i diavoli che fuggono più che di furia all’appressarsi di lui. È una delle tante figure in cui ha incarnato il suo grande sogno; è la promessa che questo non tarderà ad avverarsi.
Molti, che dovrebbero arrossire d’aver scambiato Dante per un formidabile costruttore di enigmi, si sono accapigliati intorno al Veltro, se sarebbe stato un papa, un santo, un nuovo Cristo o che so io, senza badare che il Poeta, secondo il suo costume, ha detto quanto basta a capire che sarà un imperatore. Il Messo infatti è un forte, che passa «Stige con le piante asciutte», segno che la miseria del luogo non lo tange. Al solo vederlo questi orgogliosi, dianzi così tracotanti, non solo fuggono impauriti, ma addirittura distrutti, con gran soddisfazione di Dante che gode di rassomigliare la loro a una fuga di rane che testé riempivano de' loro gracidii il fossato, e ora, innanzi alla nemica biscia, non si fermano se non quando si sono appiattate al fondo dello stagno e con il dorso fanno una piccola bica. Ma è anche un supremamente giusto, se non vogliamo dire additittura il rappresentante della giustizia. S'indovina dal fastidio che prova della nebbia, che esala fittissima su tutto il pantano e dalla quale difende la vista «menando la sinistra innanzi spesso».
Con una mossa te lo pone sotto gli occhi, ti fa leggere nel suo animo pieno di una regale insofferenza e ti dà anche la misura della densità di quel «aere grasso», in cui e qui e nella Monarchia e nel Paradiso ha figurato la cupidigia, il male che «sempre, sebbene in piccola misura, vela l’abituale giustizia», e al quale non bisogna dar quartiere, perché, «rimosso che sia, niente più si oppone alla giustizia: nihil justitiae restat adversum. Al vedergli fare quel gesto Dante si volta a Virgilio, come per dirgli di aver capito chi si fosse colui che prendeva sopra di sè i nostri dolori e partecipava alle nostre miserie; ma Virgilio gli fa segno di tacere e inchinarlo, forse perché pensa con l’autore di Monarchia che «è meglio aspettare in pio silenzio il soccorso del salvatore».
Se egli avesse risposto: «Sì, è proprio lui, l’aspettato, il potente e il giusto che viene ad aprire quella porta e a ricacciare i lupi in Malebolge calcoli ciascuno, si dirà, da quante quistioni ci avrebbe liberati, e quanta luce con una semplice parola avrebbe gittata su tutta la Commedia. A me pare che, a suo modo, il Poeta l'abbia detto ugualmente, senza togliere alla sua creazione quel senso di mistero che sembra velarla e la ingrandisce.
Quella verghetta, con cui il Messo del cielo tocca la porta, è un altro indizio dell'autorità che rappresenta. L'inferno aveva chiamato a raccolta tutte le sue forze; ma quegli si appressa, e i diavoli se ne fuggono a precipizio; tocca appena la porta, e la porta si spalanca. Si ripensa al Giove omerico, che muove appena il capo e l'Olimpo trema.
Il medesimo Dante sognava dovesse accadere con i fiorentini, se anche all'avvento del Veltro si fossero levati in arme, come contro Arrigo. «Al tuo arrivo, scriveva a costui, i filistei fuggiranno e il popolo santo sarà liberato». «O cacciati del ciel»... grida il Messo sull’orribile soglia della città di Dite: donde traete argomento a tanta oltracotanza? Perché recalcitrate alla volontà divina, che giunge sempre infallibilmente al suo fine, e, come avete sperimentato più volte, quando vi opponeste a Teseo, a Ercole e al Cristo, vi ha sempre recato un aggravamento di pena? A che giova cozzare contro i disegni del cielo? È fatale che il mondo sia retto e guidato alla felicità terrena per mezzo della giustizia di Roma. Il vostro Cerbero, se ben vi ricorda, si oppose ad Ercole, ed Ercole, legatagli una catena al collo, lo trascinò, lui riluttante, fuori del vestibolo infernale, tanto che «ne porta ancor pelato il mento e il gozzo».
Dante non chiude gittando il ridicolo sopra i fiorentini, come il Messo sopra Cerbero, ma canta loro presso a poco il medesimo: «Non sapete voi che chi si ribella agli ordini divini, ricalcitra a una volontà che può ciò che vuole? e che è duro ricalcitrare allo sprone?».
Soddisfatto alla sua missione, il Messo si volta indietro, e per la via ond’era venuto se ne va senza far parola ai due, che son lì a inchinarlo, pieni di ammirazione. Si comporta non altrimenti da un ministro di giustizia che, per adempiere al suo dovere, non disdegna di scendere dove questo lo chiama: ma compiutolo, torna al suo seggio, pensoso solo delle cure che lo aspettano. Questo suo atteggiamento riservato e il silenzio di cui il Poeta lo circonda, accrescono il mistero che aleggia intorno alla sua severa e grandiosa figura. Anche noi lo seguiamo con lo sguardo quanto ci è possibile, finché non lo vediamo sparire in mezzo al fumo acerbo della palude; poi ci volgiamo ai poeti come per leggere nei loro volti la gioia della vittoria riportata; ma ci accorgiamo che essi, dimentichi già dei pericoli corsi e degli affanni sofferti, si affrettano verso la porta, che così duramente s'erano vista chiudere in faccia e per la quale ora entrano sicuri, «sanz’alcuna guerra». Da un momento all’altro la scena muta radicalmente di aspetto. Ma anche questa che sembra un’incongruenza, ci aiuta a intendere un lato dell'anima di Dante. Nessuno ha dipinto con più cupi colori lo stato della società dei tempi suoi. Il male, secondo lui, aveva corrotto ogni più remoto angolo della terra, e non c'era via di salvarsene; pure non dispera. Dio che aveva redento il mondo per mezzo della giustizia e della pietà, lo redimerà senza fallo un’altra volta servendosi della stessa virtù. Il risorgimento non può tardare. E tanta è la fede nella ineluttabilità del suo magnanimo sogno politico, che gli basta immaginarlo avverato, o in via di avveramento, per dimenticare tutte le ingiustizie patite. Si ripete nella Commedia quel che nell’epistola ad Arrigo. A un certo punto: «Perché, gli dice, ti attardi in Milano e ti lasci irretire dalle beghe di Brescia o di Pavia? Non sai dunque che il focolaio di ogni peste si chiama Firenze? Essa la vipera che s’avventa contro le viscere della madre, essa la Mirra scellerata che arde di fornicare con il padre, essa quell’Amata che si oppose alle nozze di Lavinia con Enea, e finì con l’impiccarsi». Ma poco appresso, nella chiusa, all'idea della vittoria, vede la notte e lo spettro della paura scendere sugli accampamenti nemici e non chiede altro: già l'animo ha ritrovato il suo equilibrio e si prepara a ricordare in pace le lacrime piante e le passate miserie. Alla tempesta segue immediatamente il sereno.
Perciò, varcata appena la soglia della città di Dite, altro non vuole che rendersi conto della «condizion che tal fortezza serra», ossia della qualità dei dannati chiusi là dentro. Gira lo sguardo a destra e a sinistra e le tombe, di cui il luogo è pieno, lo trasportano con la fantasia ai confini naturali dell’Italia settentrionale: ad Arles nella Provenza, a Pola presso il Quarnaro, «ch’Italia chiude e suoi termini bagna».
Il verso non aveva certo intenzioni politiche, ma semplicemente geografiche. Glielo ha dettato la sua musa, senza fargli però prevedere che, dopo secoli, la patria lo avrebbe prima recitato sottovoce, poi scritto nel suo vessillo e poi... poi sarebbe stata costretta a mormorarlo avvilita, non so con quanta speranza. Con molta, se avrà la fede di Dante nel trionfo finale della giustizia: fede in cui si compendia il sentimento generatore del Canto che abbiamo commentato e, possiamo aggiungere, di tutta la Commedia.

Nota

Nell’esposizione del Canto mi son servito volentieri, in qualche punto, delle Epistole di Dante, perché da un attento confronto di quelle scritte al tempo dell'impresa di Arrigo VII in Italia (V, VI e VII) con i Canti VIII, IX e X dell'Inferno mi è parso di poter concludere con certezza che quelle sono anteriori a questi e, quindi, che la Divina Commedia deve essere stata composta dopo la morte di quell'imperatore (agosto 1313). Data l’importanza dell'argomento mi permetto di rimandare allo studio «Sulla data della composizione della Divina Commedia» in Saggi Danteschi, Torino, S.E.I., 1954.

Date: 2022-01-11